Attrazione industriale e respirazione assistita
di Riccardo GirottoL’elemento assente, totalmente, nell’azione di Governo di questi mesi complessi è la visione prospettica.
Le soluzioni proposte per il superamento dell’emergenza assomigliano al cemento posticcio utilizzato per coprire le buche e consentire una vacillante viabilità, senza precisare quando la strada verrà nuovamente asfaltata per intero. L’esperienza insegna che il più delle volte le buche coperte rimangono in quella condizione per alcuni anni, forse qualche decennio.
Anche nella gestione delle crisi di rilevanza strategica lo Stato ha spesso optato per interventi posticci, rischiando di incagliare ogni possibile composizione. Si pensi a Ilva, Alitalia, Autostrade, più che aziende “MISSIONI ITALIANE”, dove l’aspetto più critico è legato ad attrarre imprenditori che possano sviluppare un business tale da garantire profitto, nel rispetto di condizioni dettate dall’interesse pubblico.
Mediare tra interesse pubblico e incentivo a fare impresa è storicamente un problema dai confini infiniti, sul tema già Keynes becchettava Adam Smith; la soluzione va cercata nel lungo periodo con progetti certi e visione lunga. Va da sé che attrattività fa rima con credibilità. Al momento, nel nostro Paese, su questo aspetto l’equilibrio sembra precario.
La tutela pubblica annovera tra i target primari la continuità occupazionale, storicamente vera punta di diamante della dialettica politica e vero nodo operativo delle soluzioni tecniche da calare sulle crisi d’impresa. Sul punto, la recente sentenza n. 10415/2020 della Suprema Corte sigilla i diritti dei lavoratori coinvolti da un trasferimento d’azienda in crisi, guarda caso l’azienda coinvolta nel gravame è proprio una di quelle citate, che ancora oggi non vede la luce in fondo al tunnel che proprio la gestione statale ha contribuito a scavare.
Nel profondo del caso trattato dagli Ermellini si scorge un confronto sindacale aspro, con sigle che stentano a trovare una sintesi delle proprie posizioni e che, proprio a causa della loro frattura, alimentano il contenzioso che sfocia nella sentenza (in realtà una coppia di sentenze) d’interesse.
La possibilità di limitare il passaggio dei dipendenti nelle operazioni di salvataggio viene riservata dalla giurisprudenza di legittimità ai meri casi previsti dall’articolo 47, comma 5, L. 428/1990, dove la finalità liquidatoria riveste un ruolo determinante, mentre nelle diverse situazioni di crisi componibile, dove il controllo dell’Autorità pubblica è marginale e si concentra sulle fasi prodromiche, ma non nello sviluppo sostanziale dell’operazione, non risulta possibile scalfire i dettami imposti dall’articolo 2112, cod. civ., senza il coinvolgimento del singolo lavoratore interessato.
Come da dottrina premonitrice, gli Ermellini propongono una lettura del comma 4-bis comunitariamente orientata, distante dal dettato letterale no limits “… l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo …”, ma protetta dal nuovo Codice della crisi d’impresa, che, pur ancora lontano dal produrre i propri effetti, riscrive il testo del comma proprio recependo questa logica ermeneutica.
Ma quale effetto può produrre il comma 4-bis a questo punto?
Forse nessuno. Una rapida ricognizione del testo, coordinato con la lettura della Suprema Corte, ma altresì con i pilastri del codice civile, chiarisce come la compressione dei diritti individuali non potrà mai trovare residenza in un accordo collettivo e l’autonomia nella contrattazione continuerà a scontrarsi con limiti invalicabili, fatta salva, chiaramente, la decozione richiamata dal comma 5.
La posizione della Suprema Corte fa propendere per una visione delle deroghe alla Legge tramite la contrattazione che potenzialmente coinvolgerà la prossimità, nell’ottica di un sentimento popolare di chiusura e di una pratica sul campo sempre più sofisticata, dove le parti non sono autonome, ma guidate da uno Stato che, con i tempi che conosciamo, si farà unico portatore dell’interesse pubblico, snobbando anche l’azione sindacale. Quest’ultima, su queste basi, non potrà che diventare superflua, tamquam non esset.
Le compravendite di aziende in crisi non permetteranno, quindi, la dismissione di diritti individuali, che, anche nella comfort zone dell’articolo 2113, comma 4, cod. civ. – “… Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile …” – libereranno sempre e unicamente il cedente ai sensi dell’articolo 2112, comma 2, cod. civ. “… il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro …”.
Tutto questo, paradossalmente, mal si concilia con l’appetibilità stimolante per nuovi possibili investitori; le pezze temporanee dello Stato imprenditore continueranno a rappresentare la respirazione artificiale al cospetto di un, probabile e imminente, incremento dei tavoli di crisi.
Eppure, mai come oggi le terapie intensive dovrebbero tornare quanto prima libere e disponibili.
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