14 Ottobre 2024

Il licenziamento in costanza di Cigs: maneggiare con cura

di Mauro Marrucci Scarica in PDF

L’intervento della Cigs, con riferimento alle causali che ne esplicano gli effetti, limita il potere del soggetto datoriale, riducendo, ma non eliminando, la possibilità di licenziare.
Il presente lavoro analizza le varie soluzioni recessive che rimangono nella facoltà del datore di lavoro e il cui impiego dev’essere attuato con grande attenzione, data la delicatezza delle varie fattispecie e la conseguente possibilità di contenzioso.

 

Premessa

L’articolo 41, comma 1, Costituzione, nello stabilire il principio della libertà d’iniziativa economica, conferisce all’imprenditore la titolarità del potere organizzativo (e con esso i derivati poteri direttivo e disciplinare) legittimandolo ad assumere tutte le decisioni ritenute consone alla proficua gestione dell’azienda, adottando, quindi, anche tutti i provvedimenti amministrativi o gestionali conseguenti che non siano in contrasto con l’utilità sociale o arrechino danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (articolo 41, comma 2, Costituzione).

La libertà delle scelte imprenditoriali è, quindi, ammessa anche nel caso in cui si manifestino crisi aziendali tali da far palesare eccedenze di personale. Eccettuati condizionamenti esterni – perlopiù individuabili nella pressione popolare, dei sindacati o dei soggetti istituzionali a carattere territoriale o nazionale, a seconda delle caratteristiche qualitativo-quantitative dell’azienda – il soggetto datoriale risulta libero di optare per le scelte che ritenga più idonee a suo insindacabile giudizio, fatte salve le conseguenze che ne possano derivare.

In questa logica, egli potrà adottare provvedimenti espulsivi, licenziando il personale eccedente nei modi e nelle forme ammesse dall’ordinamento, oppure soluzioni conservative attraverso la riduzione o, extrema ratio, la sospensione dell’orario di lavoro dei dipendenti, chiedendo l’intervento degli ammortizzatori sociali e, ove le caratteristiche soggettive dell’azienda lo permettano, per quanto previsto dall’articolo 20, D.Lgs. 148/2015, della Cigs, secondo le causali ammesse dal successivo articolo 21, D.Lgs. 148/2015: riorganizzazione aziendale, crisi aziendale, e contratto di solidarietà (fatti salvi interventi in deroga, finanziati annualmente, come, ad esempio, quello previsto dall’articolo 44, comma 11-bis, D.Lgs. 148/2015).

Risulta subito evidente che la soluzione conservativa sia implicitamente antitetica alla possibilità di licenziare il personale in costanza di ricorso all’ammortizzatore sociale. Occorre, tuttavia, osservare come l’azienda sia un’entità dinamica, tale da doversi adeguare alle mutazioni del mercato e degli assetti produttivo organizzativi, trovandosi così nella condizione di procedere ad adottare soluzioni espulsive anche durante periodi in cui fruisca della Cigs, seppure con particolari accorgimenti a seconda della causale utilizzata.

 

Sul licenziamento per sopravvenuta impossibilità di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori collocati in Cigs

Una prima fattispecie da scansionare è quella prevista dall’articolo 4, comma 1, L. 223/1991, il quale ammette che: “L’impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all’articolo 1 ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare la procedura di licenziamento collettivo ai sensi del presente articolo”.

Stante l’abrogazione dell’articolo 1, L. 223/1991, per mano dell’articolo 46, D.Lgs. 148/2015, il richiamo di tale disposizione dev’essere oggi riferito ai programmi di riorganizzazione aziendale e di crisi aziendale di cui all’articolo 21, comma 1, lettere a) e b), D.Lgs. 148/2015, mantenendo così la disciplina del licenziamento collettivo, conseguente al fallimento della Cigs, di cui all’articolo 4, comma 1, L. 223/1991, la valenza precedentemente prevista[1].

Quando si parla di licenziamento collettivo, la memoria corre all’articolo 24, L. 223/1991. Tale norma, al comma 1, prevede letteralmente che: “Le disposizioni di cui all’articolo 4, commi da 2 a 12 e 15 bis, e all’articolo 5, commi da 1 a 5, si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia …”.

Da questa disposizione si ricava, quindi, la nozione di licenziamento collettivo[2], configurabile allorquando un datore di lavoro (anche non imprenditore ex articolo 24, comma 1-bis, L. 223/1991):

  1. occupi almeno 15 dipendenti;
  2. intenda effettuare almeno 5 licenziamenti, entro un arco di tempo di 120 giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa Provincia;
  3. motivi tali licenziamenti in relazione a una cessazione di attività o a una trasformazione o riduzione di attività o di lavoro, fatti salvi i casi dei licenziamenti determinati dalla fine dei lavori negli appalti per costruzioni edili[3].

Come abbiamo osservato, l’articolo 24, L. 223/1991, richiama le disposizioni recate dall’articolo 4, commi 2-12, L. 223/1991, le quali provvedono a disciplinare la complessa procedura che preordina il licenziamento collettivo.

Tale procedura dev’essere seguita anche dal datore di lavoro che, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, L. 223/1991, ritenga di non potere riammettere in servizio tutti i lavoratori precedentemente sospesi mediante l’intervento della Cigs.

Quest’ultima disposizione non pone, tuttavia, i limiti numerici previsti dall’articolo 24, L. 223/1991. Ne deriva, secondo un consolidato orientamento di dottrina e giurisprudenza, che il soggetto datoriale, il quale abbia fatto ricorso alla Cigs e non sia in grado di riammettere tutti i dipendenti sospesi, debba procedere al licenziamento collettivo del personale esuberante senza essere soggetto al requisito numerico, talché una procedura di Cigs che si dovesse concludere anche con il licenziamento di un solo dipendente comporterebbe comunque il rispetto della procedimentalizzazione imposta dall’articolo 4, commi 2-12, L. 223/1991, essendo quindi inibito il licenziamento individuale, fatte salve ragioni del tutto difformi dalla “sopravvenuta impossibilità di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi” nel corso o al termine del programma.

Del resto, con riferimento alle richiamate disposizioni normative, come affermato dalla Corte di Cassazione[4]: “non vi è dubbio che la procedura di mobilità, regolata dagli artt. 4 e 5 della legge per l’ipotesi in cui l’impresa ammessa alla CIGS non possa utilmente ricollocare in tutto o in parte i cassintegrati al termine del trattamento, è istituto diverso[5] dal c.d. licenziamento collettivo, previsto e disciplinato dal successivo art. 24 per il caso in cui l’impresa, non ammessa o non avente diritto alla CIGS, proceda al licenziamento di almeno cinque dipendenti nell’arco di 120 giorni, ancorché le procedure di consultazione sindacali siano coincidenti”.

Ne discende che, una volta rispettata la cronologia procedurale imposta dall’articolo 4, L. 223/1991, il soggetto datoriale possa addivenire al licenziamento (collettivo) dei lavoratori anche in assenza di accordo sindacale, provvedendo a individuare soggettivamente i dipendenti da espellere secondo i criteri legali di cui all’articolo 5, comma 1, L. 223/1991, vale a dire: carichi di famiglia; anzianità di servizio ed esigenze tecnico produttive e organizzative (criteri da assumere in concorso tra loro).

È, peraltro, opportuno osservare come il licenziamento collettivo post Cigs, ammesso dall’articolo 4, L. 223/1991, qualora nel corso di attuazione del programma il datore di lavoro non ritenga di essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, abbia attinenza con le (sole) causali di riorganizzazione aziendale e di crisi aziendale di cui all’articolo 21, comma 1, lettere a) e b), D.Lgs. 148/2015.

Si deve, quindi, giungere a un’altra soluzione recessiva per quanto concerne la causale del contratto di solidarietà di cui all’articolo 21, comma 1, lettera c), D.Lgs. 148/2015.

 

Sul licenziamento collettivo non oppositivo nel corso del contratto di solidarietà

Il contratto di solidarietà difensivo, già regolamentato dall’articolo 1, D.L. 726/1984, convertito dalla L. 863/1984, è oggi disciplinato dall’articolo 21, comma 5, D.Lgs. 148/2015, e dagli articoli 3 e 4, D.M. 94033/2016.

Con questo istituto, preordinato dalla stipula di un contratto collettivo aziendale – ai sensi dell’articolo 51, D.Lgs. n. 81/2015 – tra azienda e organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (sono idonee anche le Rsa o la Rsu), si persegue lo scopo di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esubero del personale[6], anche tramite un suo più razionale impiego, mediante una riduzione dell’orario di lavoro integrata dalla Cigs previa specifica autorizzazione ministeriale.

In particolare, a decorrere dal 1° gennaio 2022, la riduzione media oraria non può essere superiore all’80% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati al contratto di solidarietà, mentre, per ciascun lavoratore, la percentuale di riduzione complessiva dell’orario di lavoro non può essere superiore al 90% nell’arco dell’intero periodo d’intervento dell’ammortizzatore.

Come si può osservare, a differenza dell’intervento della Cigs per riorganizzazione e crisi aziendale, causali per le quali la consultazione sindacale di cui all’articolo 24, D.Lgs. 148/2015, dev’essere esperita, ma può concludersi anche con esito negativo, il contratto di solidarietà impone comunque il consenso negoziale versato nell’ambito dell’accordo sindacale.

Riguardo al perimetro della sua efficacia, la Suprema Corte ha stabilito che il contratto di solidarietà sia applicabile alla generalità dei lavoratori occupati nell’azienda – a prescindere dalla loro affiliazione ai sindacati stipulanti – in quanto concerne un’ipotesi eccezionale di attribuzione di portata normativa al contratto collettivo aziendale – giustificata dai vantaggi occupazionali previsti – assistita da precise cautele e condizioni[7]. Tale validità deriverebbe, seppure per taluni interpreti esso non sia dotato di un’autonoma efficacia erga omnes, dall’impulso che l’ammortizzatore riceve dal provvedimento amministrativo di ammissione all’integrazione salariale[8].

Pur registrandosi un orientamento di segno opposto, il contratto di solidarietà sembra poter essere collocato nell’ambito della categoria dei “contratti gestionali”, ove a essi si voglia attribuire una qualificazione originata da motivazioni rivolte ad affrontare la crisi d’impresa. Del resto, con tale soluzione negoziale, il potere dell’imprenditore viene a essere limitato seppure nel solco di una contrattazione ablativa che richiede sacrifici ai lavoratori in termini condivisi e per questo negoziati, finalizzati a evitare licenziamenti.

Proprio per la sua natura – e in conformità con lo spirito della legge – l’accordo sindacale impone, nel corso della sua vigenza, il divieto (unilaterale) per il datore di lavoro di operare riduzioni di personale. Eventuali licenziamenti, oltre che annullabili per difetto di giustificato motivo, potrebbero consentire il ricorso alla procedura di cui all’articolo 28, St. Lav., in materia di comportamento antisindacale, in quanto la stipulazione dell’accordo – violato da parte datoriale – avrebbe impegnato la rappresentatività e la credibilità del sindacato[9].

La stipula di un contratto di solidarietà lascia nitidamente intravedere, del resto, l’implicita rinuncia del datore di lavoro a operare una riduzione di personale. Nonostante ciò, sembrerebbe possibile una riconsiderazione sul mantenimento dei livelli occupazionali per i lavoratori interessati al contratto, ove fosse provata la sopravvenienza di eventi oggettivamente tali da rendere impossibile o eccessivamente oneroso mantenere fede all’impegno di non licenziare, assunto in seno agli accordi negoziali. Tuttavia, tale fattispecie imporrebbe un confronto tra le parti stipulanti, al fine di evitare un comportamento datoriale tale da assumere una connotazione antisindacale.

Nel corso del contratto di solidarietà, l’azienda non può effettuare licenziamenti per eccedenza di personale.

Tuttavia, secondo la previsione dell’articolo 4, comma 4, D.M. 94033/2016, durante il periodo d’intervento del trattamento straordinario di integrazione salariale a seguito di stipula di un contratto di solidarietà – al fine di consentire la gestione non traumatica degli esuberi di personale – è possibile attivare la procedura di licenziamento collettivo solo con la non opposizione dei lavoratori[10].

Poiché tale criterio assume una rilevanza negoziale, dovendo essere frutto di specifico accordo ex articolo 5, comma 1, L. 223/1991, anche in questo caso il governo congiunto del fenomeno tra azienda e sindacati stipulanti è reso necessario.

Dovrà, quindi, essere aperta una procedura di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24, L. 223/1991, che si concluda con un accordo volto a qualificare quale criterio quello della non opposizione del lavoratore. Una volta licenziato, è quindi opportuno che il singolo dipendente sottoscriva un atto di conciliazione in sede protetta, con il quale accetti il licenziamento e rinunci a impugnarlo, previo il riconoscimento di altre concessioni da parte del soggetto datoriale (solitamente un incentivo all’esodo).

 

Sull’ammissibilità del licenziamento individuale durante il contratto di solidarietà

A prima vista, nell’ambito della durata del contratto di solidarietà – causale che si configura quale mezzo per il superamento della crisi – sembra vigere il divieto assoluto di licenziamento del personale (salvo quanto ut supra osservato per il licenziamento collettivo non oppositivo) proprio per le finalità recate da tale istituto e per l’abdicazione datoriale a parte del proprio potere organizzativo e, con essa, a quello di recedere dai rapporti di lavoro.

Tuttavia, la Corte di Cassazione, con l’inedita sentenza n. 637/1998, ha offerto una lettura diversa.

La Suprema Corte muove dal presupposto che a fronte del sacrificio dei lavoratori a rinunciare a parte del proprio orario di lavoro – seppure dietro l’erogazione dell’integrazione salariale – si correli una corrispondente rinuncia del datore di lavoro all’esercizio del suo potere di licenziare. Certamente tale rinuncia – considerata implicita o inerente alla causa del contratto – sussiste, ma occorre comprendere se essa riguardi solo il potere di procedere a licenziamenti collettivi o anche il potere di recedere dal rapporto di lavoro per giustificato motivo (oggettivo) costituito (secondo la formulazione dell’articolo 3, L. 604/1966), da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. A un’opzione radicalmente preclusiva di ogni licenziamento, la Corte ha preferito una diversa interpretazione, secondo la quale: “la vigenza del contratto di solidarietà preclude al datore di lavoro solo l’intimazione dei licenziamenti preordinati alla riduzione di personale imposta dalla crisi e determinati da un’insindacabile scelta di ridimensionamento dell’attività aziendale”.

Per il Collegio, tale soluzione risulta essere suffragata da elementi di carattere sia sistematico sia testuale.

In questa direzione, infatti, poiché il contratto di solidarietà (al pari della Cig) costituisce un mezzo diretto a porre l’impresa in grado di superare difficoltà temporanee, l’esuberanza di personale che esso tende a scongiurare deve logicamente correlarsi a cause o situazioni transeunti e non già a cause non provvisorie e riconducibili alla previsione dell’articolo 3, L. 604/1996 (ragioni inerenti all’organizzazione produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa), che (come la superfluità dell’impiego di un determinato numero di unità lavorative in caso di adozione di determinate tecnologie) prescindono da una situazione di crisi e possono, anzi, – se non rimosse – ingenerarla.

Secondo la Corte di Cassazione, pertanto: “Deve perciò concludersi che il contratto di solidarietà c.d. difensivo preclude, durante la sua vigenza, solo il licenziamento collettivo (programmato al fine dell’eliminazione dell’esuberanza di personale) e non anche il licenziamento individuale, ancorché plurimo, per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966 non rilevando – salvo che il datore di lavoro abbia assunto con tale contratto obbligazioni ulteriori rispetto a quelle tipiche o ex lege – l’anteriorità della situazione concretante il giustificato motivo anzidetto alla stipulazione dello stesso contratto[11].

 

Sul licenziamento disciplinare durante la Cig

Per mera completezza, non si può non osservare come, durante la vigenza della Cigs, permangano in capo alle parti del rapporto di lavoro gli obblighi sinallagmaticamente posti in materia di subordinazione.

A fronte dell’erogazione della retribuzione (per l’attività lavorativa effettivamente svolta) e dell’integrazione salariale (per i periodi di riduzione o sospensione dell’orario), il lavoratore deve porre le proprie energie a disposizione del datore di lavoro secondo l’organizzazione aziendale e le direttive da egli ricevute.

Peraltro, secondo il consolidato giudizio della Cassazione, durante la Cigs, sul lavoratore grava un generico obbligo di disponibilità a riprendere servizio, in quanto, anche se sospeso, resta ugualmente alle dipendenze del datore di lavoro e deve ritenersi a disposizione; pertanto, se convocato, è tenuto a rientrare sul posto di lavoro anche prima della scadenza della sospensione programmata[12].

Risulta, quindi, evidente come, anche durante il periodo d’intervento dell’ammortizzatore sociale, il datore possa esercitare il proprio potere disciplinare, ai sensi dell’articolo 2106, cod. civ., nei limiti e con le procedure stabilite dall’articolo 7, St. Lav., e dalla contrattazione collettiva, ben potendo, nelle circostanze che lo giustifichino, emettere un provvedimento di licenziamento per gms o per giusta causa.

 

[1] Così anche Fondazione studi consulenti del lavoro, parere n. 1/2016.

[2] Si veda R. Del Punta, “Diritto del lavoro”, Milano, 2020, pag. 730 ss..

[3] Ai sensi dell’articolo 7, comma 4-bis, D.L. 248/2007, introdotto in sede di conversione dalla L. 31/2008, la cessazione degli appalti di servizi a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 24, L 223/1991, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall’azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

[4] Cassazione, n. 14736/2002.

[5] Tuttavia, anche in presenza di un licenziamento collettivo non preceduto da Cigs, il limite dei 5 licenziamenti è spesso aggirato nella prassi, dichiarando l’intenzione di licenziare almeno 5 lavoratori e poi riducendo tale numero a seguito del confronto sindacale. Così R. Del Punta, “Diritto del lavoro”, Milano, 2020, pag. 731.

[6] Tale istituto, quale soluzione rimediale a evitare in tutto o in parte una contrazione dell’organico aziendale, è espressamente richiamato, a tali fini, dall’articolo 4, comma 5, L. 223/1991.

[7] Cassazione, n. 1403/1990.

[8] Ex multis, M. Magnani, “Nuove leggi civili commentate”, 1985, pag. 825; M. Marrucci, “Contratto di solidarietà”, in Il Punto, n. 10 – Guida al lavoro, novembre 2011.

[9] Si veda M.V. Ballestrero, “Cassa integrazione e contratto di lavoro”, 1985, pag. 275.

[10] L’eventuale criterio non oppositivo utilizzato nell’ambito del licenziamento collettivo, per quanto precisato dal Ministero del lavoro con la circolare n. 27/2016, sarà oggetto, tra l’altro, di verifica ispettiva.

[11] Nello stesso senso, da ultimo, Cassazione, n. 23022/2018, secondo la quale, nella vigenza del contratto di solidarietà c.d. difensivo, al datore di lavoro è precluso il licenziamento collettivo – che presuppone necessariamente la riduzione stabile dell’attività economica – proprio in ragione delle specifiche finalità cui è preordinata la stipula del contratto di solidarietà, in connessione al sacrificio richiesto ai lavoratori con la riduzione dell’orario lavorativo e quindi della retribuzione, mentre è ammissibile il ricorso al recesso individuale, ancorché plurimo, per giustificato motivo oggettivo, che risponde all’esigenza di adottare misure organizzative che consentono una più intensa e funzionale organizzazione della forza lavoro, con accorpamento di funzioni e soppressione di posti di lavoro.

[12] Si vedano Tribunale di Udine, n. 183/2018 e Cassazione, n. 18528/2011 e n. 12787/2024.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza