Licenziamento per rifiuto del lavoratore di passare da part time a tempo pieno
di Roberto Lucarini Scarica in PDFUna recente Ordinanza della Suprema Corte (n. 29337/23) ci offre lo spunto per valutare questa particolare ipotesi di licenziamento. Al solito, come accade spesso a chi mastica questa materia, le cose non sono del tutto lineari, dovendo invece l’operatore misurarsi con valutazioni che necessitano di molta attenzione.
Per il caso che ci occupa, ossia il possibile licenziamento del lavoratore che rifiuti il passaggio da part time a tempo pieno, occorre subito specificare come la modifica dell’orario contrattuale necessiti dell’accordo tra le parti stipulanti. Tale aspetto è, inoltre, valorizzato dal seguente disposto normativo: “Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento” (ex articolo 8, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015).
Vista così, quindi, la questione parrebbe risolta in via definitiva; ma, come anticipato, le cose non sono proprio come sembrano!
Come si evince dall’Ordinanza innanzi citata, i Supremi Giudici fanno presente come sia già “stato precisato, in sede di legittimità, che la previsione di tale disposizione non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time (o viceversa del full time), ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova posto a carico di parte datoriale (Cass. n. 12244/2023)”. Ma tutto questo, in sostanza, cosa significa?
Ai fini della deroga al disposto normativo, occorre infatti che sussistano effettive esigenze economiche ed organizzative, naturalmente dimostrabili da parte del datore di lavoro, tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo parziale (o viceversa per caso opposto), ma solo con il differente orario richiesto. Occorre, insomma, che sussista un concreto nesso causale tra le esigenze di aumento (o riduzione) dell’orario ed il licenziamento. Da ciò si rileva, quindi, un espandersi dell’onere della prova datoriale, che va a comprende le ragioni economiche da cui deriva l’impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale e la conseguente offerta del tempo pieno, che è stata invece rifiutata.
Risulta chiaro secondo la Suprema Corte che, punto questo dirimente, “il licenziamento non deve essere intimato a causa del rifiuto ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo parziale e del rifiuto di trasformazione del rapporto in full time”. Una causa sicuramente più facile da sostenere a parole che non ad essere dimostrata.
L’Ordinanza in esame, inoltre, ci mostra anche un altro aspetto molto delicato che, sovente, si accompagna all’impugnazione di un licenziamento di questa portata: il possibile intento ritorsivo.
Riguardo tale aspetto la Corte di legittimità sottolinea, anzitutto, come non possa escludersi che, in linea generale, un simile recesso datoriale possa rappresentare una ritorsione, posta a fronte del rifiuto del lavoratore alla trasformazione contrattuale. Ricordo, per inciso, come l’intento ritorsivo porti ad una nullità piena del licenziamento. Viene tuttavia fatto notare che, cosa questa della massima rilevanza, affinché si manifesti tale ipotesi di nullità del licenziamento occorre che la ritorsione abbia avuto un’efficacia determinante ed esclusiva, ciò anche rispetto ad altri fatti rilevanti configurabili quale giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.
Volendo sintetizzare il tutto, possiamo concludere che:
- esiste una regola che vieta il licenziamento a causa del rifiuto, da parte del lavoratore, di trasformare il proprio contratto di lavoro da part time a tempo pieno e viceversa. Tale regola, tuttavia, trova una possibile deroga a certe condizioni;
- nel verificare le ragioni del recesso datoriale, il Giudice deve valutare che tale licenziamento derivi da un’impossibilità di utilizzo, da parte del datore, della prestazione a tempo parziale, con prova a carico di quest’ultimo;
- nel valutare, infine, un possibile intendo ritorsivo, il Giudice può senz’altro avvalersi di presunzioni, ma deve anche valutare con rigore che detto intento abbia avuto nella decisione del datore un’efficacia determinante ed esclusiva.