Aggiornamento del DVR per COVID e utilizzo dei DPI da parte dei lavoratori: un viluppo complesso, tra norme, giurisprudenza e deduzioni
di Roberta ZaninoLa problematica dell’aggiornamento del DVR nella pandemia è tuttora rilevante, anche perchè l’emergenza non è finita. Anche ove, però, il DVR sia stato aggiornato, è ben noto che la sicurezza sul lavoro, e vieppiù in pandemia, non è un problema cartaceo: l’utilizzo dei DPI da parte dei lavoratori è indispensabile e il controllo da parte del datore di lavoro ancora di più.
Premessa
La pandemia da coronavirus ha portato alla necessità di riflettere sull’applicazione della disciplina ordinaria in materia di sicurezza sul lavoro in tempi che di ordinario non hanno nulla.
A ciò si è aggiunta una normazione talora turbinosa, che ha reso di difficile lettura il quadro complessivo, vieppiù alla luce della difficoltà di leggere il sistema protettivo creato originariamente per situazioni di rischio ben diverse.
Ecco emergere, quindi, subito un tema rilevante: il DVR deve essere aggiornato per i rischi derivanti da contagio da coronavirus? E quali obblighi sono imposti al lavoratore in tempo di pandemia con specifico riferimento all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale? E, infine, quale deve essere il comportamento del datore di lavoro a fronte di soggetti che non utilizzano tali DPI anche al fine di evitare responsabilità nel caso di contagi?
Proviamo a fare chiarezza, consapevoli che si tratta di un tema su cui la giurisprudenza si è in gran parte non ancora formata[1].
Aggiornamento del DVR e coronavirus
Il DVR deve considerare tra i vari rischi anche il rischio coronavirus?
Su questo interrogativo, allo stato, non si è ancora fatta chiarezza, anche perché non si è ancora formata una base giurisprudenziale, pur se, come vedremo, una risposta è ormai possibile.
L’interrogativo, in realtà, non è nuovo, in quanto è lo stesso D.Lgs. 81/2008 che, nella propria formulazione, risulta ambiguo.
L’articolo 28, comma 1, D.Lgs. 81/2008, stabilisce che la valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), ”deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori”; il comma 2 aggiunge che il DVR deve contenere una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute “durante l’attività lavorativa”, con il che parrebbe che il Legislatore abbia inteso riferirsi a tutti i rischi che possono presentarsi durante l’attività lavorativa, anche se non causati dalle specifiche lavorazioni svolte nell’azienda.
Peraltro, tale interpretazione parrebbe vanificata dal dettato dell’articolo 29, D.Lgs. 81/2008, laddove, relativamente all’obbligo di aggiornamento del DVR, stabilisce che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata “in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori”, con ciò potendosi ritenere che i rischi valutabili siano soltanto quelli afferenti il processo produttivo e l’organizzazione del lavoro.
In altri termini, il rischio valutabile sarebbe soltanto quello endogeno o professionale nel momento in cui svolgere l’attività lavorativa comporta per il soggetto un’esposizione al pericolo maggiore rispetto a quella propria della collettività; diversamente, si dovrebbe ritenere “professionale” qualunque fatto esterno che, per qualche motivo, venga ad incidere sulla salute dei lavoratori.
La stessa giurisprudenza formatasi sull’articolo 28, D.Lgs. 81/2008, non vale a dissipare l’ambiguità, in quanto:
- da una parte afferma che il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il DVR previsto dall’articolo 28, D.Lgs. 81/2008, all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori;
- d’altra parte, si sostiene che il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda (Cassazione penale, n. 30173/2018).
Un precedente in materia può essere ravvisato nell’interpello n. 11/2016 rivolto alla Commissione per gli interpelli del Ministero del lavoro, a seguito del quale la Commissione si è espressa nel senso che il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa deve essere svolta, quali, a titolo esemplificativo, i c.d. rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (ad esempio, guerre civili, attentati, etc.), e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta.
Seguendo la risposta della Commissione, è ragionevole ritenere che anche il rischio coronavirus debba essere valutato dal datore di lavoro nell’ambito del DVR.
Ad ulteriore supporto di tale tesi, va considerato che l’infezione da COVID-19 contratta sul luogo di lavoro è stata equiparata all’infortunio sul lavoro con causa virulenta, con conseguente riconoscimento delle tutele Inail a favore del lavoratore colpito da infortunio.
Infatti, l’articolo 42, D.L. 18/2020, convertito in L. 27/2020, ha previsto che nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il “consueto” certificato di infortunio e l’Inail assicura la tutela all’infortunato.
Il contagio da COVID è, quindi, equiparato a tutti gli effetti a un infortunio sul lavoro.
Ora, se l’infezione da coronavirus in occasione di lavoro rientra tra gli infortuni lavorativi, non si vede perché non dovrebbe essere ricompreso tra i rischi considerati nell’elaborazione del DVR.
In altri termini, è il Legislatore ad avere riconosciuto che il contagio da coronavirus può essere un fattore di pericolo presente all’interno dell’azienda, in quanto rischio ambientale; ciò non solo, si badi bene, in ambiente sanitario, ma anche al di fuori di esso.
C’è di più: l’Inail ritiene che per gli ambiti sanitari, ma anche per i soggetti che operano a contatto con il pubblico, sia operativa una presunzione semplice di origine lavorativa, proprio per il palese aggravamento di rischio che tali attività comportano, ma non esclude l’indennizzabilità, valutata caso per caso, in ogni ambiente[2].
D’altra parte, ove si consideri che il rischio da contagio per coronavirus aumenta con gli assembramenti, risulta evidente che le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative possono incidere su tale rischio e che, quindi, il coronavirus rientra a pieno titolo tra i rischi che attengono l’organizzazione del lavoro.
È noto, poi, che il D.L. 23/2020, convertito in L. 40/2020, all’articolo 29-bis dispone che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
A prescindere da quanto ulteriormente indicato in vari protocolli di settore, va notato che tale norma non inficia quanto sopra esposto, in quanto l’articolo 29-bis fa riferimento esclusivamente all’adempimento dell’obbligo di protezione dell’articolo 2087, cod. civ., che si intende assolto osservando i protocolli.
Tale disposizione, per quanto dotata di portata generale, non assorbe, invece, tutte le altre norme che prevedono di assicurare la protezione del lavoratore sia contro pericoli generali che specifici. Pertanto, nonostante l’articolo 29-bis, il datore di lavoro sarà chiamato a rispondere dell’inosservanza di tutte le cautele prevenzionistiche concretamente rilevanti per la prevenzione del contagio, previste, in particolare, dal T.U. 81/2008[3].
L’utilizzo dei DPI: obbligo per il lavoratore, dovere di vigilanza (e di sanzione) per l’azienda. Giurisprudenza di merito e comportamento dell’azienda
La necessità dell’utilizzo dei DPI da parte dei lavoratori in pandemia è sottolineata dal protocollo del 6 aprile 2021, ma deriva, può ben dirsi, dalla normativa generale in materia di sicurezza.
Non stupisce, a tale proposito, la sentenza del Tribunale di Venezia del 4 giugno 2021, riferita un caso in cui il lavoratore rifiuta di indossare la mascherina.
La sentenza conferma, ovviamente, la sanzione disciplinare applicata ed è, del resto, simile a un’altra interessante sentenza di merito (Tribunale di Trento, 8 luglio 2021), in cui viene confermata la legittimità del licenziamento di un’insegnante della scuola per l’infanzia che rifiuta di usare la mascherina.
Invero, al di là della pandemia da COVID, è opportuno ricordare che il comportamento del lavoratore che rifiuti di indossare i DPI è legittima causa di licenziamento (Cassazione n. 18615/2013)[4] già nella giurisprudenza pre-pandemica.
Del resto, il già citato articolo 29-bis, D.L. 23/2020, introdotto in sede di conversione dalla L. 40/2020, relativo al rispetto dei noti protocolli, introduce una serie di obblighi per le aziende: infatti, la norma obbliga il datore di lavoro non solo ad adottare le misure di sicurezza previste nei protocolli, ma a mantenerle, in ciò dando continuità a un indirizzo giurisprudenziale radicato: esso prevede che il datore di lavoro non possa limitarsi alla consegna dei DPI, ma debba vigilare sul loro uso.
La recente sentenza di Cassazione penale n. 25745/2021 evidenzia con assoluta chiarezza i compiti del datore di lavoro, che non può limitarsi a consegnare gli strumenti protezione e nemmeno a insegnarne l’uso corretto. Infatti, “la sola formazione ed informazione non esonera il datore di lavoro dal proteggere (adempiendo agli oneri di fornire adeguati mezzi di tutela individuali e collettivi, nonché predisponendo il documento di valutazione dei rischi, finalizzato all’adozione delle misure di adeguamento della produzione alla tutela della salute del lavoratore), né dal vigilare (verificando l’osservanza delle disposizioni aziendali rivolte alla sicurezza delle lavorazioni e l’utilizzo dei presidi). Così come la sola protezione non esonera dalla vigilanza, né dalla formazione ed informazione, coincidendo la prima, in assenza delle altre, con il rinvio al lavoratore della scelta di adeguarsi alle misure protettive”.
E, allora, mai come oggi va ricordato che il datore di lavoro non può limitarsi a consegnare al lavoratore i presidi volti ad assicurare la protezione, ma deve “richiedere l’osservanza della utilizzazione dei suddetti dispositivi, poiché il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo ma anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle” (Cassazione penale, n. 26331/2021).
Vero è che l’articolo 20, T.U. 81/2008, prevede che ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro; fra l’altro, il lavoratore ha l’obbligo di contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché di utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione.
Tuttavia, il passaggio da un modello iperprotettivo a uno collaborativo, in cui anche i lavoratori sono gravati dall’obbligo di specifiche disposizioni cautelari (Cassazione Penale, Sezione IV, 7 gennaio 2020), non esonera il datore di lavoro da un’attenta vigilanza circa l’utilizzo dei DPI[5].
E, dunque, il datore di lavoro deve:
- adottare tutte le misure di sicurezza rese necessarie dalle normative dai protocolli e in generali utili a preservare la sicurezza del lavoratore;
- formare il lavoratore all’utilizzo dei dispositivi di protezione forniti e, in generale, a tutto ciò che pertiene le corrette procedure in materia di sicurezza, con particolare attenzione a che il lavoratore ben comprenda quanto gli viene illustrato (si pensi al soggetto non di lingua italiana);
- vigilare sull’adozione di tutte le misure di sicurezza e in particolare sul corretto utilizzo dei DPI;
- sanzionare i lavoratori che non osservino scrupolosamente le disposizioni impartite e/o non utilizzino correttamente i DPI.
Ciò consentirà al datore di lavoro, anche in una situazione così delicata come quella causata dal COVID-19, di rimanere esente da eventuali responsabilità in caso di infortunio, perché “il datore di lavoro non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore come in passato, ma una volta che ha fornito i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia non risponde dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore” (Cassazione penale, n. 8883/2016).
Beninteso, come sempre, le attività compiute dovranno essere tracciate: è, invero, normale che il datore di lavoro possa dimostrare di avere fornito i DPI e di avere formato il lavoratore, tuttavia non basta. È necessario che anche la vigilanza effettuata sia quanto meno verificabile e, soprattutto, che risultino eventuali richiami al personale inadempiente rispetto all’obbligo.
Conclusioni
La pandemia da COVID richiede davvero attenzione da parte dei datori di lavoro: non è tanto (come sempre) un problema di adempimenti “cartacei”, quanto di operare fattivamente per la riduzione del rischio. Mai come in questo caso l’operato del datore di lavoro deve risultare tracciabile.
L’adattamento del protocollo condiviso alla specifica realtà aziendale e l’impegno fattivo (e verificabile) di lavoratori e azienda per la sicurezza sono la migliore garanzia: per la salute, in primis.
[1] Ad oggi, per quanto consta, la Cassazione si è pronunciata in materia di aggiornamento del DVR e contagio da coronavirus con la sentenza n. 20416/2021, ma il profilo trattato è diverso: infatti, nel caso di specie viene analizzata la sussistenza del nesso tra mancato aggiornamento del DVR in una casa di riposo e diffusione del virus. La Cassazione conclude che “in applicazione delle teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’eventuale connessione tra l’omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus non sia possibile ravvisare, nel caso de quo, la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus all’interno della casa di riposo”. In altre parole, un conto è ammettere l’obbligatorietà dell’aggiornamento, un conto è la presunzione che detto comportamento sia causa dei successivi contagi.
[2] La circolare Inail n. 13/2020, a proposito dei soggetti che non operano in ambito sanitario e non sono a contatto con il pubblico, prevede che “la tutela assicurativa si estende, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.
[3] Si veda, a proposito del rapporto tra protocolli e T.U. 81/2008, la lettera della Procura di Bergamo n. 1104/2020, ove si ricorda, fra l’altro, che “per le violazioni riguardanti i DPI si rammenta anche il Capo II “uso dei dispositivi di proiezione individuale” del D.Lgs. 81/2008, il quale delinea dall’art. 74 al 79 l’obbligo di uso, i requisiti, gli obblighi del datore di lavoro, gli obblighi dei lavoratori e i criteri per l’individuazione e l’uso dei DPI”.
[4] Che le mascherine siano da considerare DPI durante la pandemia è stabilito fin dall’articolo 16, D.L. 18/2020, che recita: “Per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull’intero territorio nazionale, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all’articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall’articolo 34, comma3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”. Tale indicazione è sostanzialmente ripetuta nel “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”, firmato da Governo e parti sociali il 6 aprile 2021, che dedica un capitolo all’uso dei DPI. Il protocollo prevede che “Nella declinazione delle misure del presente Protocollo all’interno dei luoghi di lavoro, sulla base del complesso dei rischi valutati a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda, si adotteranno DPI idonei”.
[5] Sul tema si veda più approfonditamente R. Zanino, Infortuni e principio di autoresponsabilità del lavoratore, in “Il giurista del lavoro” n. 11/2020.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia: