Il ragionevole adattamento del comporto
di Luca Vannoni Scarica in PDFIl tema del ragionevole adattamento vede intersecare la sua parabola con i recenti orientamenti in materia di comporto. In particolare, a partire dal 2023 la Corte di Cassazione (a partire dalla Corte di Cassazione, con sentenza 31 marzo 2023, n. 9095 ) ha più volte affermato la natura discriminatoria del licenziamento per superamento del periodo di comporto, nel caso in cui non sia prevista alcuna regolamentazione specifica sulla base delle circostanze che determinano la malattia: «rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente» (Cass. 9095/23).
Il retroterra di tale orientamento di legittimità è l’acceso dibattito giurisprudenziale a livello di merito, innescatosi sulla base di alcune importanti pronunce della CGUE, in particolare CGUE HK Danmark 11 aprile 2013 e Ruiz Conejero 18 gennaio 2018, richiamate espressamente dalla Suprema Corte n. 9095/23.
Nella prima, dalla considerazione che “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”, si è affermato che “rispetto ad un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap”: la nozione di disabilità ricavabile dalla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, come in precedenza evidenziato, include una condizione patologica causata da una malattia, curabile o incurabile che sia, se comporta una limitazione in tali termini.
Conseguentemente, – prosegue la CGUE – si determina un trattamento discriminatorio ai sensi dell’art. 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 basato sulla disabilità nel caso in cui vi sia una disciplina del comporto che non tenga conto di tale situazione di svantaggio per i soggetti con disabilità, a meno che tale disparità di trattamento “sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi non vadano al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito dal legislatore”.
Nella seconda sentenza richiamata, Carlos Enrique Ruiz Conejero 18 gennaio 2018, C-270/16, la CGUE ha ribadito che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta “a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo legittimo di lotta contro l’assenteismo”. La normativa in questione, l’art. 52 dello Statuto dei lavoratori spagnolo (Real Decreto Legislativo 1/1995, Ley del Estatuto de los Trabajadores), pur prevedendo che talune assenze non siano da computare (es. terapia medica per cancro o grave patologia), non fissa alcun regime in deroga per tutte le situazioni di disabilità ai sensi della direttiva 2000/78.
Alla luce di tali orientamenti, con la sentenza 9095 del 2023, sono stati affermati importanti principi: se è vero che la nozione di disabilità “non è coincidente con lo stato di malattia, oggetto della regolazione contrattuale collettiva applicata al rapporto ai fini del computo del periodo di comporto rilevante ai sensi dell’art. 2110 c.c., ciò non significa che essa sia contrapposta a tale stato, che può esserne tanto causa quanto effetto, e le cui interazioni devono essere tenute in considerazione nella gestione del rapporto di lavoro”.
Il caso riguardava un dipendente, con mansioni di spazzino stradale o spazzino porta-sacchi, riconosciuto portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 1 e licenziato per superamento del periodo di comporto: tale licenziamento era stato considerato nei gradi di merito come discriminatorio, dovendosi presumere (nonostante l’invio, non riscontrato dal lavoratore, di avviso dell’approssimarsi del comporto) che le assenze per malattia fossero riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute.
Più in particolare, la letterale applicazione da parte del datore di lavoro dell’art. 42 CCNL Federambiente al lavoratore licenziato, che non distingue tra assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, si era posta in palese contrasto con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE richiamata in precedenza , alla luce del grave quadro patologico del lavoratore qualificabile come disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/CE.
In modo estremamente repentino, sono seguite ulteriori sentenze di legittimità, conformi nell’impostazione alla Cass. 9095/23, ma con ulteriori precisazioni e specifiche.
Particolarmente interessante è poi la Cass. 11731/24, dove è stato affrontato il caso del superamento del periodo di comporto, con conseguente licenziamento, di un lavoratore affetto da una patologia oncologica, sulla base della previsione contenuta nell’art. 21 del CCNL Porti, che prevedeva un unico e indifferenziato periodo di comporto, a cui poi si aggiungeva un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita, sempre indifferenziata per lavoratori normodotati e con disabilità.
In primo luogo, Suprema Corte non solo ricostruisce il comporto come “punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale”, ma lo sistematizza nell’alveo dei “ragionevoli accomodamenti”, come forma di adattamento organizzativo ai fini della legittimità del recesso.
In secondo luogo, la Cassazione richiama il precedente della sentenza 9095/24, dando per assodato che l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile costituisca una forma di discriminazione indiretta.
In tale contesto, affinché vi sia un effettivo rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, deve essere applicato ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza oneri finanziari sproporzionati, contemperi gli interessi del lavoratore e del datore di lavoro.
Rispetto ai precedenti, la Cass. 11731/24 concentra le proprie attenzioni anche alla sfera del lavoratore.
In particolare si evidenzia come ricada sul lavoratore l’onere del lavoratore “di allegare e provare la limitazione risultante dalle proprie menomazioni fisiche, mentali e psichiche durature e la traduzione di tale limitazione, in interazione con barriere di diversa natura, in un ostacolo alla propria partecipazione, piena ed effettiva, alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”, così da consentire al datore di lavoro di adottare i concreti ragionevoli adattamenti, posto che non ogni situazione di infermità fisica che renda il lavoratore inidoneo alle mansioni di assegnazione risulta ex se riconducibile alla nozione di disabilità di cui alla disposizione suddetta
In assenza di oneri di collaborazione del lavoratore, stante anche il fatto che le diagnosi non sono come è noto conosciute dal datore di lavoro, la responsabilità in caso di omissioni nell’applicazione di ragionevoli accomodamenti sarebbe di fatto “oggettiva”. A livello probatorio, inoltre, la Suprema Corte ricorda che nei procedimenti legati alla tutela antidiscriminatoria non vi è “un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro …. l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori”. (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543).
Nei fatti, il datore di lavoro era risultato a conoscenza della patologia del lavoratore e, pertanto, avendo comunque applicato meccanicamente la regola ordinaria in materia di comporto, è risultato inadempiente in ordine ai ragionevoli accomodamenti, da cui la natura discriminatoria del licenziamento, confermata dalla Suprema Corte, così come la reintegra derivante dalla nullità del recesso.