Codatorialità nei gruppi di impresa e conseguenze sulla titolarità del rapporto
di Luca VannoniRecentemente la Cassazione civile, sezione lavoro, con la sentenza 9 gennaio 2019, n. 267, ha affrontato un tema di estrema attualità, relativo alla gestione di un rapporto di lavoro in codatorialità tra più imprese appartenenti a un medesimo gruppo e le conseguenze in ordine alla titolarità condivisa del contratto.
Lo svolgimento di una serie di attività in favore più del gruppo che del formale datore di lavoro – e, per quanto risulta dalla narrativa della sentenza, tale attività non era supportata da ulteriori istituti come il contratto di rete o il distacco – avevano portato i giudici di merito a ritenere illegittimo (con reintegra del lavoratore) il successivo licenziamento collettivo in cui era rimasto coinvolto il lavoratore in codatorialità, in quanto le esigenze tecnico-produttive della procedura collettiva indicate nella comunicazione preventiva ex L. 223/1991 e l’individuazione dei criteri di scelta erano stati limitati al solo datore di lavoro formale, senza alcun riferimento alle altre società del gruppo.
Con la sentenza sopra citata, la Suprema Corte conferma la legittimità della pronuncia di merito, richiamando l’evoluzione giurisprudenziale sulla possibile configurabilità di codatorialità in grado di estrinsecare i suoi effetti in una forma di contitolarità del rapporto.
Originariamente, l’approccio della giurisprudenza ha valorizzato le frammentazioni fraudolente fra più società, in riferimento alla possibile elusione delle norme imperative – si pensi al requisito occupazionale rilevante per la tutela c.d. reale o all’ampiezza dell’obbligo di repêchage – e ha dato rilievo all’impresa unica dissimulata e mimetizzata nel gruppo.
Un passo successivo nella sistemazione dogmatica del tema, volto all’ammettere una codatorialità in riferimento a gruppi genuini, è stato compiuto, sulla scia della nozione di “direzione e coordinamento” di società all’interno di un gruppo di imprese, introdotta nell’articolo 2497 cod. civ.: la Cassazione n. 25270/2011 ha, infatti, sostenuto che “la direzione ed il coordinamento che compete alla società capogruppo, e che qualifica, ora anche in sede normativa (art. 2497 ss. c.c.), il fenomeno dell’integrazione societaria, può evolversi in forme molteplici che possono riflettere una ingerenza talmente pervasiva da annullare l’autonomia organizzativa delle singole società operative (accreditando un uso puramente strumentale o, in altri termini, puramente “opportunistico” della struttura di gruppo), ovvero un rilevante, ma fisiologico, livello di integrazione“.
La codatorialità nel gruppo di imprese presuppone l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione economica complessiva a cui appartiene il datore di lavoro formale nonché la condivisione della prestazione del medesimo, al fine di soddisfare l’interesse di gruppo, da parte delle diverse società che esercitano i tipici poteri datoriali e diventano datori sostanziali, secondo le regole generali di imputazione del rapporto all’effettivo utilizzatore della prestazione.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato come il lavoratore avesse “lavorato in modo del tutto indistinto per le esigenze del gruppo e della società formalmente datrice di lavoro ed essendo sottoposto ai poteri di eterodirezione della capofila“, così evidenziando l’esistenza di una stretta integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e di un coordinamento volto a far confluire le attività delle singole imprese verso un interesse comune, anche attraverso l’utilizzo promiscuo dei dipendenti.
Una volta accertata la codatorialità, essa non può che riverberare i suoi effetti anche su questioni afferenti il licenziamento, con procedura collettiva, del lavoratore: le esigenze tecnico-produttive e di riorganizzazione e l’individuazione dei criteri di scelta devono riferirsi all’intero gruppo.
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