L’ampiezza della tutela offerta dall’assicurazione Inail e le malattie da lavoro
di Fabio PontrandolfiCon l’ordinanza 5 marzo 2018, n. 5066, in commento, la Corte di Cassazione ripercorre il progressivo ampliamento della tutela offerta dall’Inail e corregge l’interpretazione delle Corti di merito, che avevano escluso le conseguenze dello stress da lavoro dalla tutela, facendo un’errata applicazione della giurisprudenza amministrativa che a suo tempo aveva annullato la circolare dell’Inail (n. 71 del 17 dicembre 2003) in tema di stress e di costrittività organizzativa.
Premessa
L’ordinanza affronta la questione del riconoscimento come malattia professionale di un disturbo dell’adattamento e stato depressivo causato da stress lavoro-correlato, negato dai giudici di merito sull’osservazione che la noxa non sarebbe prevista e tutelata né tra le malattie tabellate (di presunta origine professionale) né tra quelle non tabellate (con onere della prova a carico del lavoratore) né sarebbe contratta nell’esercizio e a causa di una lavorazione specifica prevista nella tabella.
In sostanza, i giudici del merito hanno dato un’applicazione alla legislazione in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali legata al tradizionale fondamento della tutela, individuabile nel nesso causale tra evento protetto e malattia (come descritti in tabella).
La Cassazione riprende invece la lettura estensiva dell’originario sistema delineato dal testo del D.P.R. 1124/1965 sulla base degli interventi della Corte Costituzionale e del Legislatore, che hanno ampliato la tutela, allontanandola progressivamente dalla logica assicurativa (anche in relazione al premio pagato dall’impresa) verso una logica di copertura sociale, nel senso che “ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata”.
Per chiarire i motivi di divergenza tra le Corti territoriali e la sede di legittimità occorre, in via preliminare, operare un chiarimento degli argomenti affrontati nel provvedimento in commento, per poi poter riaffermare i principi tuttora validi ai fini della tutela assicura assicurativa.
In primo luogo, rileva il corretto principio condensato nell’affermazione sopra richiamata, secondo cui: “ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata”.
Esso fa riferimento all’apertura operata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988, che ha introdotto il principio secondo cui: “l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro”.
Qui si prende in considerazione il regime della prova della sussistenza del nesso eziologico tra malattia e la lavorazione patogena esercitata per le malattie non rientranti nella tabella per le quali opera una presunzione di origine professionale.
In secondo luogo, viene in esame il principio relativo all’ambito di tutela dell’assicurazione Inail, secondo cui “rileva non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il c.d. rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa”.
L’affermazione – integrata dalle ulteriori osservazioni relative al tema dell’infortunio in itinere, alle malattie professionali, al rischio ambientale – fa riferimento all’estensione oggettiva della tutela assicurativa, e non al regime della prova.
Il terzo criterio valutativo – confutato dalla Corte di Cassazione – riguarda il fatto che “sarebbe da escludere che l’assicurazione obbligatoria possa coprire patologie che non siano correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle; posto che, al contrario, nel momento in cui il lavoratore è stato ammesso a provare l’origine professionale di qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in tabelle, norme regolamentari o di legge”.
In questo caso l’errore dei giudici del merito riguarda l’ampiezza della tutela assicurativa, laddove escludono alcuni rischi non già perché non ne è provata l’eziologia professionale, ma perché sarebbero estranei alla tabella. Il riferimento all’estraneità alle tabelle, dopo la richiamata sentenza della Corte Costituzionale del 1988, è effettivamente errato.
Diverso a dirsi è per quanto riguarda la duplice affermazione secondo la quale, in questo caso, l’onere della prova spetta al lavoratore e che, ovviamente, permane la necessità che tra la malattia e la lavorazione ci sia un nesso di causalità.
Il quarto aspetto da chiarire riguarda il tema del nesso causale che deve legare la lavorazione morbigena e la malattia denunciata. La Cassazione sostiene che: “nell’ambito del sistema del TU, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica”.
In questo caso, il tema è relativo all’individuazione del fattore causale, che – secondo la Corte – non può essere più riferito all’esistenza di una specifica lavorazione morbigena (individuata o meno in tabella) ma – per effetto dell’evoluzione normativa e interpretativa – deve oggi essere individuato in qualsiasi fattore del lavoro, anche di tipo organizzativo.
L’ampliamento della tutela – secondo la Corte – sarebbe legato alla corretta interpretazione della tutela garantita dall’articolo 38, Costituzione: “il fondamento della tutela assicurativa, il quale ai sensi dell’art.38 Cost., deve essere ricercato, non tanto nella nozione di rischio assicurato o di traslazione del rischio, ma nella protezione del bisogno a favore del lavoratore, considerato in quanto persona; dato che la tutela dell’art. 38 non ha per oggetto l’eventualità che l’infortunio si verifichi, ma l’infortunio in sé; ed è questo e non la prima l’evento generatore del bisogno tutelato, sia in termini individuali che sociali, posto che, come riconosciuto dalla Corte Cost. (sent. n. 100/1991) oggetto della tutela dell’art.38 non è il rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela”.
Il principio afferisce all’ampiezza della tutela, e non al regime della distribuzione dell’onere della prova o alla esistenza del nesso eziologico tra lavoro e malattia (che, per tale collegamento, diviene professionale).
Il quinto principio da evidenziare – sempre a fini di chiarezza – è quello affermato dalle Corti di merito, secondo il quale “la malattia in discorso era correlata a scelte di organizzazione del lavoro in ambito aziendale che non sono considerate rischio assicurato dal TU e che non risultavano suscettibili di incidere sulla determinazione del premio dell’assicurazione obbligatoria, che come in qualsiasi contratto di assicurazione, copriva, per evidenti esigenze di corrispettività, soltanto i rischi considerati”.
Si tratta, in effetti, di un principio errato, che pone in luce il vulnus interpretativo sul tema dell’ormai riconosciuta ampiezza della tutela, senza incidere sui diversi temi dell’onere della prova e dell’eziologia professionale.
In estrema sintesi, ciò che è cambiato è l’ambito oggettivo (per quanto qui rileva) della tutela, mentre restano ferme le considerazioni relative alla distribuzione dell’onere della prova e alla necessità dell’individuazione del nesso causale tra lavoro e malattia professionale.
I principi da riaffermare
In realtà, in tema di ambito oggettivo della tutela contro le malattie professionali, occorre ribadire alcuni principi consolidati, prima di analizzare – alla luce di questi – lo specifico tema dello stress lavoro-correlato per come affrontato dalla giurisprudenza richiamata.
In primo luogo, con riferimento al regime probatorio nelle malattie ad eziologia plurifattoriale (quale il disturbo dell’adattamento con sintomi depressivi), la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell’ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità.
Ancora sul nesso eziologico, rileva – ai fini del tema che ci occupa – l’affermazione secondo la quale, nel caso di malattia a eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all’origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di “probabilità qualificata”, da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale.
In tema di onere della prova del nesso causale tra malattia e lavoro, nel caso di agente non tabellato, esso è ad esclusivo carico del lavoratore, nel senso che egli dovrà allegare e provare i fatti materiali sui quali si svolgerà d’ufficio il giudizio medico legale che solo può stabilire il nesso causale dal punto di vista della scienza medica.
Quanto all’ambito oggettivo della tutela assicurata dall’Inail, va rilevato che, in attuazione dell’articolo 38, Costituzione, esso dà rilievo non già, restrittivamente, al c.d. rischio professionale, come tradizionalmente inteso, ma a tutti gli infortuni in stretto rapporto di connessione con l’attività protetta.
Dunque, in sintesi, nonostante l’ambito oggettivo abbia subito nel tempo notevoli ampliamenti dal concetto di lavorazione tutelata a quello di lavoro, permane sempre la necessità di dimostrare (nelle malattie multifattoriali e in quelle non tabellate) l’eziologia professionale ovvero di confutarla a carico del datore di lavoro (nel caso delle malattie di presunta origine professionale).
Occorre quindi evidenziare che, sebbene sia vero che “nel momento in cui il lavoratore è stato ammesso a provare l’origine professionale di qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in tabelle, norme regolamentari o di legge”, ciò non toglie che permanga a suo carico l’onere della prova della sussistenza del nesso eziologico con la malattia denunciata.
L’improprio riferimento alla giurisprudenza amministrativa in tema di costrittività organizzativa
L’ampliamento sopra evidenziato – sia pure nel quadro della tradizionale distribuzione dell’onere probatorio in ordine al nesso di causalità – chiama in causa il tema dell’organizzazione del lavoro come fattore causale di malattie professionali (e segnatamente dello stress lavoro-correlato).
Le sentenze di merito avevano negato l’ingresso della tutela Inail sulla base dell’osservazione che: “la malattia in discorso era correlata a scelte di organizzazione del lavoro in ambito aziendale che non sono considerate rischio assicurato dal TU e che non risultavano suscettibili di incidere sulla determinazione del premio dell’assicurazione obbligatoria, che come in qualsiasi contratto di assicurazione, copriva, per evidenti esigenze di corrispettività, soltanto i rischi considerati”.
In realtà, la giurisprudenza che ha criticato l’impostazione giuridico-culturale dell’Inail in tema di malattie connesse al tema dell’organizzazione del lavoro ha evidenziato che: “il criterio determinativo del rischio rimane pur sempre connesso alla enucleabilità di un segmento del ciclo produttivo e non anche ad una fase dell’iniziativa imprenditoriale che costituisce il presupposto immanente e generale dell’intera attività produttiva, qual è l’organizzazione del lavoro, la quale, quindi, rimane concettualmente disomogenea rispetto all’attuale criterio legale di determinazione del rischio e, dunque, al di fuori della possibilità di integrazione analogica consentita dal criterio di cui al citato art.1, pur assunto nell’interezza delle sue previsioni”.
Questa la reazione del giudice amministrativo all’affermazione dell’Inail, per il quale: “secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale(siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative”.
In realtà, il vulnus dell’impostazione dell’Inail consiste nel fatto che “la circolare individua un complesso di determinati e specifici fattori di nocività già di per sé soli atti ad indurre malattie psichiche o psicosomatiche ed un elenco di queste ultime che ritiene che possano derivare dai tali fattori, peraltro senza che sul punto vi sia quell’effettivamente consolidata e seria letteratura che deve sussistere per supportare tale relazione biunivoca. Indizio di ciò si rinviene proprio in quella parte della circolare che s’occupa delle modalità di trattazione delle pratiche, laddove approfondisce le questioni sull’accertamento della sussistenza dei fattori di nocività e sulla diagnostica delle patologie che da questi potrebbero derivare, senza, però, nulla dire sul nesso di causalità, invece sempre necessario ed il cui onere probatorio è e resta addossato in capo al solo lavoratore”.
La questione affrontata dalla giurisprudenza amministrativa riguarda l’errata interpretazione dell’Inail del sistema introdotto dalla sentenza n. 179/1988 e la tecnica utilizzata dall’Istituto (disciplinare il caso di una malattia non tabellata alla stessa stregua di una tabellata).
Il cuore della questione
Il vero nodo interpretativo riguarda l’evoluzione della tutela assicurativa gestita dall’Inail, il presunto superamento dei “criteri selettivi del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in tabelle, norme regolamentari o legge” e la individuazione del “lavorare” e non più della “lavorazione” esercitata come causa della malattia (anche se poi si dice contraddittoriamente che il lavoratore deve dimostrare “il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata”).
Questo è il vero centro del confronto: la malattia dev’essere causata da una lavorazione patogena alla quale è adibito il lavoratore ovvero si può prescindere da una lavorazione, facendo riferimento solamente al fatto stesso di lavorare?
In questo secondo caso, il lavorare deve presentare elementi di patogenicità (nel caso del mobbing, la costrittività, ovvero la disorganizzazione).
In altre parole, ci si domanda se l’evoluzione del sistema di tutela abbia spostato il focus dal rischio insito nella lavorazione (nel cui ambito tradizionalmente risiedevano le malattie professionali) al rischio del lavoro o del lavorare (nel cui ambito gravitano le malattie correlate al lavoro).
Nel primo caso siamo di fronte a malattie a eziologia prevalentemente o esclusivamente professionale e a malattie a eziologia multipla, con specifici indicatori di agenti eziologici professionali determinanti, nel secondo caso di malattie a eziologia multipla senza indicatori specifici di eziologia professionale determinante.
Sembrano invece poter restare fermi i principi della natura professionale del rischio (per differenziarlo da quello comune, ossia gravante sull’intera generalità dei consociati), il requisito procedurale della distribuzione dell’onere della prova e la necessaria sussistenza dimostrata di un nesso causale tra malattia e lavoro.
La Corte Costituzionale – con la famosa sentenza n. 179/1988 – ha sottolineato “l’intervenuto progresso delle tecnologie diagnostiche, anche e particolarmente nel settore della medicina del lavoro, progresso che implica da un lato l’allargamento delle ipotesi di massima probabilità di eziologia professionale di date malattie, definibili come tipiche, dall’altro l’aumento del tasso di agevolezza e di attendibilità dell’indagine su tale eziologia, quando l’indagine non e, come nelle ipotesi ora indicate, già scontata”.
In aggiunta, ha evidenziato che non “può ignorarsi l’intervenuto sviluppo, anche fortemente innovativo, delle tecnologie produttive, sviluppo che implica l’incremento dei fattori di rischio delle malattie professionali. E dunque e alterato il rapporto di rilevanza fra i due interessi in gioco sopra indicati (l’interesse all’accertamento presuntivo si e attenuato, mentre ha acquistato spessore l’interesse all’allargamento dell’area della eziologia), sicché la presunzione nascente dalle tabelle e divenuta insufficiente a compensare il divieto dell’indagine aperta sulla causa di lavoro. E ciò non solo per quel che concerne l’individuazione di nuove malattie, ma anche per quel che concerne gli ostacoli che all’accertamento dell’eziologia professionale delle malattie può opporre la distanza temporale fra la causa patologica e la manifestazione morbosa”.
La conseguenza di questa duplice considerazione impone – secondo la Corte Costituzionale – che l’indagine sull’eziologia professionale delle malattie debba operare indipendentemente dagli elenchi stabiliti e dai tempi della manifestazione morbosa richiesti dalla legge.
Sono queste le premesse che portano il Giudice delle leggi a dichiarare incostituzionale l’articolo 3, D.P.R. 1124/1965, nella parte in cui non prevede che “l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria e obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro“.
Ciò che rileva ai fini della sentenza in commento è la dizione “malattie di cui sia comunque provata la causa di lavoro”.
La Cassazione ha precisato – sulla scorta della posizione espressa in più pronunzie della Corte Costituzionale – che “benché l’ordinamento sembra richiedere ancora uno stretto nesso di derivazione causale tra la malattia e l’attività lavorativa esercitata dal lavoratore (“a causa e nell’esercizio delle lavorazioni specificate nella tabella” ), in realtà, per risalente e consolidata interpretazione giurisprudenziale, anche costituzionale, ai fini dell’operatività della tutela assicurativa è sufficiente l’identificazione di un rischio ambientale; ossia che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una noxa comunque presente nell’ambiente di lavoro ovvero in ragione delle lavorazioni eseguite al suo interno, anche se egli non fosse stato specificatamente addetto ad una attività pericolosa”.
Il netto ampliamento della tutela si fonda anche sul principio di equivalenza delle cause. La medesima sentenza sopra citata evidenzia che “il nostro ordinamento in materia di nesso casuale (artt. 40 e 41 c.p.) è ispirato al principio di equivalenza delle cause; per cui, al fine di ricostruire il nesso di causa, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire comunque l’azione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale. Sicché solo qualora possa ritenersi con certezza che l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge; mentre per contro va negato che la modesta efficacia del fattore professionale sia sufficiente ad escludere l’operatività del principio di equivalenza causale”.
Un ulteriore ampliamento deriva dal grado di certezza dell’eziologia professionale che è necessario raggiungere per poter attivare la tutela assicurativa: “La nostra giurisprudenza ha infatti rifiutato un approccio rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione immancabile, tra i due termini del nesso causale; essendo sufficiente allo scopo una relazione di tipo probabilistico; purché la prova della correlazione causale tra fatto ed evento attinga, nel singolo caso concreto, ad un livello di “alta probabilità logica”. Allo scopo, perché l’evento risulti attribuibile ad un agente partendo da una legge statistica (anche con una frequenza medio-bassa) o da una indagine epidemiologica è necessario dimostrare nel singolo caso, in modo razionalmente controllabile, che senza il comportamento dell’agente, con un alto grado di probabilità logica, l’evento non si sarebbe verificato” (attraverso l’impiego del c.d. giudizio contro-fattuale). Occorre, in sostanza, che le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge scientifica o di copertura) vengano confrontate con le specifiche emergenze relative al caso concreto, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative”.
Di questo ampliamento sono testimonianza (e ulteriore elemento di apertura) anche le istruzioni operative dell’Inail del 16 febbraio 2006 sui “Criteri da seguire per l’accertamento della origine professionale delle malattie denunciate”. Le stesse osservazioni della giurisprudenza portano l’Istituto a escludere la natura professionale della malattia solamente nell’ipotesi in cui “gli agenti patogeni lavorativi, non dotati di sufficiente efficacia causale, concorrano con fattori extralavorativi dotati, invece, di tale efficacia“.
Ulteriore estensione della tutela è rappresentata dalla lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 38, Costituzione: “il distacco dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro dal concetto statistico-assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, è sollecitato da una interpretazione dell’art. 38, secondo comma, coordinata con l’art. 32 Cost. allo scopo di “garantire con la massima efficacia la tutela fisica e sanitaria dei lavoratori”. Oggetto della tutela dell’art. 38 non è il rischio di infortunio o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale a un’attività tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela. Con formula ellittica si può dire che oggetto della tutela sono “alcune attività tipiche” indipendentemente dall’entità concreta della loro pericolosità”.
La conclusione di queste osservazioni è che, se – per un verso – residua la non generalizzazione della tutela dal punto di vista soggettivo (in quanto non tutti i lavoratori sono assicurati presso l’Inail), dall’altro, sul piano della sfera oggettiva della tutela, l’unico limite a una tutela pressoché automatica per tutte le malattie è rappresentato dal (labile) vincolo dell’onere della prova, posto a carico del lavoratore. Onere sul quale incidono favorevolmente le agevolazioni del regime probatorio dell’equivalenza causale e della logica probabilistica.
La (ormai acquisita) dilatazione della tutela in una logica sociale sembra contrastare con l’altra affermazione della Corte Costituzionale, secondo cui: “l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali non è ispirata al criterio della piena socializzazione del rischio, giacché il d.P.R. n. 1124 del 1965 circoscrive l’ambito della sua operatività in relazione sia all’aspetto oggettivo che a quello soggettivo”.
Questo perché resta rimessa alla discrezionalità del Legislatore la determinazione dei tempi, dei modi e della misura delle prestazioni sociali sulla base di un razionale contemperamento con la soddisfazione di altri diritti, anch’essi costituzionalmente garantiti, e nei limiti delle compatibilità finanziarie.
Quindi l’assicurazione gestita dall’Inail non tutela tutti i lavoratori (ma solo quelli adibiti alle lavorazioni indicate nel D.P.R. 1124/1965), non tutela tutti i danni generati da infortuni e malattie professionali (ma solamente il danno alla capacità di lavoro) e opera a condizione che sussista un nesso con il lavoro (restando esclusa la malattia non concausata da un prevalente fattore professionale).
Conclusioni
L’ordinanza in commento, ripercorrendo sinteticamente gli sviluppi di un lungo percorso evolutivo, consente di porre in luce qualche riflessione sulla perdurante coerenza dell’attuale situazione normativa (e interpretativa).
Il Legislatore ha scelto, a suo tempo, di gestire il tema dell’infortunio sul lavoro e della malattia professionale attraverso un sistema assicurativo, come tale inevitabilmente fondato sul concetto di rischio; ha invece rimesso al sistema della tutela previdenziale gestita dall’Inps gli altri aspetti meritevoli di tutela indicati nell’articolo 38, Costituzione.
Secondo tale fondamentale disposizione: “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria (…). Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
In primo luogo, lo strumento: perché un regime assicurativo per infortuni e malattie professionali e uno ampio e incondizionato (di piena socializzazione) per infortuni e malattie non professionali, posto che il concetto di rischio è insito nell’(intero) articolo 38, come insegna la Corte Costituzionale?
Se, come ricorda l’ordinanza, vi è un distacco dell’assicurazione obbligatoria dal concetto statistico-assicurativo di rischio, prevalendo l’incondizionata tutela dell’articolo 38, Costituzione, cosa giustifica la permanenza di un modello la cui tariffa è costruita su modelli statistico-attuariali, legata alla probabilità di verificarsi degli infortuni e delle malattie professionali e connessa alle prestazioni che l’Istituto è chiamato a erogare dal Legislatore, ossia su un modello tradizionalmente e palesemente assicurativo?
Cosa giustifica questa distinzione di tutela tra lavoratori assicurati e non e tra malattie/infortuni professionali e non, dal momento che il discrimine tra l’operatività dei 2 sistemi è solamente la prova dell’eziologia professionale e, se vi è la prova, opera la tutela dell’Inail, se manca, opera la tutela generale dell’Inps?
Una volta eliminato il sistema della tabella e rimessa alla prova del lavoratore la natura professionale della malattia multifattoriale o non tabellata, quella stessa malattia (il cui riconoscimento dall’Inps sarebbe sostanzialmente pacifico, mentre è assoggettato all’onere della prova per l’operatività dell’assicurazione Inail) dovrebbe essere tutelata allo stesso modo, per gli stessi soggetti e alle medesime condizioni.
Sembra allora che il discrimine possa risiedere nell’esistenza di una responsabilità dell’impresa, chiamata a finanziare in via esclusiva l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali: sappiamo, tuttavia, che l’operatività della tutela assicurativa non dipende sempre e necessariamente da una riconosciuta responsabilità del datore di lavoro.
L’infortunio in itinere, da un lato, e il riconoscimento di malattie a carico di datori di lavoro che non hanno svolto un ruolo concausale determinante nella malattia professionale lungolatente, dall’altro, ne possono costituire evidenza.
Cosa osterebbe a inserire la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali nella tutela generale assicurata dall’Inps?
Se l’importante è garantire la tutela – come evidenzia la Corte Costituzionale – sembra opportuno che 2 regimi così differenti trovino omogeneità, semplificando e incrementando la tutela per i lavoratori (tutti) ed eliminando problemi di prova del nesso eziologico (posto che non vi sarebbe più differenza tra malattie comuni e professionali).
In conclusione, quindi, si ritiene opportuna una riflessione sull’attuale situazione della tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, alla luce del percorso ricostruttivo sintetizzato anche nell’ordinanza in questione, per verificare i presupposti di un’ulteriore evoluzione in senso sociale del sistema delineato nel D.P.R. 1124/1965, con eventuale superamento del modello assicurativo, in quanto ormai lontano dal principio del rischio.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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