Cambiare tutto per non cambiare niente?
di Evangelista Basile
La sentenza della Corte di Cassazione n.20540/15 è stata spiegata dai primi commentatori con spirito gattopardesco, un misto di cinica realtà e rassegnazione: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. La citazione della celebre frase di Tomasi da Lampedusa parrebbe adattarsi al caso delle tutele crescenti: anche se il Legislatore ha cambiato completamente la tutela contro i licenziamenti con il D.Lgs. n.23/15 – sembrano dire i primi commenti – i giudici continueranno ad applicare la sanzione della reintegra come in precedenza.
Non condivido i commenti pessimistici che hanno accompagnato la sentenza in esame.
La pronuncia in commento tratta un caso che ricade sotto la disciplina dell’art.18 St.Lav., come modificato dalla riforma Fornero del 2012.
A una lavoratrice erano state contestate una pluralità di condotte, alcune risultate insussistenti (ossia i fatti contestati non erano stati provati), altre prive di illiceità, ossia di rilievo disciplinare. Alla luce di tali risultanze, la Suprema Corte ha concluso per l’illegittimità del licenziamento disciplinare e per la tutela reintegratoria, affermando che – parlando di “insussistenza del fatto contestato” – il Legislatore ha voluto negarla sia nel caso di fatto non sussistente (ossia inesistente o non provato) sia nell’ipotesi di fatto materialmente sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione.
A me pare assolutamente corretto che la completa irrilevanza giuridica del fatto contestato sia equiparato alla sua insussistenza materiale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria. Né dobbiamo meravigliarci se – anche sotto la vigenza del nuovo regime delle “tutele crescenti” – i giudici del lavoro applicheranno tale principio.
Anzi, questo orientamento sgombra il campo da molti equivoci denunciati all’indomani della nuova disciplina delle tutele crescenti. Alcuni infatti hanno sostenuto che – con il contratto a tutele crescenti – i datori di lavoro avrebbero potuto adottare licenziamenti facili, fondati su fatti del tutto privi di rilievo: ti contesto che hai una camicia rossa o che trascorri il fine settimana in compagnia di un amico d’infanzia, che tuttavia risulta un concorrente del datore di lavoro.
È del tutto ovvio che tali circostanze, se anche materialmente sussistenti ossia provate in giudizio, non costituirebbero fatti illeciti né inadempimenti contrattuali, per cui è corretto che gli stessi vengano equiparati – dai giudici del lavoro – alla stregua dell’“insussistenza del fatto”.
In altri termini, sia in base alla vecchia disciplina dell’art.18 St.Lav. sia con i contratti a tutele crescenti, il datore di lavoro – se vuole evitare il rischio della reintegra – dovrà contestare al dipendente mancanze che:
- sia in grado di provare con sufficiente certezza;
- costituiscano inadempimenti contrattuali o comunque circostanze di rilievo disciplinare.
La vera novità è che – in base alla nuova disciplina dei licenziamento – una volta rispettati i due requisiti sopra indicati, l’eventuale sanzione per il licenziamento disciplinare illegittimo – perché in ipotesi sproporzionato – verrà sanzionato con una tutela risarcitoria di importo predeterminato.
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