La comunicazione del licenziamento a mezzo whatsapp o sms
di Sergio PasseriniL’articolo, prendendo spunto da due recenti pronunce della giurisprudenza di merito, che grande curiosità hanno suscitato nell’opinione pubblica, affronta alcuni problemi connessi al licenziamento del lavoratore tramite messaggio whatsapp, tramite sms o tramite altre forme di comunicazione elettronica consentite dalla tecnologia, evidenziando come la giurisprudenza abbia senza troppe difficoltà già adattato anche a questi mezzi di comunicazione principi da tempo elaborati per altri strumenti.
Tribunale di Catania 27 giugno 2017: si può essere licenziati con un messaggio whatsapp?
Alla fine dello scorso mese di giugno ha suscitato molto interesse nella stampa, anche non specialistica, una pronuncia del giudice del lavoro di Catania, che ha dichiarato una lavoratrice decaduta dall’impugnazione di un licenziamento comunicato a mezzo whatsapp, per l’avvenuto decorso del termine di cui all’articolo 6, comma 2, L. 604/1966. Più nello specifico, la lavoratrice in questione aveva tempestivamente impugnato il licenziamento, inviando l’impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni dalla ricezione del messaggio whatsapp recante la comunicazione di licenziamento; altrettanto tempestivamente ella aveva poi promosso il tentativo di conciliazione, conclusosi con un mancato accordo; la decadenza è maturata successivamente, per aver la lavoratrice depositato il ricorso introduttivo del giudizio oltre il termine di 60 giorni dal mancato accordo previsto dall’articolo 6, comma 2, ultimo periodo, L. 604/1966 (“Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”).
Ciò che tuttavia ha suscitato curiosità nell’opinione pubblica è stata l’affermazione da parte del giudice del lavoro dell’idoneità di un “semplice” messaggio inviato tramite whatsapp a integrare una valida comunicazione di licenziamento e quindi a interrompere il rapporto di lavoro.
Il Tribunale di Catania ha in proposito affermato nella sua ordinanza: “Il recesso intimato a mezzo “whatsapp” il 25.3.2015 appare infatti assolvere l’onere della forma scritta, trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale in data 23.4.2015. […] La modalità utilizzata dal datore di lavoro, nel caso di specie, appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca, come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte”.
Le norme applicabili e la forma scritta del licenziamento
Per comprendere chiaramente i confini dei dubbi sollevati rispetto a questa decisione (dubbi sollevati, per la verità, più dalla stampa non specialistica che dagli operatori del settore) è bene risalire subito alle fonti. L’articolo 2, L. 604/1966, stabilisce che:
“1. Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro.
2. La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.
3. Il licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 è inefficace
4. Le disposizioni di cui al comma 1 e di cui all’articolo 9 si applicano anche ai dirigenti”.
L’articolo 6 della stessa L. 604/1966 prevede poi, nella prima parte del suo primo comma, che “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore …”; l’articolo prosegue poi specificando il termine ordinario per l’impugnazione giudiziale e il termine – già ricordato – per l’impugnazione giudiziale per il caso di richiesta di tentativo di conciliazione non andato a buon fine.
Quindi il licenziamento, tipico atto unilaterale, deve essere “comunicato” – essendo un atto recettizio – e deve essere comunicato “in forma scritta“, a pena di inefficacia. Un licenziamento non comunicato in forma scritta non interrompe il rapporto di lavoro e non fa decorrere il termine di decadenza per la sua impugnazione (la Corte di Cassazione ha ribadito ancora di recente che “L’azione per far valere l’inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata, anche a seguito delle modifiche all’art. 6 della l. n. 604 del 1966 apportate dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, all’impugnazione stragiudiziale, mancando l’atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza”: Cass. n. 22825/2015).
Prescindendo in questa sede dal tema della comunicazione della motivazione del licenziamento e dei suoi possibili vizi (tema che meriterebbe un approfondimento a parte), il primo dubbio è dunque questo: può un licenziamento comunicato non tramite la tradizionale lettera raccomandata con ricevuta di consegna, ma tramite whatsapp, oppure tramite sms o tramite altro mezzo di comunicazione telematica consentito dalla tecnologia (si pensi non solo ai più tradizionali fax o mail, ma anche alle comunicazioni effettuate tramite altri servizi di messaggistica o social vari), integrare il requisito di forma scritta del licenziamento?
Come è stato ricordato anche nella motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Catania, che ha offerto lo spunto per queste considerazioni, la giurisprudenza ha già da molti anni e in molte occasioni affermato che la previsione normativa della necessità che il licenziamento sia comunicato in forma scritta (requisito di validità dell’atto, e non solo di prova) non implica la necessità per il datore di lavoro di adottare formule sacramentali: è sufficiente che la volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro sia comunicata chiaramente; non sono necessarie formule particolari, è solo necessario che sulla volontà del datore di lavoro, comunque espressa in forma scritta, non vi possano essere equivoci.
La Cassazione ha molto semplicemente riassunto questa posizione, evidenziando che ai fini della validità formale del licenziamento sono indispensabili (e sufficienti) tre elementi:
- la manifestazione della volontà del datore di lavoro di porre fine al rapporto;
- la comunicazione di tale volontà al lavoratore;
- la forma scritta (Cass. n. 12529/2002).
Sulla base di questi principi è stato più volte ripetuto che la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore persino in forma indiretta, purché inequivoca, chiara e facilmente intellegibile, in modo da rendere conoscibile al destinatario, senza dubbi e incertezze, l’intenzione del dichiarante di estinguere il rapporto; e sono stati per esempio ritenuti adeguati come comunicazione del licenziamento sia l’invio al lavoratore di copia della comunicazione datoriale del licenziamento inoltrata agli Enti pubblici competenti, invio che assume forma scritta e costituisce inequivocabile manifestazione della volontà del lavoratore; sia la consegna al lavoratore del libretto di lavoro recante la dichiarazione di cessazione del rapporto di lavoro; sia la consegna al lavoratore dell’atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto. Non è stata invece ritenuta idonea come comunicazione di licenziamento la mera espressione del convincimento della validità di un precedente atto risolutivo del rapporto, ma solo in quanto dichiarazione priva di un autonomo contenuto volitivo.
Se questi sono i principi di riferimento, la ricordata decisione del Tribunale di Catania appare del tutto condivisibile e assai difficilmente contestabile: il messaggio whatsapp è senz’altro un documento scritto, ancorché informatico, rivolto a un destinatario specifico; dalla motivazione di questa ordinanza del Tribunale di Catania non emerge quale fosse il tenore letterale di questo messaggio, ma non abbiamo motivo di ritenere che si trattasse di un messaggio ambiguo, equivoco o non facilmente intellegibile; tanto che la lavoratrice lo ha subito impugnato stragiudizialmente come licenziamento.
Un messaggio di questo genere può avere una valenza comunicativa molto più immediata e diretta della consegna al lavoratore della comunicazione datoriale del licenziamento inoltrata agli Enti pubblici competenti, del libretto di lavoro recante la dichiarazione di cessazione del rapporto di lavoro o dell’atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto.
Lo strumento – telematico e forse poco usuale – di comunicazione non deve essere confuso con la forma della comunicazione trasmessa. In fondo, la trasmissione di un messaggio whatsapp può per certi profili essere anche più efficiente e dare più informazioni della spedizione di una lettera raccomandata a.r.: tramite il sistema della c.d. “doppia spunta” grigia e blu, una comunicazione tramite whatsapp può dare al mittente informazioni immediate circa la data e l’ora di consegna del messaggio nella casella del destinatario e circa la data e l’ora di lettura del messaggio da parte del destinatario. Informazioni che una spedizione raccomandata a.r. tramite il servizio postale non può dare con altrettanta precisione.
Ciò, salvi naturalmente i rischi di eventuali manomissioni informatiche, che tuttavia non appaiono significativamente superiori ai rischi, sia pure diversi, connessi a una spedizione tramite il servizio postale ordinario (basti pensare che, per costante giurisprudenza, la prova della ricezione di una raccomandata postale comporta la presunzione di conoscenza anche del suo contenuto, presunzione che spetta al destinatario cercare eventualmente di superare, ponendo in essere iniziative volte a dimostrare di non aver ricevuto la comunicazione inviatagli, perché per esempio la busta ricevuta era vuota, o di averne ricevuta una diversa da quella affermata dal mittente; si veda per esempio Cass. 21852/2016. Una comunicazione telematica appare sotto questo profilo normalmente più “trasparente” e tracciabile).
Il documento informatico e il Codice dell’Amministrazione digitale
Sotto il profilo del “supporto” del contenuto veicolato dal messaggio whatsapp, non va scordato che un messaggio di questo genere è pur sempre un documento, ancorché informatico; documento informatico al quale si applicano tutte le norme in materia presenti nel nostro ordinamento, tra le quali quelle contenute nel Codice dell’Amministrazione digitale (CAD), ovvero nel D.Lgs. 82/2005, come ripetutamente integrato e modificato negli ultimi anni.
Tra queste norme, meritano in particolare di essere qui ricordate quelle contenute negli articoli 20 e 21 del Codice dell’Amministrazione digitale, e la distinzione in esse evidenziata tra:
- documento informatico privo di firma elettronica (cui fa riferimento l’articolo 20, comma 1-bis, CAD, secondo il quale “L’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità”);
- documento informatico cui sia apposta una firma elettronica semplice (articolo 21, comma 1, CAD: “Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta e sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità”);
- documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale (che, secondo l’articolo 21, comma 2, CAD, “ha altresì l’efficacia prevista dall’art. 2702 del codice civile», in forza del quale «la scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta”).
In giurisprudenza, la mail è stata a volte considerata un documento informatico sottoscritto con firma elettronica semplice (“Lo scambio di messaggi di posta elettronica tra due soggetti si traduce nell’invio di documenti informatici, da ritenersi sottoscritti con firma elettronica c.d. semplice, in ragione dell’inserimento di username e password, la cui combinazione integra gli estremi di una sottoscrizione”: Tribunale Termini Imerese, 22 febbraio 2015).
Analoghe considerazioni sembrano potersi fare a proposito del messaggio whatsapp, e ciò comporterebbe l’applicabilità anche al messaggio whatsapp dell’articolo 21, comma 1, CAD, con conseguente esplicito riconoscimento normativo della sua idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta.
Se anche, tuttavia, non volesse individuarsi nel semplice accesso al servizio whatsapp tramite username e password un equivalente della sottoscrizione con firma digitale semplice, il messaggio whatsapp resterebbe pur sempre liberamente valutabile dal giudice quanto alla sua idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta (articolo 20, comma 1-bis, CAD); valutazione che, nel caso affrontato dal Tribunale di Catania, è stata effettuata – del tutto condivisibilmente – con esito positivo; e avrebbe comunque l’efficacia probatoria prevista dall’articolo 2712 cod. civ. (Tribunale Vicenza, 22 novembre 2016: “Il documento informatico privo di firma elettronica ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 c.c. per le rappresentazioni meccaniche di fatti e di cose e forma piena prova salvo disconoscimento circostanziato concernente la sua genuinità e attendibilità, che non impedisce al giudice di accertarne la conformità all’originale attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni”).
Corte d’Appello di Firenze 5 luglio 2016: il licenziamento a mezzo sms
Considerazioni analoghe a quelle sin qui svolte possono effettuarsi anche con riferimento a una comunicazione di licenziamento effettuata a mezzo sms: e infatti anche di licenziamenti comunicati tramite sms la giurisprudenza ha già avuto modo di occuparsi.
Con sentenza n. 629 del 5 luglio 2016, la Corte d’Appello di Firenze – riformando la decisione sul punto del giudice di primo grado – ha ritenuto che una comunicazione di licenziamento inviata dal datore di lavoro al lavoratore tramite sms (“Purtroppo ci sarà un cambio societario che non mi consente più di avvalermi della tua preziosa collaborazione. Ti ringrazio per il momento e ti auguro il meglio per la tua vita”) possa soddisfare il requisito di forma scritta richiesto dalla legge.
La Corte d’Appello ritiene che il messaggio sms possa essere assimilato a un telegramma dettato per telefono e richiama quindi i principi elaborati dalla Corte di Cassazione in merito al relativo requisito di forma, ricordando come la forma scritta per il licenziamento possa essere integrata da un telegramma in presenza di sottoscrizione da parte del mittente dell’originale consegnato all’ufficio postale oppure della consegna del medesimo da parte del mittente (articolo 2705 cod. civ.), e come alle stesse conclusioni la giurisprudenza di legittimità sia più volte pervenuta anche in caso di telegramma dettato per mezzo dell’apposito servizio telefonico, qualora – ove ciò sia reso necessario da contestazioni del destinatario – sia provata l’effettiva provenienza del telegramma dall’apparente autore della dichiarazione, anche per mezzo di testimoni o presunzioni.
Pur se si volesse ipotizzare di assimilare il messaggio sms a una comunicazione e-mail – prosegue la Corte toscana – risulterebbe peraltro in ogni caso applicabile l’articolo 20, comma 1-bis, D.Lgs. 82/2005 (CAD), secondo il quale l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio.
Nel caso affrontato dalla Corte d’Appello, il lavoratore non aveva in alcun modo contestato o messo in discussione la provenienza del messaggio sms dal datore di lavoro, né la legittimazione di chi aveva inviato il messaggio a procedere al licenziamento, né l’integrità, completezza e leggibilità del messaggio; e poiché – come rileva la Corte d’Appello in questa sentenza e come ha più volte rilevato la Corte di Cassazione a proposito del telegramma dettato per telefono – il problema non è tanto quello astratto dell’esistenza in sé della forma scritta, quanto piuttosto quello concreto di come risolvere eventuali contestazioni del destinatario del messaggio circa la sua provenienza dal mittente; in assenza di contestazioni in proposito non v’è motivo di dubitare dell’idoneità del messaggio sms a integrare una forma legittima di comunicazione di licenziamento.
Analogamente, anche il Tribunale di Torino aveva qualche tempo prima affermato come il licenziamento intimato tramite sms non sia assimilabile al licenziamento intimato oralmente, ma piuttosto a quello comunicato a mezzo telefax e come, al pari di questo, possieda certamente il requisito della forma scritta (Trib. Torino, 23 luglio 2014).
Altri possibili problemi, oltre alla forma scritta
Da quanto sin qui esposto emerge dunque che nelle ipotesi (peraltro finora davvero rare) di licenziamento comunicato tramite messaggi whatsapp o sms (o tramite analoghi sistemi telematici), non è la questione della sussistenza della forma scritta il tema destinato a essere oggetto di maggiori discussioni o a rischio di pronunce giurisprudenziali imprevedibili, quantomeno nei casi in cui un messaggio whatsapp o sms – inteso come documento informatico – esista effettivamente, sia integro e intellegibile.
È verosimile invece che in casi di questo genere possa porsi il problema di come risolvere possibili eccezioni del destinatario del messaggio elettronico:
- in merito all’assenza di sottoscrizione della comunicazione del licenziamento;
- in merito al difetto di legittimazione a procedere al licenziamento di chi ha inviato il messaggio;
- in merito all’arrivo del messaggio in un luogo che possa realmente qualificarsi come “indirizzo del destinatario”, a norma dell’articolo 1335 cod. civ. (“La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”: norma che si applica anche al licenziamento, come a qualsiasi altro atto unilaterale recettizio.
1. Con riferimento al tema dell’eventuale eccezione di assenza di sottoscrizione del messaggio, si è già anticipato come secondo parte della giurisprudenza l’utilizzo congiunto di username e password equivalga a una firma elettronica semplice. Questa valutazione è stata criticata da alcuni, in quanto username e password verrebbero inseriti dall’utente solo per ottenere l’accesso al sistema che consente e gestisce l’inoltro dei messaggi, non per fare proprio e sottoscrivere uno specifico messaggio; ogni messaggio dovrebbe dunque essere dotato di una propria sottoscrizione autonoma, in mancanza della quale dovrebbe considerarsi privo di sottoscrizione. La questione pare “sfuggente”; ricordiamo in ogni caso che la giurisprudenza ha già avuto modo di considerare valida anche una lettera di licenziamento priva di specifica sottoscrizione, quando non vi siano dubbi sul soggetto che l’ha inviata (“In considerazione dell’attenuazione del rigore in materia di sottoscrizione, talvolta risultante dal codice civile (art. 602, secondo comma) e talvolta dalla giurisprudenza (vedi Cass. n. 13103/1996, n. 2826/2000, n. 4921/2006, n. 13548/2006, in tema di conclusione del contratto con scrittura richiesta anche ad substantiam), può ritenersi valido un licenziamento intimato con una lettera non sottoscritta, ma recante nell’intestazione ed in calce la denominazione dell’impresa e il nome del titolare, trasmesso con raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riguardo al contenuto e non alla forma”).
2. Il tema della legittimazione a procedere al licenziamento del soggetto che ha inviato il messaggio elettronico è stato affrontato anche dalla ricordata ordinanza del Tribunale di Catania, la quale ha ricordato come, secondo pacifica giurisprudenza, la disciplina dettata dall’articolo 1399 cod. civ. – che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza – è applicabile, in virtù dell’articolo 1324 cod. civ., anche ai negozi unilaterali come il licenziamento. Quindi la comunicazione di licenziamento proveniente da un soggetto privo del potere di rappresentanza del datore di lavoro (nel caso concreto il messaggio whatsapp era stato inviato non dal titolare, ma dal direttore tecnico dell’impresa datrice di lavoro) può essere efficacemente ratificata dal titolare del potere di procedere al licenziamento, anche costituendosi in giudizio per resistere all’impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore che deduca il difetto di rappresentanza, non potendo il lavoratore essere compreso fra quei terzi di cui l’articolo 1399, comma 2, cod. civ., fa salvi i diritti. Come è ben noto, peraltro, ai sensi dell’articolo 1399 cod. civ. il difetto di poteri del falsus procurator può essere fatto valere esclusivamente dal rappresentato (il datore di lavoro), non certo dal terzo destinatario della dichiarazione negoziale (il lavoratore); e tale principio vale da sempre anche in materia di comunicazione del licenziamento.
3. La possibile questione relativa al luogo di ricezione della comunicazione di licenziamento discende dalla pacifica applicabilità anche al licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, dell’articolo 1335 cod. civ., e della conseguente presunzione di conoscenza della comunicazione solo nel momento in cui essa giunga “all’indirizzo” del destinatario. Un lavoratore potrebbe cercare di opporre che il telefono cellulare sul quale è stato recapitato un sms o un messaggio whatsapp non è il suo “indirizzo”. La giurisprudenza, tuttavia, ha ormai più volte ripetuto che la nozione di “indirizzo”, a questi fini, non è limitata alla residenza, alla dimora o al domicilio, ma comprende qualunque luogo che per collegamento ordinario o per una normale frequenza risulti in concreto nella sfera di controllo o di dominio del destinatario e dunque appaia in concreto idoneo a consentirgli la ricezione dell’atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto. Laddove dunque sia dimostrabile che il telefono cellulare sul quale il messaggio è stato recapitato era nella disponibilità esclusiva del lavoratore destinatario (soggetto cioè al suo “controllo e dominio”), anche un’eventuale eccezione di questo genere dovrebbe poter essere facilmente superata.
Come si vede, dunque, le norme esistenti e gli strumenti giuridici già elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina consentono di trattare senza troppe difficoltà anche le fattispecie e i problemi connessi a comunicazioni di licenziamento effettuate tramite sms, whatsapp o altro documento informatico. Ciò non toglie che, almeno per il momento, forme più tradizionali di comunicazione del licenziamento possano risparmiare a tutte le parti coinvolte probabili discussioni circa la validità e l’efficacia dell’atto di recesso dal rapporto di lavoro.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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