Consulenze fonografiche
di Michele DonatiThe Beatles
1965
Dopo la pausa estiva, prolungata dal calendario fiscale sempre “generoso” quando si tratta di scadenze, torna lo spazio riservato alle consulenze fonografiche, così che della buona musica possa fare da sottofondo a questo periodo di apparente quiete dopo la tempesta, in attesa del Natale e della fine dell’anno.
E riprendiamo provando a colmare una lacuna rimasta ancora sino ad ora aperta.
Non si può parlare di musica, di dischi, di album che hanno fatto la storia, senza transitare per Liverpool, senza parlare di 4 ragazzi che hanno rivoluzionato il pop, e in generale la comunicazione, la cultura in ogni sua sfumatura.
Per comprendere appieno l’impatto che hanno avuto i Beatles basta pensare a un film di successo di recente pubblicazione – Yesterday – nel quale, appunto, il protagonista diventa una star musicale planetaria, in un mondo che ha resettato la presenza dei Fab four, grazie proprio alla reinterpretazione dei loro gioielli.
Oggi andremo ad assaporare un disco solo, apparentemente di secondo piano, ma in realtà nevralgico nella produzione dei Beatles, in quanto sostanzialmente segna il punto di svolta che trasforma il quartetto di Liverpool da semplice fenomeno di massa (particolarmente caro al pubblico femminile peraltro) a icona musicale immortale.
Siamo alla fine del 1965, e da ormai praticamente 3 anni John, Paul, George e Ringo, dopo una lunga gavetta per locali (in alcuni casi ricavati in scantinati come il leggendario Cavern) di tutta l’Inghilterra e non solo (celebri i loro live a Berlino e in Germania un attimo prima del successo di Love me Do del 1962), hanno scalato le hit di tutto il mondo con la stessa velocità vorticosa del gioco delle Torri Gemelle di Mirabilandia.
In breve tempo hanno conquistato prima il Regno Unito, quindi l’Europa, e per finire America e addirittura estremo oriente e Sol Levante.
Il loro successo sino a questo punto ha costruito le sue fondamenta su brani immediati e dal sound accattivante come Can’t buy me love, A hard day’s night, Please please me, e così via.
Nel 1965 i Beatles sono un’autentica macchina da guerra anche in termini di concerti e apparizioni live in televisione, alimentata da una produzione discografica vorticosa ed estremamente prolifica.
Se, da un lato, ciò regala una fama assoluta al quartetto, dall’altro rischia di schiacciarne sia le vite personali di ciascun componente, sia la vitalità e creatività artistica, che rischia di passare in secondo piano rispetto all’iconografia e al successo raggiunto.
Già la prima parte del 1965 aveva fatto registrare la pubblicazione di un disco dal titolo emblematico – “Help” – contenente uno dei brani più celebri e meravigliosi che sia mai venuto alla luce: Yesterday.
A fine 1965 i Beatles si ritrovano in studio di registrazione, ponendo però delle condizioni nuove e ferree: da quel momento in avanti meno concerti, meno apparizioni televisive, meno tournée, e focus puntato su ciò che meglio riesce loro, cioè suonare e scrivere capolavori destinati a restare indelebili nella storia della musica.
È con queste premesse che nasce “Rubber Soul”, da molti critici musicali e appassionati dei Fab Four ritenuto il disco della loro svolta musicale e artistica.
Ad annunciare questo mutamento ci pensa già la copertina dell’album, dove i quattro vengono ritratti con espressioni più cupe e misteriose rispetto a quelle a cui avevano abituato fans e mass media fino a quel momento, il tutto accompagnato da un andamento sfocato e sinusoidale dell’immagine.
Il disco si apre con Drive my car, pezzo trascinante e dal testo fintamente ingenuo e più probabilmente ambiguo.
Si prosegue poi con Norwegian wood, meraviglioso acquerello acustico, impreziosito dall’utilizzo del sitar, strumento appartenente alla tradizione musicale indiana.
La successiva You won’t see me è una godibilissima ballata pop, la cui genesi è, secondo la leggenda, da rintracciare in alcuni litigi tra Paul Mc Cartney e la sua fidanzata dell’epoca, Jane Asher, nel periodo immediatamente antecedente alla registrazione dell’album.
Si prosegue con le successive Nowhere man e Think for Yourself, a loro modo estremiste nel parlare di soggetti evanescenti come di altri, invece, oltremodo individualisti.
La successiva The World, caratterizzata da echi hippie e psichedelici, si connota per un sound che precorre la fine dei ‘60, il tutto senza che venga meno la straordinaria capacità dei baronetti di Liverpool di creare armonie vocali sorprendenti.
Il brano seguente rientra tra quelli che non hanno necessità di troppe presentazioni e che è facilmente rintracciabile nei libri di antologia musicale. In un filo diretto tra Liverpool e la Francia, la voce di Paul e un arrangiamento meraviglioso e minimale ci fanno conoscere Michelle, e a questo punto ogni altra parola scritta rovinerebbe la poesia di chi sta in questo momento ascoltando questo capolavoro assoluto.
Preso il giusto tempo per placare la commozione, si prosegue con What goes on, canzone leggera dalle sonorità country americane, che peraltro è anche annoverabile tra le rarissime performance vocali del batterista del gruppo Ringo Starr.
Si prosegue con un altro classico dei Beatles, brano che al netto del binomio convenzionale Lennon-Mc Cartney è da assegnare prevalentemente a John nella scrittura (così come Michelle è, invece, farina del sacco di Paul).
Dopo la gioiosa I’m looking trought you, si arriva a una perla nascosta della discografia dei Fab four, In my life, brano introspettivo, impreziosito da un intermezzo di clavicembalo e da falsetti vocali sublimi.
Ci si avvia, quindi, alla conclusione dell’album con Wait, e quindi con If I nedeed someone, che vede alla penna e al canto George Harrison, il quale, ogni volta che viene chiamato in causa, dimostra tutta la sua classe, sia vocale sia compositiva.
Chiude il disco Run for your life, e con essa termina questo breve ma intenso viaggio nella Merseyside e nelle sonorità immortali che hanno creato i suoi figli più celebri.