Il concetto di ragionevole accomodamento alla luce della più recente giurisprudenza
di Michele Donati Scarica in PDFLa Cassazione è recentemente tornata ad affrontare il tema del ragionevole accomodamento connesso alle fattispecie nelle quali il rapporto di lavoro va a coinvolgere persone in situazione di handicap in condizione di gravità.
Al ricorrere di tali scenari il principio generale, di derivazione comunitaria e recepito nel nostro ordinamento tra gli altri dall’art. 3, comma 3 – bis del D.Lgs. n. 216/2003, impone ai datori di lavoro, siano essi pubblici ovvero privati, di adottare tutti i possibili accomodamenti ragionevoli, al fine di garantire la piena uguaglianza a favore dei lavoratori con handicap in condizione di gravità (e più in generale nei confronti delle persone con disabilità) circa le condizioni complessive per lo svolgimento della prestazione.
Il concetto, oltre ad essere estremamente ampio e complesso, è connotato anche da un’estrema delicatezza, in virtù del fatto che molto spesso la necessità di adottare gli accorgimenti in trattazione è strettamente connessa con la sopravvivenza stessa del rapporto di lavoro.
Adottare tali misure può permettere, ad esempio, in molti casi la prosecuzione, ancorché rimodulata, di un rapporto di lavoro già in precedenza in essere, ma che in una situazione di disabilità sopravvenuta può aver trovato un elemento di ostacolo e discontinuità.
Di riflesso, l’assenza di una ricognizione complessiva rispetto agli accorgimenti in trattazione potrebbe, da un lato, portare a una risoluzione del rapporto, che a sua volta, però, potrebbe essere contestata proprio per la mancata valutazione del repêchage, nel caso di specie calibrato rispetto alle capacità residue e alla complessiva situazione personale del lavoratore interessato.
La Cassazione è recentemente tornata sul tema con l’ordinanza n. 30080 del 21 novembre 2024.
La fattispecie oggetto di tale pronuncia è estremamente interessante, in quanto non solo rimarca il principio già in precedenza richiamato, ma anche, e soprattutto, perché lo fa andandone ad estendere il perimetro di potenziale applicazione.
La situazione che giunge al vaglio della Suprema Corte è connessa a un licenziamento operato da un datore di lavoro in virtù di un’assenza apparentemente priva di giustificazione e relativa al periodo compreso tra il 20 luglio 2020 e il 25 agosto 2020.
Tale assenza si collocava a margine del superamento del periodo di comporto, e quindi del periodo massimo (secondo il dettato in materia previsto dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro all’epoca in essere) di aspettativa non retribuita.
Una volta terminate le possibili modalità di gestione di tale assenza, l’azienda datrice di lavoro aveva proceduto con la formalizzazione del licenziamento.
Sul punto, la Corte d’Appello chiamata ad esprimersi aveva confermato la legittimità del comportamento datoriale, sebbene si fosse già in tale fase in presenza di numerose richieste di trasferimento avanzate dal lavoratore, al fine di essere adibito ad altra sede, più facilmente per lui raggiungibile, e in via generale maggiormente in linea con la propria condizione di malato oncologico (e svolgimento delle annesse terapie).
La Cassazione ha ribaltato la pronuncia intervenuta in appello, partendo proprio dall’analisi di quelli che sono stati reciproci inadempimenti, elevando, quindi, a tale rango anche la posizione datoriale (insensibile alle richieste del lavoratore a ottenere un trasferimento che fosse funzionale per la sua complessiva situazione personale), andandolo a parificare con quello in origine contestato al lavoratore medesimo.
Partendo da tale considerazione, la Corte ha quindi ritenuto ammissibile l’ulteriore motivo di impugnazione avanzato da parte soccombente in appello, laddove veniva lamentata la violazione, ovvero l’errata applicazione, dell’obbligo generale di ragionevole accomodamento sopra richiamato, che in tali casi incombe sul datore di lavoro.
Nel travolgere la sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione ha voluto richiamare i principi generali e sovraordinati di parità di trattamento, che dev’essere garantito nei confronti delle persone con disabilità in costanza di esecuzione della prestazione lavorativa, garantendo ad essi la piena uguaglianza con gli altri lavoratori presenti nel complessivo contesto aziendale.
Richiamando, poi, il testo di legge (sia dell’articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003, sia dell’articolo 33, L. 104/1992), viene espressamente previsto che tali accomodamenti non debbono costituire la sopravvenienza di nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, dovendo quindi attingere dagli strumenti messi a disposizione della legislazione vigente.
Sempre a riguardo dell’aspetto economico, l’ordinanza n. 30080/2024 ricorda come nel concetto di ragionevole accomodamento debbano essere inclusi tutte le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati per realizzare il principio di uguaglianza e parità di trattamento a favore delle persone con disabilità rispetto alla complessiva platea dei lavoratori operanti in azienda e che, soprattutto, non comportino – in capo al datore di lavoro – il sostenimento di un onere che potrebbe essere ritenuto sproporzionato.
Rispetto a tale principio generale, la Suprema Corte ha rintracciato il vulnus del comportamento datoriale, laddove la richiesta di trasferimento più volte avanzata dal lavoratore – e la cui richiesta avrebbe impedito di innescare l’assenza di prestazione lavorativa che poi, una volta privata della necessaria giustificazione, avrebbe portato al licenziamento – può ben essere inserita in quel concetto di ragionevole accomodamento richiamato (anche in ordine alle condizioni generali di economicità e assenza di sproporzione), e ha, quindi, cassato la sentenza di secondo grado impugnata.