Il comporto del disabile: approdi e incertezze
di Alessandro TonelliGiulia Passaquindici Scarica in PDFL’articolo analizza i profili critici del licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto attraverso una panoramica degli approdi della giurisprudenza di legittimità e delle incertezze che ancora impegnano gli interpreti.
La potenzialità discriminatoria del comporto
L’articolo 2110, cod. civ., disciplina le ipotesi in cui è garantita al lavoratore la prosecuzione del rapporto di lavoro e la retribuzione a fronte della sospensione della prestazione lavorativa.
Tra gli eventi che si annoverano tra quelli capaci di detto effetto vi è la malattia, da intendersi quale “affezione morbosa comportante un’incapacità al lavoro”[1].
La disposizione in esame, pertanto, da un lato, attribuisce al lavoratore il diritto alla conservazione del posto di lavoro nel caso di malattia per un periodo determinato, e, dall’altro, consente al datore di lavoro la facoltà di recesso, ex articolo 2118, cod. civ., una volta decorso un determinato lasso temporale la cui individuazione è rimessa alla legge, agli usi o all’equità (c.d. periodo di comporto).
Il comporto, dunque, risponde all’esigenza di contemperamento tra interessi contrapposti: quello del lavoratore in malattia, alla conservazione del posto di lavoro nella prospettiva di guarigione e recupero, e quello del datore, alla necessità di porre fine a un rapporto che risulta non poter avere più profittevole prosecuzione nell’ottica di tutela di organizzazione e finanze datoriali.
L’individuazione dei giorni di malattia protetti dalla previsione, di cui all’articolo 2110, cod. civ., è sostanzialmente rimessa alla contrattazione collettiva.
Fino al 2023, il superamento del periodo era condizione sufficiente per legittimare il recesso dal rapporto di lavoro.
Da poco più di un anno, invece, e più precisamente a seguito della sentenza n. 9095/2023 della Corte di Cassazione, il periodo di comporto è stato esposto alla valutazione in termini di capacità discriminante, ai sensi dell’articolo 2, D.Lgs. 216/2003, quando il licenziamento interessa soggetti affetti da disabilità.
Prima, però, di considerare i risultati interpretativi cui è approdata la Corte di Cassazione, occorre delineare il quadro normativo in cui le decisioni si sono inserite.
Il compendio delle fonti cui fare riferimento è complesso e non può prescindere dalla panoramica internazionale.
Con la Direttiva 2000/78/CE, infatti, il Consiglio Europeo si è posto l’obiettivo di: “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate su … gli handicap … per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”, muovendo dalle seguenti considerazioni:
- l’importanza di combattere qualsiasi forma di discriminazione (considerando 6);
- la capacità lesiva della discriminazione basata sull’handicap sul conseguimento degli obiettivi del Trattato CE (considerando 11);
- il divieto di discriminazione tanto diretta quanto indiretta, da stabilirsi con qualsiasi mezzo, compresa l’evidenza statistica (considerando 12 e 15); e infine
- la necessità d’individuare misure atte a considerare i bisogni dei disabili sul luogo di lavoro, senza avvallare il mantenimento dell’occupazione di individui incompetenti, incapaci o non disponibili a svolgere le funzioni essenziali del lavoro (considerando 16 e 17).
Da tali premesse, il Consiglio Europeo ha individuato la nozione di discriminazione rilevante, per tale dovendosi intendere sia quella diretta, cioè il trattamento meno favorevole subito proprio a causa della disabilità, sia quella indiretta, cioè l’effetto svantaggioso per le persone con disabilità prodotto da una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri (articolo 2, Direttiva 2000/78/CE).
Per garantire il rispetto del principio di parità di trattamento, poi, il Consiglio Europeo ha disposto che i datori di lavoro degli Stati membri adottino soluzioni ragionevoli, cioè provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di svolgere il lavoro, con il limite di oneri finanziari proporzionati per l’adozione di dette misure (articolo 5, Direttiva 2000/78/CE).
Infine, quando si tratta di accertare la violazione del principio di parità di trattamento, il Consiglio Europeo ha disposto un particolare regime probatorio che grava il convenuto della prova della mancata discriminazione (articolo 10, Direttiva 2000/78/CE).
A tale Direttiva 2000/78/CE ha dato attuazione l’ordinamento italiano con il D.Lgs. 216/2003.
Occorre evidenziare, però, che né la Direttiva 2000/78/CE né il primo sistema italiano recavano una definizione di disabilità che, dunque, in un primo momento è stata mutuata dal c.d. modello medico elaborato dall’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui la disabilità era sinonimo di menomazione e, dunque, paragonata a un “limite rispetto alla capacità di compiere un’attività della vita quotidiana nella maniera considerata normale per un essere umano” (International Classification of Impairments, Disabilities, and Handicaps – A manual of classification relating to the consequences of disease, 1980)[2].
La Corte di Giustizia UE, in seguito, ha precisato come la nozione di “handicap”, di cui alla Direttiva 2000/78/CE, dovesse intendersi “come un limite che deriva, in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”, evidenziando, altresì, come gli effetti sulle sue capacità dovessero possedere carattere duraturo (cfr. Corte di Giustizia UE, causa C-13/05, sentenza del 11 luglio 2006, Chacòn Navas).
In termini analoghi si esprimeva già la L. 104/1992, che, nella versione originaria, associava la disabilità alla “minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
Anche la L. 68/1999, nel disciplinare il diritto al lavoro dei disabili, faceva espresso riferimento “alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo che comportino una riduzione della capacità lavorativa” superiore a una certa soglia.
Una sensibile svolta nella definizione del concetto di disabilità interviene nel 2003, quando la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità introduce un nuovo concetto “bio-psico-sociale” di disabilità[3], che viene poi condiviso anche dalla Corte di Giustizia UE.
A seguito dell’adesione alla Convenzione ONU, infatti, la Corte di Giustizia UE si è espressa conformemente, dichiarando che la nozione di handicap di cui alla Direttiva 2000/78/CE dev’essere interpretata: “nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che in interazione con barriere di diversa natura può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” (Corte di Giustizia UE, cause C-335/11 e C-337/11, sentenza del 11 aprile 2013, HK Danmark).
In senso analogo anche le cause C-270/2016, sentenza del 18 gennaio 2018, Ruizi Conejero, e C-395/2015, sentenza del 1° dicembre 2016, Daouidi; quest’ultima espressamente prescrive che per considerare “duratura” una limitazione riconducibile al concetto di handicap occorre avere particolare riguardo “alla circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell’interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o … il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona”.
Anche l’ordinamento interno si è adeguato al diritto internazionale adottando il D.Lgs. 62/2024, che, in coerenza con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ha modificato la L. 104/1992, facendo propria la nozione estesa di disabilità, da intendersi come: “una duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri”.
Nel contesto appena delineato, ove vige il divieto di discriminazione, anche indiretta, dovuta a disabilità nella sua accezione appena descritta, s’inserisce il vaglio del periodo di comporto sotto il profilo della potenzialità discriminante dei soggetti fragili.
Nel paragrafo che segue, si analizzano le soluzioni adottate dalla giurisprudenza di legittimità.
Le soluzioni individuate dalla Corte di Cassazione
Con il ricorso rigettato dalla sentenza n. 9095/2023 la Suprema Corte è stata investita per la prima volta della questione relativa alla portata discriminatoria della disciplina collettiva sul comporto applicata al lavoratore disabile.
Con detta pronuncia la Corte ha ritenuto nullo il licenziamento del lavoratore disabile per superamento dell’ordinario periodo di comporto, previsto dal contratto collettivo di categoria, costituendo discriminazione indiretta la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, che trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto, in quanto in posizione di particolare svantaggio.
Per giungere a detta conclusione è stato considerato, da un lato, che la nozione di handicap/disabilità non coincide con lo stato di malattia, oggetto della disciplina contrattuale collettiva sul comporto, in quanto quest’ultima può essere tanto causa quanto effetto della prima; dall’altro, che un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia connessa al suo stato di disabilità e, dunque, a una maggiore morbilità. Ne consegue, secondo la Corte, che l’applicazione a detto lavoratore del periodo di comporto ordinario costituisce una discriminazione indiretta, visto il maggiore rischio per quest’ultimo di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi previsti per la conservazione del posto di lavoro.
La Corte, tuttavia, precisa che tanto non deve indurre a ritenere che non debba o non possa essere previsto un limite massimo di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile; a ogni buon conto, ritiene che debba trovare applicazione il principio dell’individuazione di “soluzioni ragionevoli”, secondo una prospettiva che considera non percorsa nel caso di specie e che, però, omette di valutare anche nella sua portata pratica e non eccessivamente onerosa per il datore.
Si precisa che il caso riguardava il licenziamento di un soggetto riconosciuto portatore di handicap ai sensi della L. 104/1992, con capacità lavorativa ridotta, cui la società, con l’approssimarsi del raggiungimento del comporto, aveva pure chiesto osservazioni circa dette assenze senza che a detta richiesta avesse dato riscontro il lavoratore poi licenziato.
Singolare, dunque, che la critica mossa al datore sia stata quella di aver “trascurato di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità”, quando, anche a voler considerare detta distinzione, il lavoratore non ha fornito le pur richieste delucidazioni sulle ragioni dell’assenza che avrebbero consentito la prescritta diversificazione.
A detta pronuncia, ha fatto seguito la sentenza n. 11731/2024, che si è adeguata all’orientamento sopra ricordato, pronunciandosi anche con riguardo al regime probatorio della discriminazione indiretta.
La pronuncia, infatti, precisa che grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti in ragione della disabilità. Trattasi, a dire della Corte, di un’agevolazione probatoria in favore del lavoratore che, tuttavia, evidentemente porta con sé dei rischi d’incertezza sui fatti costitutivi della discriminazione, che restano a carico del datore di lavoro.
Al fine di superare detta incertezza la Corte ritiene che, una volta che il datore di lavoro sia edotto della condizione effettiva di handicap del lavoratore, ha l’onere di attivarsi per approfondire le ragioni delle assenze per malattia eventualmente dipendenti dall’handicap noto.
Si precisa che, nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, il datore era a conoscenza dello stato di disabilità del dipendente e, dunque, secondo la Corte, avrebbe dovuto interrogare il lavoratore sui motivi dell’assenza, così da applicare ragionevoli accomodamenti. In mancanza della prova di detta circostanza liberatoria, è stata ritenuta raggiunta la prova della discriminazione. Evidentemente, però, nel suggerire il comportamento dovuto dal datore di lavoro a conoscenza della disabilità, non si è tenuto in alcuna considerazione il fatto che il lavoratore ben avrebbe potuto, anche legittimamente, trincerarsi dietro un religioso silenzio sulle cause dell’assenza, assistito tanto dal diritto alla privacy quanto dal divieto ex articolo 5, St. Lav..
A tale profilo, ha tentato di porre rimedio la sentenza n. 14316/2024 che, da un lato, ha confermato l’onere datoriale di acquisire informazioni sulle ragioni delle assenze e, dall’altro, ha tentato di ricavare da fonti internazionali un preteso dovere di diligente collaborazione del lavoratore nel fornire i dati richiesti.
In altri termini il datore di lavoro, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ha l’onere di acquisire informazioni circa l’eventualità che le assenze siano connesse a uno stato di disabilità, per poi valutare gli elementi utili a individuare accomodamenti ragionevoli. A tale dovere non potrebbe corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore.
Tale dovere di cooperazione troverebbe conforto nella Convenzione ONU, per cui è discriminatorio il rifiuto di un accomodamento ragionevole e può rifiutarsi solo ciò che è oggetto di specifica istanza, e nel Commento generale n. 6, adottato dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità ONU, secondo cui è connaturato alla nozione di accomodamento il dialogo tra obbligato e soggetto disabile.
L’interlocuzione e il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva e per verificare l’adempimento all’obbligo di adozione di ragionevoli accomodamenti.
Si badi, però, che nella stessa sentenza la Corte ha anche precisato che, con riguardo alla discriminazione indiretta, quale è quella dell’applicazione dell’ordinario comporto al disabile, ciò che viene in rilievo è l’effetto discriminatorio e non la condotta e, quindi, esula dal tema ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio.
La discriminazione, dunque, sembrerebbe operare in modo oggettivo seppur con il correttivo del dialogo reso necessario dall’espresso riconoscimento dell’incidenza della conoscenza/conoscibilità dello stato di disabilità sulla possibilità di fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti.
Riservata al paragrafo che segue ogni considerazione della soluzione sopra indicata, si osserva che la Corte limita la conoscenza/conoscibilità a 2 ipotesi:
- la prima, in cui il datore colpevolmente ignora la disabilità;
- la seconda, in cui l’handicap avrebbe potuto essere apprezzato con diligenza.
Nella prima casistica rientrerebbero, ad esempio, i casi in cui la disabilità sarebbe conosciuta per essere il dipendente stato assunto ai sensi della L. 68/1999 (c.d. categorie protette); nella seconda, rientrerebbero, invece, le ipotesi in cui di fatto il datore non ha conoscenza della disabilità, ma avrebbe potuto conoscerla con diligenza, ad esempio, tramite adeguata sorveglianza sanitaria ovvero desumendola dalle certificazioni mediche inviate e/o dalla documentazione sintomatica dello stato di fragilità.
Nessuna considerazione, invece, viene espressa con riguardo alla conoscibilità/conoscenza della riconducibilità dell’assenza proprio alla disabilità e non a comune malattia.
In entrambi i suddetti casi, la Corte ritiene di onerare il datore dell’acquisizione di informazioni.
La sentenza non si pronuncia nemmeno sulle conseguenze che potrebbero derivare dagli intervenuti approfondimenti non seguiti da esaustivo riscontro da parte del dipendente; in altri termini, se la prova di aver chiesto informazioni basti a escludere la responsabilità per non aver adottato ragionevoli accomodamenti.
Tanto avrebbe fatto la differenza in termini di chiarezza, data la premessa rilevanza oggettiva della condotta discriminatoria.
Sulla base di queste considerazioni in diritto, la Suprema Corte ha ritenuto irrilevante che non vi fosse la prova della conoscenza dello stato di handicap e della mancata indicazione nei certificati medici inviati dal dipendente della voce “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”.
Anche la successiva sentenza n. 15723/2024 ha aderito all’orientamento sopra richiamato in un caso in cui la disabilità del dipendente era nota alla datrice che riteneva evitata la discriminazione indiretta del comporto per effetto della considerevole durata dello stesso e, come tale, ritenuta idonea a garantire la conservazione del posto di lavoro anche alle persone affette da gravi patologie.
La Corte ha, tuttavia, escluso che la durata più o meno lunga del comporto possa eliminare o ridurre la condizione di svantaggio del lavoratore affetto da disabilità, perché questi si trova comunque esposto al rischio di ammalarsi più frequentemente, di accumulare più assenze e di raggiungere più in fretta il limite massimo di conservazione del posto, risolvendosi l’uniformità di trattamento in condizione di per sé idonea a porre il lavoratore portatore del fattore di discriminazione in una condizione sfavorevole rispetto al tertium comparationis.
Le criticità irrisolte
Volendo riassumere l’orientamento di legittimità, si potrebbe affermare che:
- l’applicazione dell’ordinario termine di comporto al disabile costituisce discriminazione indiretta;
- per la configurazione di quest’ultima è sufficiente l’effetto discriminatorio, a prescindere dall’elemento soggettivo della condotta;
- grava sul datore di lavoro, per recedere dal contratto per superamento del comporto, l’onere di acquisire informazioni sullo stato di malattia del lavoratore e sulle relative cause;
- a tale onere corrisponderebbe quello del lavoratore di collaborare nel fornire i dati richiesti.
Detto orientamento sconta non poche criticità, di cui alcune sono state oggetto di attenzione da parte del Tribunale di Ravenna, che, con ordinanza del 4 gennaio 2024, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la decisione sulla capacità discriminante della previsione di un unico periodo di comporto per lavoratori disabili e non.
Il giudice di merito, infatti, rileva come la normativa italiana preveda una disciplina a tutela della privacy del lavoratore, che non è tenuto a rivelare al datore né il proprio stato di disabilità né le ragioni alla base delle proprie assenze per malattia, avendo, di contro, il datore di lavoro l’espresso divieto di svolgere accertamenti sanitari sui dipendenti (articolo 5, St. Lav.). Questo il primo limite all’orientamento di legittimità, che impone al datore di lavoro di acquisire dette informazioni, se vuole provare l’inesistenza della discriminazione.
Peraltro, con riguardo all’eventuale riconducibilità della malattia allo stato di disabilità, il certificato medico inviato al datore non riporta l’indicazione della diagnosi e, spesso, nemmeno l’indicazione della riconducibilità dello stato di malattia all’eventuale handicap. In ogni caso, dette circostanze sono state a più riprese ritenute irrilevanti (Cassazione, n. 14316/2024).
Le sentenze della Corte, si aggiunge, nemmeno considerano l’ipotesi, tutt’altro che infrequente, in cui il datore di lavoro non possa conoscere, nemmeno con diligenza, lo stato di disabilità del dipendente, anche nel caso in cui detta condizione sia sconosciuta allo stesso lavoratore. Non può, infatti, escludersi una simile circostanza, vista l’estrema ampiezza della nozione di disabilità oggi vigente.
Corollario di queste considerazioni è, poi, il profilo relativo all’accertamento dell’handicap: non è previsto che si tratti di una condizione certificata da personale sanitario. Sembrerebbe, dunque, pretendersi dal datore di lavoro di munirsi di competenze mediche per presumere l’handicap anche da “circostanze sintomatiche” quali l’“andamento anomalo delle assenze” (Cassazione, n. 14316/2024).
È evidente, dunque, che, per quanto si sia tentato d’individuare correttivi, la responsabilità del datore di lavoro continua a operare oggettivamente anche in considerazione del fatto che ciò che potrebbe limitarla è un comportamento che, in primo luogo, presuppone circostanze non sempre conoscibili, pur operando con diligenza (la conoscenza della condizione di disabilità), e che, secondariamente, mette il datore nelle condizioni di violare disposizioni di legge (disciplina privacy e Statuto dei Lavoratori).
Perché, peraltro, l’esimente possa operare, è necessario un contegno collaborativo del lavoratore che può dirsi affatto (anche legittimamente) scontato.
A questo proposito, è interessante riflettere sui diversi modi verbali utilizzati dalla sentenza n. 14316/2024: indicativo, che esprime certezza, per il datore di lavoro cui è fatto obbligo di acquisire informazioni; il condizionale, modo dell’eventualità, per il lavoratore che, dunque, pare avere facoltà di negare la propria collaborazione anche quando richiesta per adottare nei suoi confronti ragionevoli accomodamenti.
Date queste incertezze, che inducono ad agire “al buio” il datore di lavoro che intenda recedere per superamento del periodo di comporto[4], l’ultima delle sentenze pronunciate dalla Suprema Corte[5] sull’argomento è lo spunto per interrogarsi sulla residua utilità dell’istituto del comporto, alla luce della contemporanea evoluzione giurisprudenziale.
Se, infatti, la durata di quest’ultimo, qualunque essa sia (anche notevole), non è ciò che elimina o riduce la condizione di svantaggio, a che fine prevedere, quali ragionevoli accomodamenti, anche solo periodi diversi di comporto per disabili e non, oppure scomputare dal periodo protetto le assenze riconducibili alla malattia?
In tale prospettiva può essere letta l’inerzia, in sede di rinnovo, della contrattazione collettiva sul punto.
Ciò che potrebbe complicare ancor di più detto potenziale intervento è la considerazione per cui non ogni disabilità ha incidenza sul computo del periodo di comporto (ad esempio, cecità, sordità, etc.), ma solo quella che in concreto comporta una maggiore reiterazione delle assenze per malattia[6]. Diversamente, si giungerebbe a diverse discriminazioni.
In conclusione, pare potersi pronosticare, in assenza di certezze, anche in ordine all’obbligatorietà vicendevole del dovere di collaborazione[7], un venir meno progressivo del ricorso al recesso per superamento del periodo di comporto.
[1] Cassazione, n. 5509/1998.
[2] Per un più approfondito excursus sull’evoluzione del concetto di disabilità cfr. F. Alifano, M. Dalla Sega, M. De Falco, F. Di Gioia e T. Maini, “La nuova definizione della “condizione di disabilità”: implicazioni e procedure ex. D.lgs. n. 62/2024”, in Bollettino ADAPT, 1° luglio 2024, n. 26.
[3] La Convenzione precisa come la disabilità sia un concetto in evoluzione e il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.
[4] Tribunale di Ravenna del 4 gennaio 2024.
[5] Cassazione, n. 15723/2024 cit..
[6] A. Maresca, “Disabilità e licenziamento per superamento del periodo di comporto” in Lavoro Diritti Europa – Rivista nuova di Diritto del Lavoro, n. 2/2024.
[7] Tribunale di Vicenza, n. 181 del 27 aprile 2022.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”