Estensione dei permessi ex L. 104/1992 al convivente
di Carlo CavalleriIsabella De Vecchis
Con l’emanazione della L. 76/2016, oltre all’istituzione delle unioni civili fra persone dello stesso sesso, abbiamo assistito a un’innovazione in tema di diritti e doveri delle coppie legate da legami affettivi di coppia, ma non dal vincolo giuridico del matrimonio. Si inserisce sulla stessa scia la sentenza n. 213/2016 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 33, comma 3, L. 104/1992, nella parte in cui non include il convivente fra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità.
La L. 104/1992 e i permessi ex articolo 33, comma 3
La L. 104/1992 – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate – ha come presupposto la tutela delle persone disabili, principali destinatarie della stessa, intese come “coloro che presentano una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione”.
Questa condizione si verifica quando la minorazione ha ridotto l’autonomia personale del soggetto, collegata all’età, in modo da rendere necessaria un’assistenza permanente, continuativa e globale.
Si cerca pertanto di garantire al disabile, attraverso il sostegno sia economico che non, a lui e alla sua famiglia, la maggior autonomia possibile oltre all’integrazione sociale. Il supporto, infatti, può essere sotto forma di servizi di aiuto personale o familiare, ma si può anche intendere come aiuto psicologico, psicopedagogico e tecnico. Proprio a tale scopo, l’articolo 33 istituisce dei permessi retribuiti che possono essere fruiti dal dipendente affetto da handicap grave o dai suoi familiari.
Innanzitutto, perché sia possibile effettuare la richiesta di tali permessi all’Inps, la persona deve essere riconosciuta in situazione di disabilità grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, dall’apposita Commissione Medica Integrata Asl/Inps (composta secondo l’articolo 4, comma 1, L. 104/1992) e non deve essere ricoverata a tempo pieno presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurino assistenza sanitaria continuativa.
Il lavoratore disabile può usufruire, nell’ambito di ciascun mese, alternativamente o di 2 ore di permesso retribuite al giorno, oppure di 3 permessi giornalieri, da godere in maniera continuativa o frazionata.
La modalità di fruizione del permesso può essere cambiata da un mese all’altro, ma non nel corso del mese, se non per esigenze eccezionali, nel senso di improvvise e non prevedibili al momento della richiesta.
Tali permessi, limitatamente all’ipotesi dei 3 giorni al mese, inoltre, possono essere fruiti anche da familiari della persona disabile, se sono lavoratori dipendenti: i genitori (naturali, adottivi e affidatari), i parenti e affini entro il secondo grado e, solo in particolari condizioni, le agevolazioni possono essere estese ai parenti e affini di terzo grado delle persone da assistere. Tali condizioni, introdotte dal c.d. Collegato lavoro, ossia la L. 183/2010, sono rappresentate dai casi in cui il coniuge e/o i genitori della persona in situazione di disabilità grave abbiano compiuto i 65 anni di età, siano affetti da patologie invalidanti oppure siano deceduti o mancanti (con quest’ultimo termine si intende non solo una situazione di assenza naturale e giuridica, ma anche ogni altra condizione ad essa assimilabile, debitamente certificata dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità). Ricordiamo, per completezza, i vari gradi di parentela:
- parenti di primo grado: genitori, figli;
- parenti di secondo grado: nonni, fratelli, sorelle, nipoti (figli di figli);
- affini di primo grado: suocero/a, nuora, genero;
- affini di secondo grado: cognati
- parenti di terzo grado: bisnonni, zii, nipoti (figli di fratelli e/o sorelle);
- affini di terzo grado: zii acquisiti, nipoti acquisiti.
È importante ribadire questa sorta di “gerarchia” dei gradi di parentela, poiché sia per la fruizione dei permessi in oggetto che per quella del congedo straordinario ex articolo 42, D.Lgs. 151/2001 – che viene concesso per massimo 2 anni ai lavoratori dipendenti familiari di persona gravemente disabile – è riconosciuto il c.d. referente unico: questo vuol dire che tali permessi devono essere riconosciuti a un solo lavoratore per l’assistenza della stessa persona disabile in situazione di gravità.
Nel caso del congedo straordinario è stabilito dalla legge un vero e proprio ordine di priorità in merito alla persona che può chiedere il congedo stesso, per cui chi viene dopo nella scala gerarchica può richiedere il congedo solo in mancanza del grado superiore, potendosi derogare a questo principio solo se è già presente una persona che usufruisce dei permessi ex L. 104/1992, il quale sarà l’unico referente per l’assistenza a quella persona.
Generalmente il permesso può essere utilizzato per l’assistenza di una sola persona disabile, tuttavia il lavoratore può assistere più disabili, cumulando i relativi permessi, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado. Sono inoltre cumulabili i permessi che un lavoratore disabile usufruisce per se stesso con quelli che lo stesso richiede per assistere un proprio familiare, e anche, viceversa, quelli richiesti da un familiare per assistere una persona che già usufruisce della L. 104/1992 per se stessa.
Per quanto riguarda i permessi fruiti nella modalità giornaliera, gli stessi spettano per intero (3 giorni) ai dipendenti con orario di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, mentre vengono ridotti proporzionalmente all’orario osservato per i dipendenti con orario di lavoro a tempo parziale di tipo verticale (si veda in proposito la circolare Inps n. 133/2000).
In tale circolare, e nel messaggio Inps n. 16866/2007, viene infatti chiarita la modalità di calcolo del massimale orario mensile: dopo aver precisato che tale limite orario mensile opera solamente laddove i permessi giornalieri vengano utilizzati, anche solo parzialmente, frazionandoli in ore e non quando vengano tutti fruiti per giornate lavorative intere, viene illustrato l’algoritmo di calcolo da applicare per la sua quantificazione, ossia
(orario normale di lavoro settimanale/numero dei giorni lavorativi settimanali) X 3 = ore mensili fruibili
Nel caso del part-time orizzontale, i giorni di permesso sono comunque 3 e corrispondenti alle ore contrattualmente previste (ad esempio se il part-time è di 4 ore al giorno, le 3 giornate corrisponderanno all’orario svolto contrattualmente) e si procederà al calcolo del massimale orario nello stesso modo dei dipendenti a tempo pieno.
In caso, invece, di part-time verticale il numero dei giorni di permesso spettanti va ridimensionato proporzionalmente, secondo un’altra formula indicata dall’Inps (dove risultato numerico va arrotondato all’unità inferiore o a quella superiore, a seconda che la frazione sia fino allo 0,50 o superiore):
x : a = b : c
dove:
- “a” corrisponde al numero dei giorni di lavoro effettivi;
- “b” a quello dei 3 giorni di permesso teorici;
- “c” a quello dei giorni lavorativi.
Ricordiamo, per concludere, come non ci sia un orientamento condiviso in modo unanime riguardo al periodo minimo di fruizione dei permessi, quando la scelta del lavoratore è quella di poterne usufruire in modalità oraria: secondo parte degli operatori tali permessi possono essere utilizzati con un minimo di 30 minuti e successivi multipli di 15 minuti (essendo pertanto consentiti permessi di 30, 45 minuti o per esempio un’ora e 15 minuti, ma non permessi di 35 o 50 minuti); mentre per altra parte degli operatori, essendo la fruizione “oraria”, il periodo minimo consentito sarebbe solamente l’ora o multipli dell’ora.
Infine, precisiamo che, sia nel caso in cui i permessi vengano fruiti a giorni che in quello in cui siano fruiti a ore, saranno indennizzati sulla base della retribuzione effettivamente corrisposta; nella maggior parte dei casi l’indennità viene anticipata dal datore di lavoro con la possibilità di conguaglio con i contributi dovuti all’Inps.
La sentenza n. 213/2016 della Corte Costituzionale
Effettuata la doverosa premessa sulla ratio e sulla natura dei permessi ex articolo 33, comma 3, L. 104/1992, andiamo ora ad esaminare la sentenza n. 213 della Corte Costituzionale, depositata il 23 settembre 2016, che ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale del suddetto articolo per violazione degli articoli 2, 3 e 32 Costituzione, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, durante il contenzioso fra una dipendente della Usl 6 di Livorno e il proprio datore di lavoro. La dipendente chiedeva che le fossero riconosciuti i permessi per l’assistenza al proprio compagno, convivente more uxorio e portatore di handicap gravissimo e irreversibile, contrastando inoltre il recupero di tempo e denaro avvenuto nei suoi confronti per le ore di permesso di cui aveva usufruito per l’assistenza già prestata al proprio convivente nel periodo 2003-2010, su autorizzazione della stessa Usl, poi revocata dall’Azienda per l’assenza di legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito.
Secondo il Tribunale di Livorno, la norma, nell’escludere dal novero dei possibili beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio, si porrebbe in contrasto con l’articolo 2 Costituzione, in quanto non consentirebbe alla persona affetta da handicap grave di beneficiare della piena ed effettiva assistenza nell’ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito a creare e che è sede di svolgimento della propria personalità. Sempre secondo il Tribunale, la norma si porrebbe in contrasto anche con l’articolo 3 Costituzione, poiché darebbe luogo a un’irragionevole disparità di trattamento tra il portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto e il soggetto in identiche condizioni facente parte di una famiglia fondata sul matrimonio. Tale diversità, infatti, non troverebbe ragione nella ratio della norma, che è quella di garantire, attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela della salute psico-fisica ex articolo 32 Costituzione della persona affetta da handicap grave, nonché la tutela della dignità umana e quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’articolo 2 Costituzione, beni primari non collegabili geneticamente a un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità.
Secondo la Consulta: “il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, è, dunque, espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave”.
Si tratta, quindi, di uno strumento di politica socio-assistenziale, basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale e intergenerazionale. Infatti, alla luce dei presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare, e, pertanto, viene riconosciuto che l’interesse primario cui è preposta la norma in questione è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in questo stesso ambito, indipendentemente dalle altre condizioni soggettive della persona.
La salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell’individuo, tutelato dall’articolo 32 Costituzione, rientra quindi tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (articolo 2 Costituzione). Il diritto alla salute psico-fisica, comprensivo dell’assistenza e della socializzazione, va dunque garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, non solo come singolo, ma anche in quanto soggetto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’articolo 2 Costituzione, deve intendersi
“ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”.
Fatte queste premesse, la Corte Costituzionale ha ritenuto che sia irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito ivi disciplinato non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità, dato che la finalità della norma è, come ribadito più volte, quella della tutela del diritto alla salute psico-fisica del disabile.
Resta comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma nel caso in oggetto l’elemento unificante tra le 2 situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex articolo 2 Costituzione.
Conclusioni
La sentenza della Corte Costituzionale si inserisce sulla scia della L. 76/2016, dando maggior riconoscimento alle c.d. coppie di fatto. Tuttavia, non bisogna pensare che si sia arrivati a una equiparazione delle convivenze al matrimonio: il rapporto coniugale continua a trovare una tutela diretta nell’articolo 29 Costituzione, mentre il rapporto di fatto trova una tutela indiretta nell’articolo 2, in relazione ai diritti inviolabili dell’uomo nella formazione sociale. Infatti, la sentenza dà rilevanza alla convivenza non come situazione soggettiva autonomamente tutelata, ma la stessa rileva in via mediata, in quanto “strumento” posto ad accordare la più ampia protezione della disabilità.
In effetti, a ben vedere, la stessa L. 76/20126 in materia di “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” disciplina diversamente i rapporti fra persone dello stesso sesso e convivenze – di sesso diverso o uguale che siano. Mediante l’unione civile i contraenti acquisiscono uno status giuridico proprio, ossia quello di uniti civilmente, che è equiparabile a tutti gli effetti al matrimonio; al contrario i conviventi di fatto non acquisiscono nessuno status.
Tutto ciò ha dunque un riflesso pratico, per quello che riguarda il diritto del lavoro, in quanto alla coppia unita civilmente vengono automaticamente estesi tutti quegli istituti – compresi, appunto, i permessi ex articolo 33, comma 3, L. 104/1992 – che per legge spettano al coniuge, mentre per le convivenze di fatto l’unico riconoscimento che la L. 76/2016 introduce è relativo alla partecipazione nell’impresa familiare.
Ciò non toglie, in ogni caso, che la società si stia muovendo nella direzione di una sempre maggior diffusione delle coppie di fatto e l’ordinamento giuridico dovrà adeguarsi di conseguenza. Pertanto, a parere di chi scrive, nel prossimo futuro sarà prevedibile l’estensione anche ai conviventi di alcuni istituti al giorno d’oggi “riservati” soltanto alle coppie unite civilmente (intendendo sia il matrimonio che le unioni civili fra persone dello stesso sesso), quali, ad esempio, i permessi in caso gravi motivi familiari o decesso del convivente, oppure la priorità nel diritto di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time per assistere il compagno affetto da patologie oncologiche o, ancora, la possibilità di richiedere il congedo biennale ex D.Lgs. 151/2001.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.
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