Categorie per il welfare aziendale alla luce delle precisazioni dell’Agenzia delle entrate
di Luca Vannoni Scarica in PDFNel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate spesso è intervenuta per chiarire cosa si debba intendere per categoria, ai fini della qualificazione della misura come welfare, così da accedere al regime fiscale agevolato previsto dall’articolo 51, comma 2, Tuir.
Introduzione
I primi 2 commi dell’articolo 51, Tuir, delineano i fondamenti della disciplina fiscale del reddito da lavoro dipendente: se il comma 1 scolpisce il principio della sua onnicomprensività, essendo costituito “da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”, nel comma 2 vengono previste una serie di esclusioni inquadrabili – eccetto la lettera a), relativa ai contributi previdenziali e assistenziali obbligatori – nel c.d. welfare aziendale.
Con tale concetto si intende un insieme di benefici e prestazioni, generalmente a carattere non monetario, con l’eccezione di ben delimitate forme di rimborso, erogate a favore dei dipendenti.
A partire dal 2016, grazie a quanto previsto dall’articolo 1, comma 190, L. 208/2015, il paniere delle forme di welfare dettagliate dal comma 2 è stato notevolmente ampliato, consentendo così ai datori di lavoro di poter realizzare le forme più rispondenti agli obiettivi e al contesto aziendale.
Oltre al rispetto delle condizioni per la qualificazione come welfare degli strumenti previste, nelle varie lettere di cui è composto il comma 2, Tuir – ad esempio, il rimborso monetario è previsto in ben delimitati casi – è necessario ricordare che l’esclusione dalla qualificazione come retribuzione dev’essere giustificata anche dal fatto che il piano welfare si rivolge alla generalità̀ dei dipendenti o a categorie di dipendenti. Anche quando non espressamente previsto, come nel caso dei ticket restaurant, è stato più volte ribadito (sia dalla circolare n. 326/E/1997, sia dalla più recente circolare n. 5/E/2016), come necessario il rispetto di tale requisito relativo ai destinatari.
Poi, i concreti beneficiari possono non coincidere con i destinatari complessivi: si pensi a un piano che preveda il rimborso dei mezzi pubblici ai lavoratori, a tutti i lavoratori dell’azienda, che decidono di non utilizzare l’auto privata. Se poi un dipendente, per qualunque ragione, dalla più futile alla più delicata, decidesse di continuare a usare l’auto, non beneficerebbe del welfare, pur rimanendone un destinatario.
L’Agenzia delle entrate, nei chiarimenti forniti dopo le riforme operate nel 2016 e 2017, ha mantenuti inalterati tali principi, con l’evidente preoccupazione di individuare criteri oggettivi che determinino una collettività di lavoratori e, quindi, una categoria. Diamo evidentemente per scontato che se, utilizzando criteri oggettivi, arrivo a un solo lavoratore, non verrebbe realizzato il concetto di categoria.
Con la circolare n. 28/E/2016 l’Agenzia ricorda, infatti, che “la non concorrenza al reddito di lavoro dipendente è subordinata alla condizione che i benefit siano offerti alla generalità̀ dei dipendenti o a categorie di dipendenti”.
Pertanto, l’esclusione dal reddito dipendente del welfare è data dal prodotto tra una o più misure specificatamente regolate dall’articolo 51, comma 2, Tuir, e la generalità o categorie di dipendenti. Per quanto riguarda le misure, si evidenzia soltanto che, essendo eccezioni all’ordinaria imponibilità, non possono essere oggetto di interpretazioni estensive per analogia.
Molto più complessa è la corretta ricostruzione del concetto di “categoria”, priva di una specifica definizione nel contesto fiscale: non deve trarre in inganno la presenza nel lessico giuslavoristico della definizione civilistica contenuta nell’articolo 2095, cod. civ. (categorie dei prestatori di lavoro – I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai), ai fini fiscali non vi è alcun dettaglio nella norma volto a coglierne l’estensione.
Nella circolare n. 326/E/1997 si scrisse che l’espressione categoria di dipendenti si riferisce “a tutti i dipendenti di un certo tipo (ad esempio, tutti i dirigenti, o tutti quelli che hanno un certo livello o una certa qualifica)”; con la circolare n. 28/2016 si è giunti a una minima raffinazione del concetto, inteso come “gruppo omogeneo di dipendenti a prescindere dalla circostanza che in concreto soltanto alcuni di essi ne usufruiscano”.
Solo con la circolare n. 5/E/2018, l’Agenzia delle entrate ha diffuso chiarimenti maggiormente articolati, con l’evidente intenzione di evitare comportamenti che, grazie all’estensione del paniere di welfare escluso da tassazione, realizzato con la riforma del 2016/2017, di fatto, mimetizzando in welfare dazioni dal carattere retributivo, determinassero sottrazioni di imponibile.
Tale approccio è evidente da quanto vergato nella circolare, dove si attacca il problema non con una definizione diretta, ma evidenziando quello che non è categoria (o generalità): il riconoscimento di somme o i servizi non deve essere rivolto ad personam ovvero non deve costituire “vantaggi solo per alcuni e ben individuati lavoratori”.
Il negativo della definizione non aggiunge nulla, il punto centrale è, come detto, identificare i requisiti del denominatore che generi una categoria legittima.
Aspettativa che, purtroppo, rimane inevasa anche nei passaggi successivi della circolare: dopo un’ulteriore definizione in negativo – “non va intesa soltanto con riferimento alle categorie previste nel codice civile (dirigenti, operai, etc.)” –, si precisa, se così si può dire, che per categoria possono intendersi “tutti i dipendenti di un certo tipo (ad esempio, tutti i dipendenti di un certo livello o di una certa qualifica, ovvero tutti gli operai del turno di notte ecc.)”, basta che non “siano concesse erogazioni ad personam in esenzione totale o parziale da imposte”.
In assenza di chiarimenti dettagliati, l’attenzione degli operatori si è rivolta alle risposte fornite dall’Agenzia delle entrate a seguito di istanze di interpello, così da poter avere parametri utili per definire parametri oggettivi per arrivare a una collettività di lavoratori e che non possa essere una delimitata sommatoria di trattamenti retributivi ad personam.
Montagne russe interpretative dell’Agenzia delle entrate
Provando a sistematizzare le risposte fornite, tenuto conto degli indirizzi generali sopra delineati, non si può che partire dai casi più lineari, dove le categorie sono state individuate da condizioni di natura organizzativa aziendale, dando per scontato che debbano essere “oggettive”.
Con la risoluzione n. 55/E/2020, l’oggetto dell’istanza all’Agenzia delle entrate riguardò un piano welfare a carattere premiale e incentivante per l’accrescimento della motivazione dei propri dipendenti, rivolto ai lavoratori appartenenti all’area aziendale “Service” e a quelli il cui luogo di lavoro è identificato in “Headquarter“, con almeno 2 anni di anzianità di servizio in azienda, alla data del 31 dicembre 2018, e con un orario di lavoro giornaliero di almeno 6 ore.
Considerando che le condizioni utilizzate non circoscrivevano i destinatari dell’offerta ad alcuni e ben individuati lavoratori, si è ritenuto che il piano welfare rispettasse il presupposto richiesto dall’articolo 51, comma 2, Tuir, dal momento che esso è rivolto a 2 “categorie di dipendenti” legittime.
In tale risposta, l’aspetto più rilevante nella creazione della categoria, che in primo luogo è determinata da 2 strutture aziendali, è che poi viene dettagliata su parametri riguardanti i lavoratori, come l’anzianità di servizio e l’orario di lavoro: anche tali elementi, chiaramente oggettivi e necessariamente portanti, qualificanti la categoria sono riferiti ad aspetti relativi ai singoli rapporti di lavoro.
Quando, poi, sono stati oggetto di valutazione piani welfare che coinvolgono gli amministratori, emerge un atteggiamento restrittivo dell’Agenzia delle entrate, chiaramente giustificato anche dalle ragioni che sottendono al welfare, che non può essere una mera forma di riconoscimento di retribuzioni esenti.
Sono condivisibili gli esiti della richiesta di interpello n. 10/2019, dove fu chiesta all’Agenzia delle entrate la valutazione di un piano welfare di una struttura alberghiera, in cui erano state individuate 2 categorie:
- “addetti alla sala”;
- “manager”, composta dall’amministratore unico e dal direttore di sala.
Nel primo caso l’Agenzia delle entrate considera realizzata la condizione della categoria, non così nel secondo: la categoria “manager” comprendeva un lavoratore e l’amministratore unico, dubitandosi che tale soggetto potesse essere destinatario della regolamentazione prevista dall’articolo 51, comma 2, Tuir[1], di fatto si veniva a sgretolare la tenuta della categoria. Si tenga poi conto che le misure di welfare identificate dal datore di lavoro erano le seguenti:
- check up cardiaco per gli addetti alla sala;
- frequenza corso privato di lingua per i figli e assistenza domiciliare ai familiari anziani per i “manager”.
In sintesi, possono ritenersi esclusi dal welfare gli amministratori unici e, di conseguenza, come nel caso di specie, dove la categoria comprendeva un solo altro lavoratore, anche in riferimento a quest’ultimo non opera l’esenzione da imponibilità. Se il piano welfare, ragionando per assurdo, fosse stato rivolto a tutti i dipendenti, compreso l’amministratore unico, pur escludendo quest’ultimo dalla disciplina dell’articolo 51, comma 2, Tuir, rimarrebbe comunque realizzato il principio della generalità dei dipendenti (oppure, se la categoria avesse riguardato un contesto dove i direttivi non erano 2, ma 10, si sarebbe comunque determinata su un parametro oggettivo/collettivo).
Sempre sulla questione degli amministratori, si richiama anche l’interpello n. 522/E/2019. Nel caso proposto all’Agenzia delle entrate, il piano era rivolto a 2 categorie di beneficiari, di cui una composta dai 3 amministratori del CdA, di cui uno solo percepiva compensi in denaro.
Anche in questo caso, il giudizio è stato negativo, in quanto secondo l’Agenzia delle entrate: “non si è realizzato il requisito della categoria omogenea di dipendenti dal momento che dei tre amministratori solo uno è retribuito per l’incarico dalla società”.
Inoltre, tenuto conto che i benefit erano corrisposti agli amministratori senza compenso, si è ritenuto che gli stessi assolvessero a una funzione essenzialmente remunerativa e dovessero essere assoggettati a tassazione.
Al di là della risposta, che sembra più una conseguenza del fatto che, in assenza di alcun compenso per 2 amministratori su 3, il welfare proposto è stato inquadrato in un’ottica e in una funzione retributiva, non convince del tutto la risposta fornita, in quanto il denominatore utilizzato (tutti gli amministratori[2]) sembrerebbe realizzare i requisiti in precedenza indicati per realizzare la categoria nella sua accezione fiscale. La questione, piuttosto, riguarda l’amministratore senza compenso, dove di fatto rischia di diventare retribuzione (si ritiene che sia necessario tener conto anche degli strumenti previsti: un conto sono i check-up medici, un conto sono rimborsi particolarmente consistenti di spese scolastiche o di assistenza).
L’individuazione di parametri oggettivi per la definizione della categoria diviene assai complicata quando riguarda esclusivamente la sfera del lavoratore.
Innanzitutto, merita attenzione la risposta a interpello n. 273/E/2019 per le particolarità con cui è stata costruita la categoria di dipendenti.
Mediante accordo aziendale, era stato previsto, in favore di uno specifico gruppo “individuato sulla base di criteri oggettivi funzionali”, un percorso di formazione, apprendimento e aggiornamento professionale (“Percorso occupabilità”) volto a migliorare la quantità e la qualità delle competenze, conoscenze e capacità, al fine di potenziare l’occupabilità futura di ciascuno, sia in termini di percorso di carriera all’interno della società sia in previsione di eventuali futuri diversi impieghi professionali. Oltre a quanto sopra, ai soli lavoratori inseriti nel percorso occupabilità era stato assegnato un “credito welfare“, non liquidabile né convertibile in trattamento di altro genere.
La categoria di dipendenti era stata “clusterizzata sulla base di criteri oggettivi funzionali” nel seguente modo. Volendo individuare i dipendenti considerabili a maggior rischio di non impiegabilità nonché in situazione di maggior fragilità sociale, fu definito un sistema di pesatura che assegnava, a una serie di condizioni oggettive funzionali predeterminate, un punteggio crescente in funzione del rischio di scarsa impiegabilità e fragilità sociale, conseguente alla sussistenza della condizione stessa in capo al singolo individuo.
Le caratteristiche considerate sono sia individuali (genere, età, cittadinanza, titolo di studio, stato di disoccupazione), sia riferite al territorio in cui risiede la persona e, quindi, alla dinamicità del mercato del lavoro locale (tasso di occupazione, incidenza delle famiglie a bassa intensità di lavoro, densità imprenditoriale).
Interessante sottolineare che, per i dipendenti esclusi dal welfare aziendale perché esclusi da tale graduatoria, era previsto un premio in denaro.
A ogni modo, l’Agenzia delle entrate ha considerato realizzato il requisito della categoria, in quanto la valutazione delle prerogative a cui era subordinata è “legata a diversi fattori, soggettivi e oggettivi (riferiti al territorio ove risiede il lavoratore e quindi al livello di occupazione locale), e che ad ognuno di essi è riconosciuta una diversa valenza, rapportata ad una scala numerica di valutazione”.
È chiaro, quindi, che caratteristiche misurabili in modo oggettivo, anche se non attinenti direttamente al rapporto di lavoro e riferibili in via esclusiva alla sfera del lavoratore, sono state considerate un corretto denominatore della categoria e, pertanto, è stata riconosciuta l’esclusione da imponibilità del credito welfare ai sensi dell’articolo 51, comma 2, Tuir.
Purtroppo, i principi affermati nella risposta, in tutta evidenza, si pongono in netto contrasto con quanto affermato recentemente dall’Agenzia delle entrate, con la ormai nota risposta a interpello n. 57/E/2024, dove la categoria individuata dall’azienda istante era rappresentata dalle lavoratrici madri “al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità”.
Sicuramente discutibile era la modalità di determinazione del credito welfare, calcolato come la differenza tra l’indennità del congedo parentale e la retribuzione ordinaria, ma non si vede perché la categoria delle lavoratrici madri non possa essere, anche ai fini fiscali, una categoria.
La maternità, oltre a rappresentare un momento e un evento in cui maggiormente necessarie appaiono le politiche di welfare aziendale, in grado di favorire la conciliazione vita-lavoro, è assolutamente una condizione oggettiva riguardante la sfera del lavoratore.
Nonostante tali evidenze, l’Agenzia delle entrate, in modo assolutamente sbrigativo per la portata del passaggio, afferma che “non si ritiene, invece, possibile individuare una “categoria di dipendenti” sulla base di una distinzione non legata alla prestazione lavorativa ma a caratteristiche o condizioni personali o familiari del dipendente”: perché il denominatore “maternità” non va bene e titoli di studio e residenza del lavoratore sì? E se il welfare riguardasse il rimborso dell’abbonamento dei mezzi di trasporto, chi mai ne beneficerà?
Le risposte a interpello, nascendo da casi concreti, potrebbero generare il rischio che vengano distillati principi smisurati da regolamenti o accordi – se parliamo di welfare – assolutamente “sgarrupati”: non possiamo sapere se, effettivamente, negli accordi valutati dall’Agenzia delle entrate ci fosse una finalità ad personam, se il regolamento, per durata – è evidente che se si riferisce a un periodo limitato si cristallizzano i beneficiari – o per popolazione aziendale – dove le ridotte dimensioni potrebbero delineare di fatto un ad personam – fosse cucito su misura (come quando si contratta un netto e bisogna arrivare a un lordo) e l’Agenzia delle entrate abbia colto qualche intento fraudolento volto a realizzare una sommatoria di ad personam.
Sarebbe sicuramente opportuno un intervento di prassi a livello di circolare, dove si possa scendere nel dettaglio delle problematiche sopra evidenziate.
[1] Affinché un rapporto di lavoro si configuri, ai fini fiscali, quale rapporto di lavoro dipendente è necessario che la prestazione di lavoro sia svolta, con qualsiasi qualifica, “alle dipendenze e sotto la direzione di altri“.
[2] Si sottolinea come il piano welfare si rivolgeva, in parallelo, alla generalità dei lavoratori dipendenti, parte che, viceversa, è stata considerata meritevole dell’applicazione del regime previsto dall’articolo 51, comma 2, Tuir.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“