7 Ottobre 2024

Lo stress lavoro-correlato

di Fabio Pontrandolfi Scarica in PDF

L’articolo intende aggiornare le considerazioni sullo stress lavoro-correlato alla luce della più recente giurisprudenza e avanzare alcune prime considerazioni in tema di rapporto tra stress lavoro correlato, lavoro agile e intelligenza artificiale.

 

Premessa

L’inserimento del tema dello stress lavoro-correlato nella valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. 81/2008 suscitò, all’epoca, un grande fervore interpretativo e applicativo, tanto che la Commissione consultiva permanente, per governare un tema assai scivoloso, nel 2010 dovette elaborare delle “Indicazioni per la valutazione dello stress lavoro correlato”, richiamate espressamente dalla legge (articolo 28, comma 1-bis, D.Lgs. 81/2008).

Leggendo la Banca dati statistica dell’Inail, i casi definiti di malattia professionale da disturbi psichici e comportamentali (cod. ICD F00-F99 – all’interno dei quali si trova lo stress lavoro-correlato) nell’ultimo anno disponibile (il 2022) sono 15.

 

La giurisprudenza più recente

Se, sul piano assicurativo, non ci sono rilevanti evidenze di particolari criticità, la giurisprudenza ha, da ultimo, precisato alcuni profili d’interesse.

Nel 2024, la Cassazione[1] – richiamando la giurisprudenza recente – ha confermato che “è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ”.

La responsabilità datoriale è configurabile, infatti, “a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente”, secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale. Si resta, invece, al di fuori della responsabilità “ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili: … le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico, per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica nelle forme della c.d. “costrittività organizzativa”, non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’art. 2087 cod. civ.“.

 

La valutazione dello stress lavoro-correlato

Come detto, lo strumento per la valutazione del rischio legato allo stress lavoro-correlato è, per legge (articolo 28, D.Lgs. 81/2008), contenuto nelle indicazioni metodologiche emanate dalla Commissione consultiva permanente nel 2010.

Molti strumenti alternativi si sono susseguiti nel tempo (Ispesl, Inail, Regioni), ma il riferimento normativo – garanzia del conseguente corretto adempimento dell’obbligo di legge – è rappresentato dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente.

Uno dei punti di maggior interesse, e decisivi per evitare la c.d. medicalizzazione della valutazione, è il chiaro riferimento a un approccio oggettivo, legato a gruppi di lavoratori e a fattori prevalentemente obiettivi, posto che “persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili”.

Secondo le indicazioni, infatti, “l’individuazione di un problema di stress da lavoro può avvenire attraverso un’analisi di fattori quali l’organizzazione e i processi di lavoro (pianificazione dell’orario di lavoro, grado di autonomia, grado di coincidenza tra esigenze imposte dal lavoro e capacità/conoscenze dei lavoratori, carico di lavoro, ecc.), le condizioni e l’ambiente di lavoro (esposizione ad un comportamento illecito, al rumore, al calore, a sostanze pericolose, ecc.), la comunicazione (incertezza circa le aspettative riguardo al lavoro, prospettive di occupazione, un futuro cambiamento, ecc.) e i fattori soggettivi ( pressioni emotive e sociali, sensazione di non poter far fronte alla situazione, percezione di una mancanza di aiuto, ecc.)”.

Come si vedrà, molta parte dei c.d. rischi psicosociali (in particolare, quelli organizzativi) è affrontata all’interno della valutazione dei rischio stress lavoro-correlato.

Dal 2010, non vi sono state modifiche o evidenze tali da alterare il percorso valutativo.

 

Situazioni differenti dallo stress lavoro-correlato: verso la valutazione dei rischi psicosociali?

Mobbing, straining, disturbo post traumatico da stress sono tutte ipotesi sostanzialmente differenti dallo stress, che non devono essere confuse con questo.

Per mobbing deve intendersi “un insieme di condotte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematiche e protratte nel tempo, tenute nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: la molteplicità di comportamenti, siano essi illeciti ex se o anche leciti, ove considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente; l’evento lesivo della salute o della personalità dello stesso; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e ridetto pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio che unisce in un disegno unitario i comportamenti posti in essere[2].

Lo straining “rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’art. 2087 c.c.[3]”.

Il disturbo post traumatico da stress è, invece, una patologia che insorge acutamente in conseguenza dell’esposizione a eventi stressanti di gravità estrema, che mettono a repentaglio la propria o altrui incolumità.

Lo stress lavoro-correlato, invece, – secondo l’Accordo quadro europeo dell´8 ottobre 2004, è “uno stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. L’individuo è capace di reagire alle pressioni a cui è sottoposto nel breve termine, e queste possono essere considerate positive, ma di fronte ad una esposizione prolungata a forti pressioni egli avverte grosse difficoltà di reazione. Inoltre, persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili. Lo stress non è una malattia ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute. Lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro. Tutte le manifestazioni di stress sul lavoro non vanno considerate causate dal lavoro stesso. Lo stress da lavoro può essere causato da vari fattori quali il contenuto e l’organizzazione del lavoro, l’ambiente di lavoro, una comunicazione “povera”, ecc.”.

La generica definizione di “salute”, contenuta nell’articolo 2, D.Lgs. 81/2008 (“stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”), l’altrettanto generica indicazione dell’articolo 2087, cod. civ. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), e l’obbligo omnicomprensivo di valutazione dei rischi (“La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o delle miscele chimiche  impiegate, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori”) portano a ritenere presente nel nostro ordinamento un principio assai più ampio e indeterminato di quanto previsto dalla Direttiva comunitaria 893/91, secondo la quale “il datore di lavoro, tenendo conto della natura delle attività dell’impresa e/o dello stabilimento deve valutare i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, in particolare nella scelta delle attrezzature di lavoro, delle sostanze o dei preparati chimici utilizzati e nell’allestimento dei luoghi di lavoro”.

Al di là delle singole ipotesi, i rischi psicosociali vengono definiti come “quegli aspetti della progettazione del lavoro e dell’organizzazione e gestione del lavoro, e il loro contesto sociale e ambientale, che possono avere il potenziale di causare danni psicologici o fisici” ovvero in termini di “interazioni tra contenuto del lavoro, organizzazione e gestione del lavoro e altre condizioni ambientali e organizzative, da un lato; e, dall’altro, competenze e bisogni del lavoratore, dall’altro”.

I principali fattori di rischio psicosociale (secondo l’indagine europea Esener del 2019) sarebbero: il contenuto del lavoro (lavori che mancano di varietà o cicli di lavoro brevi, lavoro frammentato o insignificante, sottoutilizzo delle competenze e alta incertezza); il sovraccarico di lavoro (inteso sovraccarico di lavoro e sottocarico di lavoro); il controllo su lavoro (la misura in cui una persona è coinvolta nel processo decisionale relativo al proprio ruolo lavorativo); la pressione dovuta a vincoli di tempo (l’impatto dell’orario di lavoro è considerato principalmente in termini di lavoro a turni, o orari di lavoro lunghi); l’ambiente di lavoro e le attrezzature (disponibilità, all’idoneità o alla manutenzione inadeguata delle attrezzature e alle scarse condizioni ambientali, come mancanza di spazio, scarsa illuminazione e rumore eccessivo); il ruolo nell’organizzazione (“ambiguità di ruolo”, “chiarezza di ruolo” e “conflitto di ruolo“); la cultura organizzativa (gli stili di gestione sbagliati); le relazioni interpersonali sul lavoro (isolamento sociale o fisico, cattive relazioni con i superiori, conflitti interpersonali, mancanza di supporto sociale, bullismo, molestie sessuali); lo sviluppo di carriera (stagnazione e incertezza della carriera, sottopromozione o sovrapromozione, bassa retribuzione, insicurezza lavorativa e basso valore sociale del lavoro); l’interfaccia nel lavoro da casa (richieste contrastanti di lavoro e casa).

L’esposizione a rischi psicosociali correlati al lavoro avrebbe un possibile impatto negativo sulla salute fisica, psicologica e sociale dei dipendenti; e, a sua volta, sulla salute e sulla resilienza delle organizzazioni.

Dalle tante definizioni proposte “si evince la complessità e la genesi eterogenea del fenomeno, talvolta mirato agli effetti, talvolta ai fattori causali o a quelli di mediazione; comunque tale da richiedere un approccio multidisciplinare integrato, e che possa trovare una sintesi efficace in un’ampia prospettiva che comprenda tutti i saperi specialistici presenti in essa[4].

Inoltre, va considerato[5] che il nuovo modello della produzione e dell’organizzazione del lavoro è rappresentato dall’industria 4.0, la quale si basa su digitalizzazione, automazione dei compiti e integrazione delle TIC, come ad esempio Internet of Things (IoT), che sta per “interconnessione tra oggetti e persone” mediante reti di comunicazione; e poi sull’intelligenza artificiale (AI), sui sistemi basati su cloud, sulla robotica collaborativa (cobot), sulla produzione additiva, sui “big data analisys” e sui sistemi cyber-fisici (Neumann et al., 2021). Questi sistemi consentono nuove forme di organizzazione del lavoro e nuove modalità di lavoro, come le “fabbriche intelligenti” e le “piattaforme online“, in cui uomini, macchine e prodotti comunicano costantemente tra loro attraverso mezzi fisici e virtuali (EU-OSHA, 2019c).

 

Lavoro agile e stress lavoro-correlato: causa o rimedio?

Secondo la L. 81/2017, le disposizioni sul lavoro agile hanno “lo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” e “promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Le parti sociali hanno stipulato un Protocollo nel 2021, nel quale “hanno confermato che il lavoro agile, dopo una prima fase di adattamento, è diventato un tassello sempre più strutturale dell’organizzazione del lavoro (almeno di quelle in cui il lavoro in modalità agile è maggiormente compatibile con le attività proprie del settore produttivo) e come, attraverso di esso, sia stato possibile migliorare il benessere della persona e l’organizzazione aziendale”.

Nel medesimo protocollo si evidenzia, inoltre, che “il lavoro agile può favorire il bilanciamento tra sfera personale e lavorativa, ma anche dell’autonomia e della responsabilità individuale verso il raggiungimento degli obiettivi, favorendo altresì un risparmio in termini di costi e un positivo riflesso sulla produttività”.

Si rileva, inoltre, la centralità della formazione.

L’indagine sul rapporto tra lavoro agile e stress va riferita a molteplici fattori: il lavoro ibrido[6], infatti, combina diversi elementi chiave legati alle dimensioni fisica, temporale, tecnica (virtuale/digitale), sociale, organizzativa, gestionale, ergonomica e individuale delle attività lavorative.

Sicuramente il cambiamento organizzativo è determinante, ma, mentre l’evoluzione organizzativa e tecnologica che modifica il lavoro eseguito all’interno della realtà aziendale obbliga, in qualche modo, il lavoratore a subire le modifiche (e, di conseguenza, il datore di lavoro a gestirne tutte le conseguenze), l’inverso (la scelta contrattata di lavorare da remoto, distinguendo questa fattispecie dal telelavoro, con libertà di luogo ed orario) fa venire meno l’imposizione di un cambiamento organizzativo, eliminando in radice il profilo tradizionale di tempo e di luogo che caratterizza il lavoro all’interno dell’azienda.

Proprio il venir meno di quel vincolo, unitamente alla libera scelta di lavorare da remoto, devono far riflettere sulla riconducibilità o meno delle conseguenze della scelta ai fini di salute e sicurezza al tradizionale modello regolato dal D.Lgs. 81/2008, valorizzando, così, opportunamente, il senso della normativa sul lavoro agile, che riferisce l’attuazione del richiamato quadro normativo alla sola informazione, oltre che alla gestione delle tecnologie affidate al lavoratore. È del tutto evidente l’impossibilità di estendere al lavoratore le stesse logiche valutative e le stesse tutele contenute nel D.Lgs. 81/2008.

E questo porta anche a dover considerare se la consapevolezza della scelta del nuovo modello organizzativo (oggi, le nuove leve che si affacciano al mondo del lavoro ritengono essenziale, nella scelta del posto di lavoro, l’opportunità del lavoro agile) non incida anche sulla tradizionale e assorbente obbligazione del datore di lavoro, il cui compito altrimenti uscirebbe prepotentemente dal tradizionale luogo fisico di lavoro e si dovrebbe impropriamente orientare alla tutela della salute e sicurezza della persona, non più le sua dimensione lavorativa (ossia limitatamente nei luoghi di cui ha la disponibilità giuridica e nelle condizioni in cui può legittimamente intervenire, mantenendo un adeguato potere/dovere di vigilanza, controllo e reazione).

 

L’impatto dell’Intelligenza artificiale: causa e/o rimedio?

L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, nel Discussion paperWORKER MANAGEMENT THROUGH AI – From technology development to the impacts on workers and their safety and health[7], evidenzia che “l’intelligenza artificiale (IA) è attualmente considerata una delle principali minacce per il lavoro, anche se il suo utilizzo potrebbe, in linea di principio, migliorare la sicurezza e la salute dei lavoratori se adeguatamente progettata, implementata, gestita e regolamentata”.

Secondo il World economic forum[8], “nel 2023, le trasformazioni del mercato del lavoro guidate da scoperte tecnologiche, come l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa (AI), saranno aggravate dalle perturbazioni economiche e geopolitiche e dalle crescenti pressioni sociali e ambientali”.

L’opposto sentimento di opportunità e pericolo emerge anche nella Legge europea sull’IA[9], dove, già nel primo considerando, si evidenzia che obiettivo della legge è “migliorare il funzionamento del mercato interno istituendo un quadro giuridico uniforme in particolare per quanto riguarda lo sviluppo, l’immissione sul mercato, la messa in servizio e l’uso di sistemi di intelligenza artificiale (sistemi di IA) nell’Unione, in conformità dei valori dell’Unione, promuovere la diffusione di un’intelligenza artificiale (IA) antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”), compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell’ambiente, proteggere contro gli effetti nocivi dei sistemi di IA nell’Unione, nonché promuovere l’innovazione”.

Viene anche evidenziato[10] il paradosso dell’AI: “uno strumento dalle potenzialità tali da poter essere, allo stesso tempo, generatore di grandi squilibri e altrettante opportunità. Che mette in capo a tutti l’esigenza di una verifica costante dei rischi e della ricerca del più adeguato bilanciamento tra questi e le opportunità offerte”.

Lo stesso DdL 1146/S[11], nella Relazione, rende palese l’obiettivo di operare un bilanciamento tra opportunità e rischi, “promuovendo l’utilizzo delle nuove tecnologie per il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e della coesione sociale e, dall’altro, forniscono soluzioni per la gestione del rischio fondate su una visione antropocentrica”.

Nel regolare specificamente il tema del lavoro, il DdL sancisce che “l’intelligenza artificiale è impiegata per migliorare le condizioni di lavoro, tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori, accrescere la qualità delle prestazioni lavorative e la produttività delle persone in conformità al diritto dell’Unione europea”.

L’obiettivo viene garantito dalla previsione che “l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo deve essere sicuro, affidabile, trasparente e non può svolgersi in contrasto con la dignità umana né violare la riservatezza dei dati personali. Il datore di lavoro o il committente è tenuto a informare il lavoratore dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei casi e con le modalità di cui all’articolo 1-bis del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152”.

Ovviamente, “l’intelligenza artificiale nell’organizzazione e nella gestione del rapporto di lavoro garantisce l’osservanza dei diritti inviolabili del lavoratore senza discriminazioni in funzione del sesso, dell’età, delle origini etniche, del credo religioso, dell’orientamento sessuale, delle opinioni politiche e delle condizioni personali, sociali ed economiche, in conformità con il diritto dell’Unione europea”.

In generale, analizzando una possibile relazione tra l’introduzione dell’IA e lo stress, si evidenzia la sua incidenza sul carico cognitivo e sulla complessità del lavoro: la necessità di comprendere, interagire e gestire sistemi AI complessi può essere stressante per chi non è abituato a tali tecnologie. La complessità delle attività lavorative può aumentare quando si utilizzano algoritmi di machine learning o reti neurali. Questo può portare a una maggiore pressione e ansia.

Anche il tempo di adattamento viene considerato un fattore stressogeno, laddove l’apprendimento e l’adattamento alle nuove tecnologie richiedono tempo, per cui l’implementazione dell’AI può comportare formazione aggiuntiva e cambiamenti nei processi di lavoro, che possono essere fonte di stress. Può rilevare anche il sovraccarico informativo generato dall’uso eccessivo di strumenti alimentati dall’AI, contribuendo a una maggiore ansia e stress. Altro profilo di possibile stress è legato al tema del monitoraggio costante, posto che l’AI può essere utilizzata per monitorare le prestazioni dei lavoratori. Questo controllo costante può aumentare la pressione e l’ansia.

Rilevante anche la questione dell’ambiguità delle decisioni adottate dall’IA: le decisioni prese da algoritmi possono essere difficili da interpretare, per cui gli individui possono sentirsi frustrati o stressati quando non comprendono completamente il motivo di una decisione presa dall’AI. Allo stesso tempo, l’introduzione dell’IA potrebbe ridurre l’autonomia nelle decisioni e il controllo sulle stesse.

Altro versante da indagare potrebbe essere l’equilibrio tra lavoro e vita privata: l’uso prolungato di tecnologie IA può influenzare l’equilibrio tra lavoro e vita privata.

D’altra parte, l’IA può monitorare il benessere attraverso l’analisi dei dati e, attraverso strumenti di analisi, può rilevare segnali di stress (integrandosi nel processo di valutazione contenuto nelle indicazioni metodologiche del 2010). L’IA può fornire un’assistenza personalizzata offrendo risorse e suggerimenti su come gestire lo stress e può automatizzare attività ripetitive e monotone, riducendo il carico di lavoro e consentendo di concentrarsi su attività più significative e stimolanti. L’IA può facilitare la formazione continua, aiutare i dipendenti a sviluppare competenze che possono aumentare la loro fiducia e ridurre lo stress.

L’IA, inoltre, può consentire di personalizzare i carichi di lavoro in modo da evitare sovraccarichi e ridurre lo stress (gli algoritmi possono assegnare le mansioni ai lavoratori in base alle loro capacità, competenze e livello di stress rilevato) e analizzare il linguaggio naturale e rilevare condizioni di stress e disagio emotivo, consentendo al manager di intervenire tempestivamente.

Può, inoltre, introdurre strumenti di feedback e benessere personalizzati per migliorare la loro gestione dello stress: ad esempio, l’IA può analizzare i modelli di lavoro di un dipendente e suggerire pause regolari o strategie di rilassamento, basate sul monitoraggio delle attività e dei livelli di produttività.

Insomma, sia pure nell’assoluta limitatezza dell’analisi, sembra che l’IA abbia in sé gli strumenti per combattere i rischi che essa stessa genera.

 

Il ruolo determinante della formazione

L’introduzione dell’IA nei luoghi di lavoro – come anche la diffusione del lavoro agile – sta trasformando radicalmente processi, competenze richieste e modelli organizzativi. Affinché questa transizione avvenga con successo, è fondamentale investire in programmi di formazione adeguati che preparino i lavoratori a interagire efficacemente con le nuove tecnologie.

La formazione è un elemento chiave per garantire che l’adozione dell’IA e di forme di lavoro organizzato per obiettivi porti benefici sia all’organizzazione sia ai lavoratori: l’IA potrebbe contribuire in modo determinante all’economia globale, ma solo se le competenze umane si evolvono di pari passo con la tecnologia. La mancanza di formazione adeguata, infatti, può portare a resistenze interne, inefficienze e aumento dello stress lavoro-correlato.

Occorre, innanzitutto, un’adeguata formazione tecnica, per diffondere competenze in data science e machine learning, e pratica sull’utilizzo di software e piattaforme basate sull’IA (come strumenti di automazione dei processi robotici, sistemi di gestione dei contenuti intelligenti e assistenti virtuali). Occorre una migliore alfabetizzazione digitale, che consenta di comprendere i fondamenti dell’IA, delle sue potenzialità e limitazioni (per ridurre i timori infondati e a promuovere un atteggiamento positivo verso la tecnologia) e della cybersecurity per proteggere informazioni sensibili.

La formazione dovrebbe, poi, supportare ad assicurare una consapevole gestione del cambiamento superando resistenze interne, per facilitare la transizione e introdurre una nuova cultura dell’innovazione anche mediante forme di apprendimento continuo, attraverso workshop, seminari e programmi di sviluppo organizzativo.

Molto importante sarà anche la formazione sulle implicazioni etiche dell’IA, come bias algoritmici, privacy dei dati e impatto sociale, anche per prevenire l’utilizzo improprio della tecnologia; così come sarà fondamentale la conoscenza delle leggi che regolano, ad esempio, i temi della privacy, che influenza l’uso e la gestione dei dati nell’IA.

Sul versante organizzativo, sarà fondamentale sviluppare competenze trasversali, orientate allo sviluppo del pensiero critico e al problem solving: l’IA automatizza compiti ripetitivi, rendendo più preziose le competenze cognitive avanzate, soprattutto attraverso la capacità di risolvere problemi complessi (con il supporto della stessa IA).

In altre parole, occorre un approccio olistico alla formazione, che includa sia aspetti tecnici sia umani, per contemperare le sfide legate all’introduzione dell’IA, trarre vantaggio dalle opportunità offerte dall’IA e garantire, al contempo, benessere e crescita professionale.

 

Conclusioni

Lo stress lavoro-correlato, nelle sue dimensioni individuale e collettiva, sociale e lavorativa, comportamentale e tecnologica, costituisce indubbiamente un profilo di attenzione. Se correttamente analizzato e gestito in azienda, esso può essere prevenuto, pur nell’estrema complessità della sua valutazione.

Concepito e regolato in una logica tradizionale (dove il luogo di lavoro è quello dell’azienda e le tecnologie sono quelle ordinarie), il tema va riletto alla luce delle nuove modalità organizzative (lavoro agile), tecnologiche (IoT) ed evolutive (IA), ponendo al centro la persona.

Ed è proprio l’esigenza di porre al centro la persona e la sua autodeterminazione che interroga sulla perdurante adeguatezza dei modelli giuridici (la legislazione sulla sicurezza sul lavoro, la valutazione dei rischi, i modelli di organizzazione e gestione) e sociali (l’individuazione del soggetto o dei soggetti cui fa capo la tutela della salute nella sua accezione non limitata alla salute e sicurezza sul lavoro, ma a quella totalizzante garantita dalla Costituzione e affidata allo Stato, non certo al singolo datore di lavoro) con riferimento a un’organizzazione del lavoro, che, definitivamente fuoriuscita dal modello Taylor-Fordista, è sempre più un’organizzazione sociale e collettiva.

E, allora, lo stress, come incapacità dell’individuo di far fronte alle richieste, va ormai misurato con la richiesta sociale, e non più (soltanto) con la richiesta lavorativa: la rivitalizzazione della dimensione antropocentrica richiama l’attenzione alla libertà di autodeterminazione rispetto ai modelli organizzativi e ai nuovi (e spesso imprevedibili) saperi dell’IA.

Il carico cognitivo, uno dei principali fattori di rischio, può essere governato dalla stessa IA, a condizione che si abbia la piena percezione (mediante la formazione) del punto nel quale deve intervenire la volontà dell’uomo, al quale va sempre e comunque rimessa la consapevole scelta finale.

 

[1] Cassazione, n. 2084/2024.

[2] Consiglio di Stato, n. 2354/2024.

[3] Cassazione, n. 29101/2023.

[4] Rischi psicosociali nei luoghi di lavoro: quali obiettivi per le organizzazioni e quali prospettive d’intervento per la psicologia del lavoro, Ordine degli psicologi del Lazio, I. Corradini ed altri, 2022, pag. 9.

[5] Rischi piscologici, cit., pag. 6.

[6] EU-OSHA, “Hybrid work: new opportunities and challenges for occupational safety and health, 2023.

[7] EU-OSHA DP, 19 marzo 2024.

[8] Future of Jobs Report 2023 INSIGHT REPORT MAY 2023.

[9] Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale del 14 maggio 2024.

[10] A. Tardiola, “Tre quesiti sul rapporto tra sicurezza del lavoro e AI”, in LavoroDirittiEuropa, 3/2024

[11] Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza

Controllo dei lavoratori e nuove tecnologie