27 Ottobre 2020

Il caso (non) strano del lavoratore che voleva essere licenziato

di Evangelista Basile

Una recente sentenza del Tribunale di Udine del 17 giugno 2020, pubblicata lo scorso 30 settembre, ha portato alla ribalta la prassi – ahimé, non troppo rara – della risoluzione dei rapporti di lavoro per il tramite di “raffinati” sistemi di licenziamento basati su assenze ingiustificate deliberatamente poste in essere dai lavoratori, in luogo della rassegnazione delle dimissioni, per accedere al trattamento NASpI.

Il meccanismo è semplice, ma d’effetto: il lavoratore, per un motivo X, esprime al datore di lavoro la propria volontà di lasciare il posto di lavoro, ma, avendo comunque necessità (o semplicemente non volendovi rinunciare) di accedere al trattamento di disoccupazione, mette in scena un licenziamento per giusta causa infallibile, assentandosi ingiustificatamente.

Badate bene, non è da escludere che in qualche caso il datore di lavoro finisca per non opporsi a questa prassi e magari “accontentare i desideri” del lavoratore pseudo dimissionario, ma, nel caso di Udine, è stato accertato che la volontà di recedere fosse tutta in capo al lavoratore, il quale si è trovato dunque a rifondere il c.d. ticket licenziamento alla società datrice di lavoro.

Secondo la difesa del lavoratore, il comportamento posto in essere sarebbe un diritto che l’ordinamento concede ai prestatori di lavoro. In realtà, con l’introduzione delle norme relative alle dimissioni (la cui ratio è chiaramente tutt’altra ed è improntata ad evitare che il datore di lavoro possa facilmente indurre il lavoratore a recedere dal rapporto), è naturalmente venuta meno ogni possibilità di dimissioni per fatti concludenti.

Secondo la società, invece, essendo stata costretta dal comportamento inadempiente del lavoratore a procedere al licenziamento (ma non avendone per converso alcuna intenzione), spettava a quest’ultimo il pagamento di tutti gli oneri aggiuntivi che si è trovata ad affrontare, in primis il ticket.

Con la pronuncia in esame, il giudice ha dato ragione alla società, valorizzando l’indagine sulla volontà – unico vero discrimine fra dimissioni e licenziamento – e ritenendo il comportamento del lavoratore giuridicamente (ma si vuole dire, anche eticamente) non corretto e condannandolo, pertanto, alla refusione di quanto speso dalla società.

Fra l’altro, come si evince anche dalla lettura della sentenza, parallelamente è stato incardinato anche un procedimento penale: immaginare il motivo è presto detto, un comportamento simile, oltre ad aver procurato un danno al datore di lavoro, ne ha di certo provocato un altro all’intera collettività, per essersi il lavoratore appropriato di somme destinate a persone che involontariamente perdono il posto di lavoro.

Spesso l’ordinamento ci mette a disposizione strumenti e diritti e usufruirne è del tutto legittimo, ciò che invece non lo è mai è cercare di abusarne.

 

Segnaliamo ai lettori che è possibile inviare i propri commenti tramite il form sottostante.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Diritto del lavoro