14 Luglio 2022

Il caporalato a tutto campo, ma senza caporale

di Riccardo Girotto

Stando al dizionario Treccani, per caporalato si intende: “Forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, spec. agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali …”.

La deprecabile condotta dei caporali nel mondo del lavoro è stata oggetto di abbondanti attenzioni, più mediatiche che afflittive, ma una vera soluzione al fenomeno, di fatto, non si è mai raggiunta: colpa della commistione tra apparato sanzionatorio di matrice penale e organi preposti alla verifica dei rapporti di lavoro (per lo più amministrativi), colpa del tenore letterale delle norme afflittive e del loro coordinamento, colpa, in modo particolare, della reale volontà nell’affrontare il problema.

L’evoluzione delle previsioni sul caporalato nel nostro codice penale è un raro esempio di sopravvivenza dalla depenalizzazione del diritto del lavoro, finalizzato a marcare il focus sulle condotte più becere che travolgono il principio del primo articolo della nostra Costituzione tramite la pratica dello sfruttamento.

Tutto chiaro negli intenti, ma, negli effetti, l’attuale portata dell’articolo 603-bis, c.p., è assai distante dalla ratio ispiratrice, tanto che il richiamo al caporale come unico soggetto punibile, come da formulazione originaria del testo foriera di scarsissima produzione giurisprudenziale, si amplia nella nuova formulazione a punibilità diffusa, con particolare attenzione al reale utilizzatore: più semplice da scovare, punire e, quindi, da dissuadere. Di fatto, la norma sul caporalato perde il focus sul caporale.

Il testo dell’articolo 603-bis, c.p., in vigore tende, oggi, a punire condotte generiche, sicuramente illecite, riscontrabili in ogni settore, allontanandosi, quindi, dall’area agricola e da precise zone del Paese, consegnando un presidio sanzionatorio attrattivo verso le casistiche più disparate. I requisiti di applicazione si concentrano su un paio di condizioni integranti: lo sfruttamento e lo stato di bisogno.

In modo particolare, la norma identifica gli indici di sfruttamento utili a identificare la fattispecie:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da 1/3 alla metà:

  • il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a 3;
  • il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
  • l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

I requisiti sono parsi, fin dalla loro entrata in vigore, difficilmente recintabili, tantopiù dal punto di vista pratico, ove l’Ispettorato del lavoro, costretto a incentivare profonde attività di indagine e verifica delle condotte personali penalmente rilevanti, dopo qualche anno, tramite circolare n. 5/2019, ha denunciato la necessità di programmare le verifiche come attività di Polizia giudiziaria in stretto coordinamento con le competenti procure e i Carabinieri del comando per la tutela del lavoro. Seguitamente, la giurisprudenza di legittimità, su tutte Cassazione n. 46842/2021, ha caricato la cifra dell’incertezza, qualificando gli indici come non determinanti e insufficienti, da soli, a completare il quadro della fattispecie.

Conforme Cassazione n. 45615/2021, che, affrontando la punibilità della condotta legata alla reiterata corresponsione di retribuzioni difformi alla disciplina contrattualcollettiva, precisa che l’attività di intermediazione illecita, per essere promossa a caporalato, deve risultare esercitata mediante violenza. La Suprema Corte, con pronuncia n. 7861/2021, richiama poi lo stato di bisogno, che, non potendo poggiare su indici definiti, deve concentrarsi sull’abuso della condizione esistenziale della persona, noto al reclutatore o all’utilizzatore oltre che cavalcato per fini illeciti.

Ancora, nella pronuncia n. 46842/2021 lo stato di bisogno viene definito come situazione di grave difficoltà in grado di condizionare le scelte, da provarsi in modo puntuale e concreto; ecco che, nel caso di specie, l’utilizzo di mere presunzioni a sostegno dell’apparato sanzionatorio ha riabilitato il presunto trasgressore. Inutile ribadire come questo passaggio renda ostica, per l’ispettore, e pericolosa, per il possibile destinatario della sanzione, l’attività di verifica.

Il principio più importante, che integra la prima delle pronunce citate, è che la nuova formulazione dell’articolo 603-bis, c.p., non può determinare in re ipsa lo stato di bisogno, in ogni caso di accettazione di condizioni retributive inferiori a quelle previste dal Ccnl (che poi a contare dovrebbe essere l’articolo 36, Costituzione), in assenza del dolo, anche in forma eventuale del soggetto attivo.

La Cassazione penale n. 24388/2022 ha considerato applicabile la sanzione ex articolo 603-bis, c.p., nel caso di dipendenti assunti part-time e retribuiti ufficialmente come tali, ma sostanzialmente occupati full time. Proseguendo la disamina del caso di specie gli Ermellini si sono prodigati nella definizione di stato di bisogno così da plastificare la fattispecie. Ebbene, per lo stato di bisogno è sufficiente l’esigenza di mantenimento dell’occupazione e la difficile ricollocabilità nel mercato, così da limitare la libera volontà delle vittime. Curioso notare come il presunto caporale, colui cioè che ha reclutato la manodopera, non sia stato nemmeno indagato.

L’esempio di come una norma del genere possa, altresì, qualificarsi dinamica, oltre che aperta, è offerto dal Tribunale di Milano, che, il 15 ottobre 2021, ha condannato per caporalato una società di rider operante a favore del colosso Uber. Come abbiamo visto, le valutazioni di merito sullo stato di bisogno spesso si sgonfiano in Cassazione, ma l’adattamento sanzionatorio alla gig economy è comunque sintomo di una normativa in mutazione ad applicazione diffusa.

Complesso, quindi, non è comprendere chi rientri nel campo di applicazione della misura, bensì chi ne sia escluso. Nella sostanza, il rischio è quello di aver destinato il diritto penale a sanzionare condotte amministrative.

Tutti dentro al calderone, quindi, presupposto dalla buona resa dal punto di vista afflittivo, ma totalmente estraneo al principio di materialità del diritto penale. Uno stato dell’arte che sicuramente agevola sanzioni e incassi, ma che lascia a bocca asciutta i puristi del dizionario Treccani.

 

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