8 Giugno 2016

Clausole elastiche nei rapporti part-time: la gestione dopo il D.Lgs. n.81/15

di Luca Vannoni

Per attenuare la rigidità della collocazione della prestazione di lavoro, l’art.6, D.Lgs. n.81/15, prevede la possibilità di concordare con il lavoratore clausole che, nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, potranno riconoscere al datore di lavoro il potere unilaterale di modificare la collocazione della prestazione ovvero aumentarne la durata.

 

L’evoluzione normativa dell’istituto

A differenza dei contratti di lavoro a tempo pieno, l’art.5, co.2, D.Lgs. n.81/15, prevede che debba essere indicato puntualmente, oltre alla durata ridotta della prestazione lavorativa, la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Definita quindi la collocazione della prestazione, essa non può essere modificata unilateralmente dal datore di lavoro, nemmeno per legittime esigenze organizzative e produttive: l’eventuale modifica unilaterale è illegittima e priva di effetto (si veda, tra le ultime sentenze in materia, Tribunale di Milano, 12 luglio 2011).

La possibile variazione dell’estensione o della collocazione deve essere quindi prevista da un accordo tra lavoratore e datore di lavoro, possibile sia al momento del verificarsi dell’esigenza di modifica sia in via anticipata, generalmente al momento della sottoscrizione del contratto, ma solo per una questione di forza contrattuale del datore di lavoro, con facoltà poi di quest’ultimo di attivare la variazione preventivamente concordata con il lavoratore.

Tali clausole sono appunto definite elastiche e sono regolamentate dal co.6, art.6, D.Lgs. n.81/15.

La materia è estremamente delicata, in quanto la prestazione part-time, se è funzionale per il lavoratore ad avere il tempo necessario per svolgere altra attività, che sia lavorativa, formativa o di assistenza o per gestire la propria famiglia, deve trovare comunque la possibilità di modificarne l’estensione o la collocazione: per questo motivo la regolamentazione di tali clausole non è libera, ma è soggetta a condizioni legittimanti, consistenti nell’esistenza di disciplina della contrattazione collettiva o nella certificazione della clausola.

Le difficoltà a trovare un punto di equilibrio tra le due opposte istanze è testimoniato dalla complicata evoluzione normativa dell’ultimo decennio, con continue modifiche sul punto.

La possibilità di autorizzare la variazione unilaterale era prevista, nel testo originario del D.Lgs. n.61/00, in termini estremamente restrittivi: oltre a essere limitata alla collocazione della prestazione, era riconosciuto al lavoratore un diritto di ripensamento sulla clausola sottoscritta. Con il D.Lgs. n.276/03 (Riforma Biagi), art.46, in modifica dell’art.3, co.7, D.Lgs. n.61/00, fu introdotta la possibilità di autorizzare il datore di lavoro alla variazione, temporanea o definitiva, della collocazione mediante la sottoscrizione delle clausole flessibili, nonché la possibilità di variare l’ammontare della prestazione mediante le clausole elastiche, abrogando il diritto di ripensamento del lavoratore.

La disciplina delle clausole elastiche e flessibili fu successivamente modificata dal c.d. protocollo Welfare (art.1, co.44, L. n.247/07), con il quale fu essenzialmente legata la possibilità di sottoscrivere le clausole elastiche e flessibili a un’espressa previsione da parte della contrattazione collettiva (“i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”).

La Legge di Stabilità, art.22, co.4 (L. n.183/11), ha poi abrogato l’intervento del protocollo Welfare sull’art.3, co.7, D.Lgs. n.61/00, ripristinandone il contenuto così come era stato modificato dalla Legge Biagi.

 

La disciplina vigente

La disciplina delle clausole per la variazione della collocazione o dell’estensione dell’orario di lavoro è contenuta nel co.6, art.6, D.Lgs. n.81/15: la prima novità che balza all’occhio è di carattere definitorio.

Non viene più riproposta la spaccatura tra clausole elastiche, volte all’ampliamento dell’orario di lavoro, e clausole flessibili, funzionali alla variabilità della collocazione, ma sotto l’ombrello delle clausole elastiche trovano dimora entrambe le situazioni.

Si ritorna, dunque, almeno a livello definitorio, alla situazione antecedente alla riforma Biagi del D.Lgs. n.61/00, dove erano regolamentate esclusivamente le clausole elastiche, che al tempo consentivano di intervenire solo sulla collocazione temporale della prestazione (solo con la Riforma Biagi, e con l’introduzione delle clausole flessibili, le clausole elastiche definivano la possibilità di variare l’estensione della prestazione).

In assenza, fermo restando quanto previsto in materia di lavoro supplementare e lavoro straordinario, il datore di lavoro non può modificare unilateralmente la collocazione e la durata della prestazione lavorativa rispetto a quella stabilita, nemmeno per legittime esigenze organizzative e produttive: l’eventuale modifica unilaterale è illegittima e priva di effetto.

Come anticipato, per poter legittimamente sottoscrivere una clausola elastica è necessario che vi sia una specifica disciplina prevista dalla contrattazione collettiva, di qualunque livello (si veda art.51, D.Lgs. n.81/15), ovvero, in sua assenza, che si certifichi la clausola contrattuale presso le Commissioni di certificazione.

 

La disciplina delle clausole elastiche

La legge conferma il preavviso minimo per l’attivazione delle clausole elastiche in due giorni (art.6, co.5, D.Lgs. n.81/15).

In esse, ovviamente in forma scritta, dovranno essere definite, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro può modificarne la collocazione temporale o variarne in aumento la durata: quest’ultima variazione non può eccedere il 25% della normale prestazione annua a tempo parziale. Il limite massimo complessivo consente che vi siano per brevi periodi forti aumenti della prestazione lavorativa.

Le modifiche dell’orario, sia in estensione che come variabilità, determinano in favore del lavoratore una maggiorazione retributiva onnicomprensiva pari al 15% della retribuzione oraria globale di fatto. Ovviamente, nel caso di estensione dell’orario, dovrà essere versata anche la retribuzione ordinaria per le ore di lavoro aggiuntive.

Nel co.7, art.6, D.Lgs. n.81/15, si prevedono una serie di ipotesi in cui il lavoratore ha facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola elastica: lavoratori affetti da patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti ovvero che riguardino il coniuge, i figli o il genitore del lavoratore; lavoratore con figlio di età non superiore a 13 anni e con figlio convivente portatore di handicap ovvero lavoratori studenti.

Al co.8 si specifica che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Tali ipotesi di revoca si considerano applicabili a prescindere dalle previsioni della contrattazione collettiva.

Si considerano legittime, inoltre, le diverse previsioni della contrattazione collettiva in ordine ai limiti massimi e alle maggiorazioni retributive, pur non brillando per chiarezza il dato normativo dell’art.6, D.Lgs. n.81/15, anche se peggiorative rispetto allostandard definito da un punto di vista normativo, applicabile, quindi, solo per le clausole senza contrattazione collettiva da certificare.

Nel Ccnl Turismo, ad esempio, le ore di lavoro ordinarie, richieste a seguito dell’applicazione di clausole flessibili, sono retribuite, per le sole ore in cui la variazione stessa viene effettuata, in misura non inferiore alla sola maggiorazione dell’1,5%, da calcolare sulla quota oraria della retribuzione, mentre possono essere concordate clausole elastiche relative alla variazione in aumento della durata della prestazione, entro il limite massimo del 30% della prestazione lavorativa annua concordata con maggiorazione forfetariamente e convenzionalmente determinata almeno nella misura del 31,5% (30% + 1,5%), da calcolare sulla quota oraria della retribuzione.

 

Consigli gestionali per l’utilizzo delle clausole elastiche

La nuova disciplina del part-time non prevede più, come ormai noto, alcuna specificazione tra verticale orizzontale o misto e, parallelamente, alcuna disciplina specifica per le clausole elastiche o flessibili. Nella disciplina previgente le clausole flessibili riguardavano tutte le tipologie del lavoro part-time  orizzontale, verticale e misto mentre le clausole elastiche solo il part-time verticale o misto.

L’aumento della prestazione, ad ogni modo, nel part-time orizzontale trova come istituto preferibile il lavoro supplementare, molto più semplice da gestire e da utilizzare (nel silenzio della contrattazione collettiva, viene prevista una regolamentazione normativa dei limiti del potere di richiesta del datore di lavoro, senza la necessità di clausole o accordi con il lavoratore).

Tecnicamente il lavoro supplementare, anche grazie allo svuotamento definitorio operato con il D.Lgs. n.81/15, può essere richiesto anche per il lavoro part-time verticale su base settimanale (es. prestazione solo tre giorni a settimana, forma assai ricorrente), nel caso in cui si chieda un giorno in più di lavoro che, complessivamente, non comporti un superamento dell’orario normale settimanale.

Tuttavia, nel caso si abbia la potenziale necessità di aumentare i giorni di lavoro in modo continuativo, è opportuno regolamentarlo in un clausola elastica, soprattutto se non vi è la necessità di certificare la clausola. Nello stesso modo, nel caso in cui sia prevedibile una necessità di costante aumento della prestazione per periodi consistenti, è opportuno regolamentare tale aspetto con clausola elastica.

Per variare la collocazione, o aumentare la durata per i part-time verticali al di fuori dell’orario settimanale (es. part-time verticale due settimane al mese, a cui viene chiesto di lavorare la terza), viceversa, non c’è alternativa alle clausole elastiche.

In caso di violazione illegittima delle regole sulla collocazione, oltre al diritto di stabilizzare l’orario di lavoro, il lavoratore potrà richiedere il risarcimento del danno, oltre alle maggiorazioni retributive eventualmente non versate.

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.