28 Giugno 2017

Il lavoro agile è finalmente legge, ma i punti interrogativi sono ancora molti

di Andrea Asnaghi

Dopo oltre un anno di annunci, la norma sul lavoro autonomo e sul lavoro agile è legge (L. 81/2017, G.U. n. 135 del 13 giugno 2017), in vigore dal 14 giugno. Occupandoci qui della parte relativa proprio al lavoro agile (disciplinato negli articoli da 18 a 24 della legge), evidenziamo le principali novità e i punti di interesse, con il rammarico nel constatare che la lunga gestazione ha approdato a un testo non privo di dubbi interpretativi e difettoso di soluzioni efficaci, che dovranno pervenire dalla capacità organizzativa delle aziende.

 

Un’incertezza sin dall’incipit

Come si sarà già compreso dall’anticipazione dell’abstract, l’enorme interesse suscitato dalla norma sul lavoro agile – subito inglesizzato da taluni esterofili in smart working, anche se la traduzione appare non del tutto fedele – ha lasciato in chi scrive il posto a una certa delusione per le soluzioni normative adottate. Forse sarebbe ingeneroso rispolverare l’antica espressione per cui “la montagna ha partorito un topolino”, ma di certo il Legislatore appare essersi approcciato al tema con una certa timidezza. Timidezza che si percepisce fin dall’inizio, quando la norma esordisce quasi con una excusatio non petita, curiosamente automotivandosi (“allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”), e con espressione più simile a un documento programmatico o di orientamento che non a una vera e propria legge (“le disposizioni del presente capo … promuovono il lavoro agile”).

Probabilmente, del resto, la norma nasce come contenitore-incubatore delle sperimentazioni che sul tema già sono partite dalla contrattazione collettiva, per lo più aziendale, le cui innovazioni hanno fornito più di uno spunto al Legislatore.

Di fatto, poi, il tema di una prestazione svincolata da determinate rigidità proprie del tradizionale lavoro subordinato finisce vittima del suo stesso circolo vizioso, quando tenta di regolare l’ampia flessibilità che si propone di promuovere.

Partendo dalla definizione dell’articolo 18, comma 1, apprendiamo che il lavoro agile non è un nuovo tipo di contratto, ma semplicemente “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”, cioè la determinazione di alcuni aspetti in cui può essere resa la prestazione lavorativa.

Necessario l’accordo fra le parti, di cui diremo in seguito, la prestazione di lavoro agile può essere resa:

  • anche” con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi;
  • senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro;
  • con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici;
  • entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale;
  • con prestazione eseguita in parte in azienda e in parte all’esterno, senza postazione fissa.

Le sottolineature ci fanno capire che siamo nell’ambito del possibile e della quasi totale discrezionalità.

Diversi commentatori hanno evidenziato, nella differenza fra lavoro agile e telelavoro, il fatto che quest’ultimo preveda una modalità di lavoro sempre esterno all’azienda, mentre lo smart working prevede un’alternanza di luoghi di lavoro, fra cui anche l’azienda. Tuttavia, l’ampia definizione del lavoro agile potrebbe rendere questa alternanza del tutto “simbolica” a favore di una prestazione di fatto eseguita fuori dall’azienda; d’altronde anche nel telelavoro non sono infrequenti pattuizioni di richiamo del lavoratore o che prevedano la sua presenza anche in azienda, anzi le relative disposizioni prevedono esplicitamente forme di coinvolgimento che preservino il telelavoratore dall’isolamento (vedi articolo 8, comma 3, Accordo 9 giugno 2004) mediante incontro con i colleghi e momenti comuni, che non è dato capire come potrebbero realizzarsi se non in ambiente, e orario, lavorativo.

Chi scrive ritiene invece che la vera portata differenziale fra le due fattispecie sia che il telelavoro è pensato come una prestazione che viene resa sì a distanza, ma in una postazione comunque prefissata standard – che può essere il domicilio del lavoratore o un altro luogo messo a sua disposizione, anche dal datore di lavoro – mentre il lavoro agile non prevede una postazione fissa (meglio: prevede proprio una postazione non fissa e di libera elezione del dipendente). Un’altra distinzione, sfuggita ai più, è che rispetto al telelavoro, formalmente la modalità di lavoro agile non è necessariamente legata all’utilizzo di strumenti informatici e di telecomunicazione; la legge, infatti, la indica come una mera possibilità, forse dandola per scontata; in pura linea teorica, per come è stata scritta la norma, il lavoro agile potrebbe quindi anche essere attuato con strumenti non informatici, andando a rappresentare una forma evoluta simile al vecchio lavoro a domicilio. Ovviamente crediamo che ciò sia il frutto di una scrittura poco accorta, ma staremo a vedere.

Massima flessibilità, dunque, il che comporta anche una serie di problemi di non facile soluzione. Li esamineremo con un’esposizione che non segue pedissequamente la successione degli articoli di legge, ma si organizza secondo un percorso logico, sia pure dando il puntuale riferimento di norma.

Una doverosa annotazione generale riguarda il pubblico impiego, dato che la norma sul lavoro agile (articolo 18, comma 3) sarà applicabile anche ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, con disposizioni applicabili ai rapporti de quibus; anche le recenti mosse di riforma del settore pubblico ne prevedono un certo impiego, e del resto, oltre che per le nobili finalità dichiarate dalla norma, perché nascondere che un intervento organizzativo deflattivo di spazi non possa avere, nel pubblico come nel privato, un ritorno anche in termini economici e di maggior vivibilità ed estetica degli ambienti di lavoro.

 

L’accordo scritto e la comunicazione preventiva

Benché mera modalità di prestazione, il lavoro agile non può essere disposto unilateralmente dal datore di lavoro, ma deve essere frutto di un accordo con il lavoratore.

Tale accordo (articolo 19) va stipulato per iscritto sia ad probationem che “ai fini della regolarità amministrativa”, frase piuttosto oscura, in quanto non si comprende la conseguenza di un’eventuale irregolarità (né è prevista alcuna sanzione). L’assenza della forma scritta, pertanto, non rende nullo o inesigibile l’accordo sul lavoro agile. Tuttavia, data l’ampia flessibilità della modalità di prestazione e i relativi margini di incertezza, è sicuramente molto opportuno disciplinarne le caratteristiche con una certa oculatezza e previdenza. In ogni caso la norma impone che l’accordo regoli specificamente:

  • le modalità di esercizio della prestazione all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo al potere datoriale di controllo e direzione;
  • l’individuazione degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore, di cui il datore di lavoro ha la responsabilità del buon funzionamento e della sicurezza;
  • i tempi di riposo e in particolare la disciplina del c.d. “diritto alla disconnessione”.

Come detto in precedenza, sia pure malamente e con una scontatezza che mal si addice a un dettato normativo, è evidente che il Legislatore ha in mente un lavoratore dotato di strumenti informatici per l’esecuzione di mansioni che, in tal modo, possono essere rese in modo flessibile.

Già da subito vediamo le difficoltà che il testo normativo incontra se parametrato con il resto della normativa lavoristica: una modalità di lavoro organizzata per “fasi ed obiettivi” (sembra quasi di intravvedere vecchie espressioni riferite al lavoro a progetto) mal si concilia con il concetto di orario di lavoro del D.Lgs. 66/2003 (a cui si fa implicito riferimento); e del resto, per poter assicurare il riposo, il datore di lavoro ha poche strade a disposizione: o scattano dei black out forzati – e quindi i vincoli di orario di lavoro usciti dalla porta alla fine rientrano dalla finestra – o il datore di lavoro sarebbe onerato di un’attività di controllo della prestazione (ai fini di tutela del lavoratore) che tuttavia cozzerebbe con l’articolo 4, Statuto. Forse una soluzione potrebbe esser quella di inserire negli strumenti assegnati un dispositivo a contatore che interrompa una prestazione protrattasi oltre certi limiti, ma in questi casi ci aspetteremmo l’installazione di un “contatempo” simile a quello dei giocatori di scacchi, che comunque lascia la possibilità da parte del lavoratore di barare, anche in eccesso. Sotto altro aspetto fissare solo obiettivi da raggiungere entro il normale orario di lavoro potrebbe celare l’insidia, per cui ex post potrebbe essere posta l’obiezione che gli obiettivi fissati hanno richiesto un “superlavoro” (d’altronde, nel lavoro subordinato l’obbligazione è di mezzi e non di risultato). Staremo a vedere.

Di fatto, tuttavia, non vi è alcun raccordo tra la norma in commento e il D.Lgs. 66/2003; qui in particolare ci riferiamo all’articolo 17, comma 5, del predetto decreto, che, sia pure nel rispetto dei principi generali di protezione, ritiene non applicabili (insieme ad altre) le disposizioni in tema di durata massima del lavoro giornaliero ai “lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro (…) può essere determinata dai lavoratori stessi” (e se questa dizione non si addice al lavoro agile, allora ci sfugge il senso complessivo della norma).

L’accordo di lavoro agile si palesa in ogni caso come un addendum a un normale contratto di lavoro o a una sua modifica e può essere disposto per un tempo determinato oppure indeterminatamente.

Se a tempo indeterminato, può essere revocato da ciascuna parte con un preavviso di almeno 30 giorni, che diventano 90 nel caso di recesso datoriale nei confronti di lavoratore disabile, a causa dei tempi che potrebbero occorrere a quest’ultimo per riorganizzarsi con le variate modalità di resa della prestazione. Il preavviso o la scadenza del termine possono essere non rispettati in presenza di un giustificato motivo.

In ogni caso, si coglie dalla norma che, per ciascuna delle parti coinvolte, allo stato attuale il lavoro agile non può essere invocato come diritto unilaterale, né da parte del lavoratore (nemmeno una volta “ottenuto”) né come ius variandi della prestazione da parte del datore di lavoro, ma si regge sul mero accordo continuativo delle parti.

Piuttosto forzosa appare la previsione (articolo 23, comma 1) per cui l’accordo di lavoro agile sia soggetto alla comunicazione preventiva ai Centri per l’impiego. A parte l’attesa di una revisione dei modelli di trasmissione Unilav al fine di prevedere tale casistica, chi scrive non comprende perché, essendo una modalità “aggiuntiva” della prestazione normale, qualora essa si applicasse a un rapporto di lavoro già in corso non potrebbe essere effettuata nei canonici 5 giorni, così come tutte le altre variazioni che riguardano i rapporti di lavoro. Speriamo che qualcuno provveda a dare istruzioni in tal senso in chiave di semplificazione, semmai tale parola abbia ancora un qualche significato.

 

La non discriminazione del lavoratore agile e il potere di controllo

Come in tutti i casi di fattispecie particolari, il Legislatore si preoccupa che le modalità peculiari di lavoro non comportino discriminazioni o differenziazioni negative del lavoratore. Insomma, si tratta in buona sostanza di non dimenticare o considerare isole felici (ma, appunto, isole) i dipendenti in lavoro agile.

Viene pertanto stabilito (articolo 18, comma 4) che gli incentivi legati a produttività ed efficienza siano applicabili in via generale anche ai lavoratori in smart working.

La specificazione appare a chi scrive abbastanza superflua, per 2 motivi: non solo tali incentivi sono disposti in base a coefficienti e criteri che possono prevedere o meno i lavoratori destinatari degli stessi, ma le forme di conciliazione vita-lavoro ed espressamente di lavoro agile sono considerati fra i criteri di natura organizzativa che possono addirittura liberare i benefici economici della detassazione o decontribuzione. Al più, bastava statuire in via generale (come infatti fa l’articolo 20, comma 1) che i lavoratori in smart working non possono essere per ciò stesso esclusi dai trattamenti collettivi, anche di secondo livello, applicati in azienda a lavoratori che svolgono “solo internamente” le medesime mansioni; e secondo il principio logico generale per cui il maggiore contiene il minore anche la detassazione vi sarebbe ricompresa.

Anche l’articolo 20, comma 2, risulta ambiguo, in quanto stabilisce che nell’accordo di lavoro agile “può” essere riconosciuto al lavoratore interessato il diritto all’apprendimento permanente con modalità formali o informali e alla certificazione delle competenze.

Ora si spera che l’intento del Legislatore (che, così fosse, non parrebbe espresso al meglio) non sia stato quello di indicare per il lavoratore agile come mera possibilità ciò che per il lavoratore normale è un diritto, il che sarebbe davvero discriminatorio, ma solamente di statuire che nell’ambito del raccordo organizzativo di questa particolare modalità di lavoro il datore e il lavoratore possano disciplinare forme alternative e peculiari con cui attuare la formazione del dipendente e certificarne i contenuti.

Il che ci riporta, ciclicamente, anche all’articolo 21, ove viene affrontato il tema spinoso del potere di controllo sul lavoratore agile. Con una frase piuttosto sibillina il Legislatore ci dice che l’accordo di lavoro agile disciplina il potere di controllo della prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali, nel rispetto dell’articolo 4, L. 300/1970.

Chi scrive sarà anche dotato di scarsa fantasia, ma fatica ad immaginare come questo controllo, da effettuarsi su una prestazione resa “altrove”, possa effettuarsi senza ricadere nell’ambito di un controllo a distanza, a meno che non si voglia disciplinare un’attività di controllo (rectius, di verifica) impostata prevalentemente sul risultato o sull’efficace conclusione di fasi di lavoro (il che sembra più in linea con la tipologia della prestazione). Anche l’individuazione di condotte che, in contesti fisici di elezione del lavoratore, possano dar luogo a sanzioni disciplinari appare abbastanza complicata.

Di certo, la concreta regolazione fra le parti del lavoro agile presenta molteplici aspetti di riflessione sui quali probabilmente il Legislatore vuole lasciare ampio spazio, “limitandosi” ad avvertire che una puntuale previsione è fondamentale al fine di evitare o prevenire possibili contenziosi.

Il datore di lavoro che si muovesse in sperimentazioni sul lavoro agile, dovrebbe – tanto per fare un esempio – formulare una riflessione, ed eventualmente incidere in termini prescrittivi preventivi, sui luoghi in cui non sia consentito al lavoratore di esercitare la prestazione lavorativa, per le difficoltà connesse al mantenimento di una condizione di salute e sicurezza o di protezione dei dati aziendali, e comunque sulle modalità imprescindibili che il lavoratore dovrà mantenere, anche nei luoghi non vietati, sempre ai predetti fini.

Quindi più che di vero e proprio controllo, si tratta di disciplinare in termini organizzativi la prestazione secondo determinati criteri, ed eventualmente di verificarne ex post il rispetto da parte del lavoratore. Operazione non sempre facile ma necessaria.

 

La sicurezza sul lavoro e l’assicurazione per gli infortuni

La prestazione in modalità flessibili non può comportare un decremento dei livelli di sicurezza della prestazione lavorativa, fin dall’assegnazione al lavoratore di strumenti tecnologici sicuri e funzionanti (articolo 18, comma 2) di cui il datore è responsabile.

Al fine di garantirne la sicurezza, il datore di lavoro deve consegnare al lavorate agile (e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) un’informativa di cadenza almeno annuale, individuando i rischi generali e specifici relativi alla modalità della prestazione (articolo 22, comma 1).

Se sicuramente ciò può essere fatto in relazione alle apparecchiature e strumenti assegnati in dotazione – e, in via generale, alle mansioni svolte – appare più difficile una qualsiasi valutazione “ambientale”, essendo del tutto imprevedibile l’ambito in cui potrà avvenire la prestazione, di elezione del lavoratore e mutevole. Come detto nel paragrafo precedente, una buona parte del lavoro qui consisterà in azioni prescrittive e preventive, che, prendendo in considerazioni rischi di carattere generale, diano una serie di indicazioni su comportamenti (e anche luoghi) da evitare o su cautele da tenere, sulla scorta di quanto viene fatto per i lavoratori soggetti a frequente mobilità.

Rispetto all’informativa predetta, a parere di chi scrive conferirà maggior garanzia alle parti considerare la stessa come un allegato integrativo al Documento di valutazione dei rischi, quale essa appare anche per le modalità con cui viene concepita e comunicata e per i contenuti che deve avere.

Il lavoratore è tenuto (articolo 22, comma 2) a cooperare alle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione in esterno. La disposizione appare del tutto parziale e non può che considerarsi integrativa, per il lavoratore agile, dell’obbligo di cooperazione che, in via generale, ciascun lavoratore deve avere rispetto alle prescrizioni comuni, anche per le prestazioni “interne”.

Il vero problema, che fa il pendant con quello del controllo, è che il datore di lavoro, a meno di un accertamento invasivo che finirebbe per entrare in conflitto con le norme sulla riservatezza del lavoratore e sulle prescrizioni dell’articolo 4, St. Lav., non ha la materiale possibilità di incidere, se non in via di prescrizione preventiva, sul comportamento del lavoratore in esterno.

Anche una particolare formazione del lavoratore in smart working dovrà quindi a tal fine essere preventivata, al fine (oltre che per una corretta prevenzione) di costituire, per quanto possibile, una circostanza esimente di fronte a comportamenti “devianti” o particolarmente “creativi” del lavoratore.

Qui, quindi, ed è l’unica differenziazione (per quanto risibile) rispetto a un lavoro autonomo, il lavoratore agile incontra un preciso limite al proprio potere di autodeterminazione della prestazione.

Il lavoratore è anche assicurato contro infortuni e malattie professionali per i rischi connessi all’attività “in esterno” – oltre che (si intende) per quelli per cui sarebbe già normalmente assicurato come qualsiasi altro lavoratore) – ivi compresi i tragitti dall’abitazione al luogo prescelto per la prestazione, purché tale luogo sia connesso alla prestazione o alle esigenze di conciliazione vita-lavoro con “criteri di ragionevolezza”. Non vi è chi non veda l’assoluta genericità e indeterminatezza delle statuizioni di cui sopra, a dimostrazione di quanto una regolazione che intenda replicare tutele differenti mal si attagli a modalità del tutto nuove di prestazione, che mettono in crisi i pilastri classici di riferimento del lavoro subordinato.

 

Conclusioni

La prima considerazione riprende i concetti precedenti: la norma sul lavoro agile insegue la realtà di un lavoro che sta cambiando profondamente; ce ne accorgiamo tutti i giorni anche senza scomodare le riflessioni e gli studi, molto opportuni, che generalmente ricadono sotto l’etichetta di “Industry 4.0”. Le difficoltà incontrate dal Legislatore sono quelle di adattare un nuovo concetto a logiche vecchie. Se volessimo prendere a prestito una citazione “autorevole” (Vangelo di Luca, 5:36) non si mette una pezza nuova per rattoppare un vestito vecchio; essa non si adatterà e finirà per lacerarlo ancora di più. Così il lavoro agile, catapultato nel diritto del lavoro attuale (ma già vecchio di per sé in molti punti), palesa evidenti contraddizioni, forzature, strozzature che comportano le inevitabili incongruenze che, in parte, abbiamo anche evidenziato. Occorrerebbe il coraggio di cambiare il paradigma del lavoro, o per lo meno affiancare a quello dei lavori tradizionali, nuovi paradigmi e concetti in cui possano trovare spazio le attuali forme evolute di prestazioni di lavoro subordinato. Se di lavoro subordinato si può ancora parlare, certo non sarà infatti in senso classico: se si prova a confrontare la norma sul lavoro agile con quella delle collaborazioni coordinate e continuative ex articolo 2, D.Lgs. 81/2015, ove la genuinità dell’autonomia viene identificata con la libertà del prestatore di autodeterminare la prestazione, con particolare riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro, si trovano analogie tali da rendere difficile cogliere le differenze.

La disciplina sul lavoro agile qui in commento non entra tuttavia in questa riflessione, fermandosi, ancora una volta, a metà del cammino. Pertanto essa appare quasi un’azione di natura promozionale, fornendo una mera cornice normativa di legittimazione alle molte sperimentazioni che stanno nascendo sul tema. Ad avviso di chi scrive potrebbe essere pertanto ingannevole rivolgersi ad essa cercando particolari risposte o definizioni regolatorie, proprio per la sua natura quasi di understatement.

Il terreno si sposta quindi sulla capacità organizzativa e contrattuale delle parti, e in particolare delle aziende, di immaginare e realizzare queste forme di lavoro con tutti gli accorgimenti del caso, rispettando per quanto possibile i pochi limiti imposti dalla norma, con l’obiettivo di aumentare la soddisfazione delle persone e il loro senso di responsabilità sul lavoro. Come è successo fino ad oggi, saranno quindi i datori di lavoro e i lavoratori a dare concretezza e spessore all’evanescente L. 81/2017.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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