Il Ccnl negli appalti e subappalti dopo il D.L. 19/2024
di Andrea Asnaghi Scarica in PDFNell’ambito di una revisione complessiva del sistema sanzionatorio e di controllo delle esternalizzazioni (in particolare, appalto, distacco e somministrazione), il D.L. 19/2024, convertito con modificazioni dalla L. 56/2024 (G.U. n. 100/2024, S.O. n. 19), ha introdotto diposizioni volte a cercare di determinare il trattamento da destinare ai lavoratori impiegati in appalto e subappalto. Nel presente contributo si esamineranno le principali questioni applicative e le possibili ricadute di tale determinazione, che sembra introdurre particolari incertezze e insidie in una fattispecie già delicata e intricata.
Gli appalti, il dumping, il PNNR, la cronaca
Nell’ambito delle attività di attuazione del Piano nazionale di resilienza e resistenza (così giustifica la propria urgenza la titolazione del D.L. 19/2024) una parte minore, ma non secondaria per riflessi operativi, è dedicata a disposizioni in materia di lavoro, con particolare attenzione – sotto questo riguardo – specificamente su 3 aspetti, in qualche modo connessi: le esternalizzazioni produttive[1], la sicurezza sul lavoro e la rivisitazione dell’assetto ispettivo, il tutto affrontato negli articoli da 29 a 31 del decreto in argomento.
In parte, tale attenzione può, in qualche modo, essere giustificata dall’ambito nel quale viene posta: la realizzazione di opere pubbliche e private porta con sé l’inevitabile massa critica di attività che, per la maggior parte, verranno esercitate con appalti o fattispecie similari. D’altronde, nell’odierna organizzazione produttiva, la terziarizzazione, la specializzazione e la segmentazione sono un fatto naturale, ancorché, a volte, guardato con sospetto. Sospetto un po’ antimoderno, anche se certamente non si può negare l’esistenza – non esattamente marginale – di filiere illecite o, ancorché lecite, improntate al ribasso e al fenomeno del c.d. dumping interno, ove il ribasso non riguarda solo il trattamento economico, ma le tutele in generale, fra cui quelle relative a salute e sicurezza sul lavoro acquistano un profilo significativo e reso quasi drammatico da recenti e ripetuti avvenimenti.
E, a questo proposito, non si può non osservare come a dare un certo impulso al Legislatore siano stati anche i terribili incidenti di Firenze del 16 febbraio 2024 (peraltro replicati, con esiti ancor più tragici, lo scorso 9 aprile nella centrale elettrica sull’Appennino bolognese), con tutta la portata di rischio che può presentare una norma ideata sulla spinta dell’ondata emotiva e della risposta ferma da offrire alla pubblica opinione[2].
Tuttavia, proprio con l’evidente scopo di meglio regolamentare le filiere e contrastare i fenomeni di prezzi al ribasso con l’utilizzo di trattamenti economici borderline (i c.d. contratti pirata[3]), la norma introduce una regola sull’utilizzo dei Ccnl da utilizzare nei contratti di appalto e subappalto, norma che esamineremo in questo contributo sotto un profilo teorico e pratico. Non è certo la prima volta che il Legislatore agisce in materia, avvertendo l’esigenza di cui si diceva, addirittura (solo per fare alcuni esempi) diversi anni fa per il settore delle cooperative (articolo 7, comma 4, D.L. 248/2007) o il Terzo settore (articolo 14, D.Lgs.117/2017); ancor più recentemente da notare l’incisivo intervento con riferimento agli appalti pubblici (D.Lgs. 36/2023).
A ben vedere, l’esposizione, che potrebbe continuare, di tali previsioni normative, le quali presentano, l’una con l’altra, analogie e differenze, mette subito in rilievo la mancanza di sistematicità in materia da parte del Legislatore, ulteriore fonte di criticità che affronteremo nelle conclusioni finali.
La norma, la sua modifica, la sua rilevanza nella definizione delle fattispecie e rischi connessi
Il Legislatore del 2024 compie la scelta precisa di riportare nell’alveo del D.Lgs. 276/2003 tutta la parte normativa e sanzionatoria relativamente alle esternalizzazioni, lasciandovi fuori solo la regolazione (ma non la sanzione) dell’istituto della somministrazione di lavoro, trattato per la sua “identità contrattualistica” nel D.Lgs. 81/2015, che lo aveva per tale ragione espunto dalla Legge Biagi.
Per quanto qui in argomento, viene aggiunto all’articolo 29, comma 1, un comma 1-bis, per il quale “al personale impiegato nell’appalto di opere e servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale o territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”[4].
Le parti evidenziate in neretto sono frutto della modifica che, in sede di conversione, avvenuta in via definitiva il 23 aprile 2024 con il passaggio in Senato, sono state apportate al testo originario, rispetto al quale si notano 3 diversificazioni:
- una valorizzazione del subappalto, non considerato più una (indesiderata?) eventualità, ma dotato di una dignità propria, in particolare con la specifica che la contrattazione collettiva da individuare dovrà basarsi sull’attività peculiare subappaltata: la specifica non è da poco, con il dettato precedente, solo per fare un esempio, qualche accertatore “più realista del re” (pare sia successo davvero, proprio all’indomani dell’emanazione del decreto) avrebbe potuto assurdamente pretendere da un artigiano elettricista l’applicazione del contratto dell’industria edile, perché era quello che riguardava il complessivo appalto (di costruzione di un edificio);
- il trattamento da considerare (da qui la differenziazione fra l’originale “è corrisposto” e il modificato “spetta”) non è solo quello economico, ma anche quello normativo;
- ma, soprattutto, il riferimento non è al contratto collettivo “maggiormente applicato nel settore e per la zona”, ma si ritorna a un concetto più noto e meno equivoco, anche se non per questo di piana applicazione, di contratto stipulato delle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Se ritorneremo nel prossimo paragrafo sull’analisi concettuale della disposizione, la prima domanda che possiamo porci è se e in che modo questa disposizione possa in qualche modo incidere sulla definizione della fattispecie.
Detto in altri termini: un appalto (o un subappalto) in cui vengano applicati ai lavoratori trattamenti inferiori a quelli stabiliti dalla norma, possono considerarsi appalti genuini?[5]
La risposta non può che essere positiva. Anche proprio in funzione delle modifiche normative del D.L. 19/2024, continua ad essere considerato appalto illecito (o non genuino) solo quello che non corrisponde ai criteri dell’articolo 29, comma 1, D.Lgs. 276/2003, senza alcun riferimento al comma 1-bis.
E, infatti, la violazione di tali criteri, e quindi somministrazione irregolare o appalto illecito, è quella che sotto lo schema contrattuale formale dell’appalto avviene senza la concreta gestione dell’opera o servizio e il rischio d’impresa, risolvendosi nella mera fornitura di manodopera.
L’adozione di un Ccnl o di un trattamento che non rispetti le condizioni di cui al comma 1-bis non ha alcun effetto sulla qualificazione del contratto e sulla sua genuinità.
Vi sono, però, degli altri rischi qualificatori, di cui è necessario tenere conto:
- qualora l’appalto o il subappalto (e in questo senso anche il distacco) non siano di per sé genuini, ma celino una somministrazione irregolare di manodopera, l’adozione di un trattamento retributivo insufficiente (anche perché si discostasse dal precetto del comma 1-bis) potrebbe far sorgere l’ipotesi di somministrazione fraudolenta[6], ovverosia di un contratto già illegale di per sé, ma che, in più, viene a costituirsi con l’ulteriore e aggravante intento (il c.d. consilium fraudis) di ottenere un “risparmio” sulla pelle dei lavoratori; le conseguenze, importanti, di tale deriva sarebbero un aumento della sanzione penale (per il somministratore e per l’utilizzatore) e la ricostituzione ex tunc del rapporto in capo all’utilizzatore-pseudocommittente, con il rischio che quanto già esercitato dal datore di lavoro apparente (in termini di versamenti retributivi, contributivi e adempimenti vari) sia disconosciuto in forza della causa illecita quale impulso genetico del contratto stesso;
- un rischio di altra natura si palesa, invece, sempre in termini qualificatori, soprattutto in quelle filiere “lunghe”(cioè che si dipanano per vari subappalti) qualora il diminuito trattamento acquisisca le sembianze dello sfruttamento, andando così a configurare il reato di cui all’articolo 603-bis, c.p., reato, peraltro, che nelle organizzazioni complesse dev’essere oggetto di specifica attenzione e vigilanza per quanto previsto dal D.Lgs. 231/2001 (articolo 25-quinquies), con ulteriori sanzioni amministrative molto pesanti a carico della personalità giuridica che abbia omesso l’adozione di un modello organizzativo in prevenzione di tali fenomeni[7].
Al di là di questi aspetti, per così dire qualificatori, del contratto collettivo e/o del trattamento applicato, è ovviamente chiaro che un’attenzione da parte, in particolar modo, del committente o del subcommitente deriva dalla responsabilità solidale di cui all’articolo 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003, (con il D.L. 12/2024, ora ampliata dal comma 2-bis anche allo pseudoappaltatore, che torna ad essere coinvolto in solido, come già aveva preconizzato INL con la propria circolare n. 10/2018). Anche, infatti, senza giungere alle derive precedentemente delineate, l’appaltante comunque è chiamato a rispondere delle eventuali mancanze retributive e contributive con una responsabilità che si dipana dall’alto verso il basso su tutta la catena dell’appalto.
Non è questo, in realtà, un concetto nuovo e, anzi, segnalato da tempo dagli osservatori esperti: l’adozione di un Ccnl non congruo e/o comunque l’applicazione al personale impiegato in un appalto o in subappalto di trattamenti inadeguati, non idonei, ribassati (a volte anche con artifici contrattuali o fattispecie borderline) comporta il rischio di una ripresa, che coinvolge committente e subcommittente, sia sotto il profilo retributivo sia sotto quello contributivo. In particolare, la posta contributiva ha un ulteriore collegamento diretto con il trattamento retribuivo, per il combinato di almeno 2 diverse e note disposizioni di legge, l’articolo 1, D.L. 338/1989, in tema di minimale contributivo[8] e l’articolo 1, comma 1175, L. 296/2006, in tema di rilascio del Durc e conseguente fruizione di agevolazioni[9]; infatti, anche la perdita di agevolazioni, influendo sul dovuto contributivo, è oggetto di solidarietà, che non riguarda solo le sanzioni civili. Entrambe le norme, del resto, fanno riferimento all’applicazione di Ccnl di adeguata rappresentatività.
Per riassumere, sia l’adozione di Ccnl non congrui, sia la mancata applicazione (quale che sia il Ccnl prescelto) di retribuzioni e diritti che, comunque, assicurino al lavoratore un trattamento complessivo comparabile a quello della contrattazione maggiormente rappresentativa, costituisce una grossa esposizione per la filiera, a cominciare da chi di questa filiera è la testa, e così via via a scendere.
I problemi di definizione e individuazione del Ccnl
Usciti fortunatamente dai dubbi interpretativi che la prima stesura del decreto – con la nozione di “contratto maggiormente applicato” – aveva sollevato, cionondimeno anche nell’attuale versione, che sostanzialmente si riferisce al più noto è già utilizzato (ad esempio nel settore pubblico, con l’articolo 11, D.Lgs. 36/2023) criterio della “maggiore rappresentatività comparata”, le questioni applicative sono tutt’altro che piane e lineari.
La prima osservazione è che l’articolo, fuori della portata innovativa che gli si è voluto attribuire, poco cambia rispetto alla considerazione dovuta a quest’aspetto nell’ambito del controllo di un appalto, risolvendosi per lo più in una manovra a effetto mediatico (“basta coi contratti pirata, trattamenti equi al personale che lavora in appalto“!). Difatti, per effetto di quanto visto poc’anzi, il committente accorto che avesse voluto, in qualche modo, mettersi al riparo rispetto a possibili esposizioni in tema di responsabilità solidale, qualche puntuale domanda sul trattamento applicato ai dipendenti ivi impiegati avrebbe già dovuto porsela in passato. Diciamo che, al più, il comma 1-bis aggiunge un non disprezzabile effetto “rafforzativo”, il cui scopo fondamentale (a pensar male) sembra, tuttavia, quello di poter dispiegare più agevolmente interventi da parte degli agenti della vigilanza sul lavoro, ad esempio rispetto al potere di disposizione (articolo 14, D.Lgs. 124/2004) di applicazione di un determinato Ccnl o trattamento[10], ma, ancor peggio, ci sarà da aspettarsi della diffida accertativa (articolo 12, D.Lgs. 124/2004) qualora gli elementi dell’appalto (in termini di settore specifico, zona e rappresentatività) portassero a una definizione inequivoca della contrattazione e del trattamento applicabili; d’altronde, tale applicazione (la diffida accertativa) già è stata ipotizzata dall’INL nella circolare n. 3/2019 nell’ambito della somministrazione fraudolenta, con l’individuazione del Ccnl applicato dall’utilizzatore.
Però, permangono diversi dubbi sul testo normativo, che non riguardano il testo in quanto tale, ma gli annosi problemi legati alla mancata applicazione dell’articolo 39, Costituzione.
Elenchiamoli senza pretese di esaustività, ma solo per dar conto delle questioni irrisolte che gravitano intorno al problema:
- la battaglia sulla rappresentatività e sulla sua misurazione vive di alterni successi fra le OO.SS. della triplice e organizzazioni “minori”, che, tuttavia, sempre più conquistano spazi e riconoscimenti di rappresentatività, non solo nell’ambito del merito, ma anche con investiture istituzionali. Al riguardo, nessuno è in grado di misurare la reale rappresentatività comparata. Basti pensare che secondo il 25° rapporto Cnel su mercato del lavoro e contrattazione collettiva si sostiene che su un mercato del lavoro analizzato sulla base dei dati Inps (esclusi agricoltura e lavoro domestico), pari a 14.390.424 lavoratori, ben 13.858.739 risulterebbero coperti da contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil o loro federazioni, risultando, pertanto, che il numero dei Ccnl residui (quasi 800) si spartirebbe una fascia di poco più di 500.000 lavoratori (meno di 700 lavoratori a Ccnl, il che, come dato, lascia pensare sulla valenza di un contratto nazionale). Così fosse, non vi sarebbe alcun dubbio sulla maggior rappresentatività comparata, ma forse i dati suddetti qualche dubbio (anche magari provocato da chi imputa questi dati) sulla loro attendibilità lo pongono;
- anche nell’ambito degli stessi Ccnl “maggiori” vi sono molteplici fenomeni di sovrapposizione di ambiti (si ricorda che il perimetro di applicazione di un contratto collettivo è prerogativa esclusiva delle parti sociali firmatarie) e, del resto, non è un mistero la feroce spartizione fra le parti sociali di questa o quella branca di attività al fine di rafforzare la propria categoria contrattuale a svantaggio di altre (fenomeno, peraltro, che non poco ha inciso addirittura sullo stesso sistema di classificazione previdenziale delle aziende);
- non si deve dimenticare, inoltre, che proprio relativamente allo “specifico settore” oggetto dell’appalto e del subappalto insistono 2 ordini di problemi. Il primo è legato all’orientamento di cui alla sentenza di Cassazione, SS.UU. n. 2665/1997, che ridimensiona la portata dell’articolo 2070, cod. civ., ancorandone il significato originario alla (non più attuale) dimensione corporativa e, pertanto, slegandolo dalla contrattazione collettiva di diritto comune. Sicché, in nome del principio di libertà sindacale, un datore di lavoro sarebbe in via generale legittimato ad applicare, a libera scelta, un Ccnl di una categoria anche profondamente diversa da quella in cui opera. Ma ancor più paradossale è l’effetto per cui, pur nell’intento di voler garantire ai lavoratori i migliori trattamenti possibili, i concetti di “zona” (che sembra un probabile refuso del precedente inciso normativo, in quanto sarebbe stato sufficientemente coperto dalla dizione di contratto nazionale e territoriale introdotto dalla nuova versione del comma) e di specifico settore rischierebbero di promuovere l’adozione di contratti “minori”, ma che insistono su settori o attività specifiche, in contrapposizione a contratti di vasta applicazione e, per ciò stesso, più generici e meno settoriali; peccato che proprio sull’uso di molti di questi contratti collettivi minori si consumino differenze anche sostanziali in ordine al trattamento dei lavoratori, differenze in diminuzione sulle quali, inutile dirlo, la diffusione di tali contratti trova la propria fortuna. Senza contare che all’interno dello stesso settore possono trovare applicazione contratti collettivi che si differenziano non tanto per il settore di appartenenza, ma per caratteristiche soggettive dell’imprenditore (ad esempio, fra tanti, per l’appartenenza al settore artigiano o cooperativo, le cui specificità sono pure oggetto entrambe di tutela costituzionale, all’articolo 45).
Questi 3 elementi (il dato incerto della rappresentatività, la mancanza di una chiarezza delle categorie per cui si applichi una contrattazione piuttosto che un’altra, la libertà sindacale di applicazione di un determinato Ccnl – o di nessuno addirittura) sono i principali problemi che si determinano intorno alla valutazione di congruità[11] della scelta di un Ccnl o di un trattamento economico rispetto a un altro.
Con 2 ulteriori osservazioni, che certo non contribuiscono a offrire soluzioni interpretative:
- la magistratura ha messo recentemente in risalto (dalla sentenza di Cassazione n. 27711/2023 in poi) la propria autonomia decisionale rispetto al ruolo della contrattazione collettiva, pure se stipulata da OO.SS. sicuramente rappresentative, alla luce dell’applicazione del trattamento minimo statuito dall’articolo 36, Costituzione; seppure su una casistica peculiare e obiettivamente non priva di evidente criticità, ne è risultato un principio di discutibilità del potere delle parti sociali più famose a rappresentare indefettibilmente il punto di paragone dell’equa retribuzione (ciò che, d’altronde, troverebbe il suo limite anche nella non attuazione dell’articolo 39, comma 2, Costituzione);
- l’estrema eterogeneità di scrittura e contenuti della contrattazione collettiva in Italia e la considerazione di un’amplia variabilità di elementi (economici e non) peculiari e difficilmente comparabili in termini di valenza rende pressoché impossibile qualsiasi elemento di paragone relativamente al trattamento complessivo di 2 differenti contratti collettivi; la norma, infatti, non impone, né potrebbe costituzionalmente farlo, l’adozione di un determinato Ccnl, bensì “un trattamento economico e normativo” a esso non inferiore. Il che è argomento assai problematico. A tal fine, basterebbe scorrere il punto 7 delle linee guida Anac n. 1/2023 per capire non solo quanto sia insidioso e complesso (anche in tal caso) individuare il criterio di maggior rappresentatività comparata, ma soprattutto quanto sia arduo stabilire un criterio di comparazione fra 2 contratti collettivi al fine di accertarne l’equivalenza, già solo per la parte economica, senza contare quella normativa[12]
Soluzioni operative e conclusioni.
A questo punto è chiaro che l’operatore si trova di fronte al solito, classico, dilemma: come operare?
Sicuramente il comma 1-bis qui in commento rappresenta un indirizzo (per quanto criptico e sibillino), ma, soprattutto, un monito: nelle fasi di appalto e subappalto bisognerà porre un’attenzione ancor maggiore dell’attuale al trattamento economico e normativo riservato ai lavoratori ivi impiegati.
A parere di chi scrive, può essere rischioso (e quindi va attentamente considerato[13]) inseguire “le discese ardite e le risalite” di chi propone, promuove e giustifica contrattazioni “minori”, anche se sorrette da qualche giurisprudenza di merito (la quale non può far altro, allo stato attuale delle cose, che constatare l’impossibilità di dimostrazione di una rappresentatività, quale che sia, per cui un accreditamento al Cnel già scombina le carte in tavola a chi volesse forzare la mano), non fosse altro perché, in ogni caso, resta sempre il potere del giudice di agire in forza dell’articolo 36, Costituzione, e pertanto, in qualche caso, potrebbe capitare, come avvenuto in passato, di veder prendere a base di riferimento di un trattamento dignitoso il disposto di un contratto collettivo di portata maggiore e con provvidenze migliori verso il lavoratore, senza contare che rimane inalterato il potere degli enti previdenziali di agire comunque in forza dell’autonomia del diritto previdenziale (ex multis, Cassazione n. 463/2012 e n. 20/2016).
Il rischio, e andrebbe già bene, è quello quantomeno di trovarsi nel mezzo di un aspro contendere processuale, trascinato spesso fino in Cassazione (il che, anche in caso di eventuale ma improbabile esito positivo, sarebbe spesso una vittoria di Pirro).
Sicuramente andare per la strada maestra è consigliabile: la scelta più sicura e garantista è quella di individuare (e non è nemmeno così difficile) il contratto collettivo che – confortato dalla rappresentatività delle sigle maggiori e comunque pianamente applicabile all’attività appaltata – offre maggiore sicurezza e propone un trattamento apprezzabile. Tuttavia, non si può nascondere che tale scelta conduce a un circolo vizioso su cui bisognerebbe porre un’attenta riflessione: se si sceglie il Ccnl di maggiore tenuta (o presunta tale), agendo in tal modo si rafforza il medesimo Ccnl e le parti sociali che lo sottoscrivono, con buona pace della libertà sindacale e della competizione (sindacale e non), conferendo spesso alle stesse parti un potere che non sempre le stesse agiscono con responsabilità e obiettività.
D’altronde, è stato più volte osservato che sono proprio gli stessi operatori professionali a scegliere per il cliente il contratto da applicare, in un’ottica di prudenza (spesso) o di abitudine (talvolta), creando un fenomeno ritorsivo e autoreferenziale. Chi scrive, però, personalmente non riesce ad apprezzare chi nel mondo professionale trova la propria distinzione e vanto nel “consiglio trasversale”, per 2 ordini di motivi, con cui si chiuderà questo contributo.
La prima osservazione dev’essere rivolta al Legislatore (e, di riflesso, anche alle parti sociali): un diritto non esiste senza l’esigibilità e la praticabilità concreta dello stesso. Detto in altre parole, se non si individua la strada per sciogliere il nodo della rappresentatività e quello della scrittura chiara e comparabile di tutta la contrattazione, rimarremo (e questo articolo dovrebbe averne dato ampia dimostrazione, purtroppo) in mezzo a un guado, con un principio normativo di incerta e contraddittoria interpretazione (e conseguente applicazione). Questo, tuttavia, è il metodo migliore per far insinuare nelle pieghe dell’incertezza qualsiasi meccanismo di furbizia e iniquo risparmio, che è esattamente ciò che si suppone il Legislatore volesse arginare (riuscendoci solo in parte).
La seconda osservazione è correlata alla prima e va, invece, rivolta al mondo imprenditoriale e, di riflesso, a quello del lavoro in generale: deve affermarsi un concetto, pragmatico prima ancora che giuridico, per cui davanti a un costo del lavoro che presenta più di una criticità il risparmio non può essere fatto deprimendo tutele e trattamenti verso i lavoratori. Stiamo andando verso un mondo che pone come cruciale il problema della sostenibilità, tanto ambientale quanto sociale. Talvolta la questione è rivolta, purtroppo, più alla realizzazione di un’immagine alla moda che non a un’effettività dei processi organizzativi, ma il problema non è solo quello di una sensibilità sociale, quanto quello della promozione di forme di imprenditorialità (e quindi di concorrenza) responsabile e leale. Paradossalmente, le 2 osservazioni si rincorrono in circolo: senza regole chiare, nella debolezza delle norme e dei controlli, la concorrenza si fa sleale e la furbizia alligna, d’altronde è difficile agire un’imprenditorialità sana in un mondo che spesso vira in altra direzione.
In generale, il D.L. 19/2024 sulle esternalizzazioni perde l’occasione di uno sguardo sistematico e olistico al problema, ma sull’aspetto specifico dell’applicazione dei Ccnl soffre anche di colpe non sue, dando comunque un’indicazione apprezzabile e di sicuro impatto (di cui tener assolutamente conto), ma rimanendo impossibilitato a mettere una parola davvero risolutiva e, quindi, contando ancora una volta sulla responsabilità e il buon senso di imprenditori e professionisti, che per la maggior parte si dovranno far carico di scelte prudenti e oculate, con spazi in cui, purtroppo, potrà ancora infilarsi, seppure con qualche difficoltà in più, la concorrenza alterata.
[1] “Esternalizzazioni produttive“ è il termine ormai sdoganato con cui si identificano tutti quei fenomeni di dissociazione fra la titolarità del rapporto con il lavoratore che esegue un’opera o un servizio e la fruizione effettiva di tale attività da parte di un utilizzatore, che, però, non riveste la qualifica di datore di lavoro. Storicamente incentrata sulla fattispecie dell’appalto (e del suo contraltare, la somministrazione di lavoro), oggi la portata dei fenomeni di terziarizzazione è talmente ampia da giustificare, almeno in termini di riflessione sistematica, un concetto il più estensivo possibile.
[2] Su un primo commento, non privo di spunti critici, sull’impianto complessivo delle norme revisionate in materia di appalto e fattispecie contigue, si conceda il rimando ad A. Asnaghi, “Le esternalizzazioni produttive e il d.l. 19/2024: più ombre che luci?”, in SINTESI, marzo 2024, disponibile su https://consulentidellavoro.mi.it. Il rimando a F. Avanzi, M. Cundari, A. Asnaghi, “Le forme di esternalizzazione del lavoro dopo il DL 19/2024. Prime Considerazioni sulle novità in materia di appalti, distacchi e somministrazione”, in La Consulenza del lavoro, n. 28, aprile 2024, permette a chi scrive di ringraziare i coautori per alcuni spunti utili a questo contributo.
[3] Qualsiasi sia la significanza che si voglia dare a questa definizione, spesso contestata, si tratta di contrattazioni collettive che si distinguono per una rimarchevole depressione del trattamento economico e normativo verso i lavoratori.
[4] Si riporta per confronto anche il testo originario del decreto: “1-bis. Al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”.
[5] La domanda potrà sembrare capziosa, ma forse non lo è se si pensa (ad avviso di chi scrive, con un mastodontico travisamento della realtà – vedi Protocollo sulla cooperazione 10 ottobre 2007) che diversi anni fa si propugnò il concetto che le cooperative spurie erano quelle che non applicavano i contratti collettivi stipulati dalle centrali cooperative, e non – come dovrebbe essere in realtà – quelle in cui i soci non partecipano concretamente alla gestione della cooperativa.
[6] La somministrazione fraudolenta (articolo 18-ter, D.Lgs, 276/2003, qui inserito dal D.L. 19/2024) è quella “posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
[7] Al riguardo, vi è una diffusa ed erronea tendenza a considerare l’ambito dell’articolo 603-bis relativo alle forme più estreme di caporalato, quale quello in certi ambiti dell’agricoltura; tuttavia, l’orientamento più recente della magistratura è quello di sorprendere e perseguitare lo sfruttamento, collegandolo all’approfittamento di uno stato di bisogno del lavoratore, anche in casi meno eclatanti, e addirittura senza la necessaria presenza di un intermediario (Cassazione penale n. 24388/2022). È, quindi, un fenomeno su cui le organizzazioni, spesso complesse, che terziarizzano le proprie attività, debbono riservare una particolare attenzione, come dimostrano anche i recenti fatti assurti alla cronaca per il coinvolgimento in queste fattispecie di notissime case di moda milanesi.
[8] La norma prevede che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali non possa essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.
[9] Peraltro, si segnala che anche tale disposizione è stata rivista dal D.L. 19/2024, con l’ampliamento degli oggetti di attenzione ostativi al rilascio del Durc, ma anche con l’inserimento di un comma 117-bis, che non farebbe perdere le agevolazioni in caso di successiva regolarizzazione degli obblighi contributivi e assicurativi entro i termini indicati dagli organi di vigilanza.
[10] Si veda in proposito la sentenza n. 2778/2024 del Consiglio di Stato.
[11] Usiamo il termine “congruità” qui in senso lato, ma non è possibile non richiamare brevemente, e non solo per assonanza, il tema della congruità in edilizia, dove la soluzione adottata, non priva di discutibilità sul piano normativo, procedurale e costituzionale, è stata quella di demandare in prima battuta il controllo di un ampio settore di attività alla regolazione e al monitoraggio da parte di enti e accordi di natura privatistica. Peraltro, tale scelta viene ulteriormente rafforzata dal D.L. 19/2024, all’articolo 29, ai commi 10-12, prevedendo anche specifiche sanzioni in caso di saldo finale dei lavori senza verifica della congruità edile.
[12] A tal fine, secondo Anac e INL (circolare n. 2/2020), si dovrebbero comparare: lavoro supplementare, lavoro straordinario, disciplina compensativa delle ex festività soppresse, periodo di prova e di preavviso, periodo di comporto in caso di malattia e infortunio, trattamenti in caso di malattia, infortunio e maternità, monte ore di permessi retribuiti, bilateralità, previdenza integrativa, sanità integrativa(!). È del tutto evidente a chiunque si occupi anche solo tangenzialmente di lavoro l’assoluta aleatorietà e precarietà di una simile comparazione.
[13] Ad esempio, anche in termini di garanzie complessive (leggi: fideiussioni, accantonamenti di un fondo rischi, assicurazioni, solidità finanziaria, etc.) da chiedere all’appaltatore.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”