Il licenziamento nel periodo di prova
di Roberto Lucarini Scarica in PDFIl recesso datoriale richiede specifiche attenzioni se posto in essere durante il periodo di prova. Il nostro ordinamento infatti consente, in tale casistica operativa, una peculiarità giustificativa che fuoriesce dall’ordinaria disciplina legata a una specifica causale. Ciò non toglie, però, che tale libertà rescissoria sia condizionata da alcune limitazioni che, nel tempo, la giurisprudenza non ha mancato di investigare.
L’eccezione alla necessaria giustificazione del licenziamento
Sappiamo bene come, nell’ordinamento lavoristico, il recesso datoriale dal rapporto di lavoro subordinato sia vincolato dalla necessaria sussistenza di un’effettiva motivazione. Circa la causa di tale recesso di parte, in dottrina si distingue tra:
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Gmo), altrimenti rinominato come recesso per motivi economici;
- licenziamento per giustificato motivo soggettivo (Gms) o per giusta causa (Gc), i quali rientrano nell’alveo dei c.d. licenziamenti di tipo disciplinare, connotandosi a seconda dell’entità del fatto illecito commesso dal lavoratore.
Quale che sia il tipo qualificatorio, entro cui far rientrare il recesso proposto da datore, ciò che conta è che tale volontà di interruzione del rapporto sia sempre sostenuta da una specifica causa, in mancanza della quale il licenziamento può risultare illegittimo, se non anche radicalmente nullo.
Vi sono circostanze particolari, limitate e ben tracciate, dove l’ordinamento ha inteso rimuovere tale paletto, consentendo di fatto al datore di lavoro un recesso ad nutum; situazioni che, per loro stessa natura, giustificano quindi un più libero potere di rescissione.
Tra queste rientra quella oggetto delle presenti note, ovvero il licenziamento durante il periodo di prova.
Il periodo di prova: in breve
Per introdurre il nostro argomento è quindi necessario fare un rapido esame dell’istituto giuridico della prova.
L’origine civilistica è posta ex articolo 2096, cod. civ.: “Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”.
È stato affermato che: “secondo arresti consolidati della giurisprudenza di questa Corte la causa del patto di prova deve essere individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”[1].
Dalla definizione civilistica si possono trarre, in breve, le seguenti indicazioni, tenendo conto anche di alcune specifiche giurisprudenziali di maggiore evidenza:
- si tratta, palesemente, di un periodo di lavoro “sperimentale” concesso alle parti per valutarsi vicendevolmente. Entrambe, infatti, si impegnano a consentire la corretta esplicazione del citato esperimento;
- tale istituto si attiva soltanto a mezzo di una clausola da porsi in forma scritta, ad substantiam, in un tempo antecedente a quello di inizio dell’attività lavorativa. Di regola, infatti, tale patto viene esplicitato nel contratto di lavoro;
- il periodo di prova avrà una durata specifica, di norma stabilita dai contratti collettivi in funzione dal livello di inquadramento del lavoratore, ossia della complessità della mansione a lui affidata. Solo ove venga prevista una durata minima a tale periodo, le parti dovranno necessariamente procedere con l’esperimento per detto periodo minimo;
- viene concessa a entrambe le parti la possibilità di recedere dal contratto, senza che vi sia un obbligo di preavviso o di specifica indennità, stabilendo di fatto che tale eventuale recesso sia attribuito al fallimento della tentata prova. Tale espetto, come vedremo di seguito, viene legato a livello giurisprudenziale alla necessità che la prova sia effettivamente consentita, dovendo quindi trascorrere un tempo sufficiente a una compiuta valutazione, secondo il criterio di buona fede.
Il licenziamento durante il periodo di prova
Nel decorso del periodo di prova il rapporto di lavoro è ordinariamente attivo, essendo lo stesso tuttavia condizionato dal potere rescissorio di parte nei termini sopra descritti.
Un recesso che si connota quindi per la sua peculiare caratteristica di essere sostanzialmente motivato dalla prova in corso e, dunque, da un fallimento dell’esperimento tentato. Nessuna altra causale è dunque necessitante, bastando che la parte recedente renda edotta la controparte circa la propria volontà di risolvere il rapporto. Teoricamente tale volontà, trattandosi di recesso ad nutum, non necessita di una forma scritta, anche se ritengo comunque utile formulare una specifica lettera di recesso per mancato superamento della prova.
Come vedremo, tuttavia, ci sono diverse criticità da superare, affinché il citato recesso risulti insindacabile. Tra queste possiamo riscontrare: una congrua durata del periodo di prova svolto; la validità effettiva del patto di prova; eventuali effetti sospensivi della durata del periodo. Tali patologie si riscontrano essenzialmente dall’analisi degli insegnamenti giurisprudenziali susseguitisi nel tempo.
Iniziamo col valutare la congruità della durata del periodo di prova.
Come noto, e già anticipato, detta durata è stabilita ordinariamente dalla contrattazione collettiva, la quale prevede una sua gradazione in relazione alla maggiore o minore complessità della mansione svolta dal lavoratore; è del tutto logico, infatti, che mansioni di maggiore complessità necessitino anche di un periodo di prova più lungo. L’attuale disposizione normativa sul tema ci ricorda inoltre che “nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi”[2].
In sostanza l’insegnamento giurisprudenziale avverte come l’effettiva durata del periodo di prova non debba risultare troppo breve, dato che in tal caso ne risulterebbe inficiata la valutazione delle parti[3]. Tale avvertimento, in qualche modo, va quindi a condizionare le parti stesse in relazione alla concreta durata di tale periodo sperimentale, in quanto un’interruzione troppo precipitosa della prova, senza che sia decorso appunto un tempo congruo, potrebbe ritenersi non rispettosa del principio di buona fede che informa il rapporto di lavoro[4]. Detto aspetto, come facilmente si comprende, riguarda essenzialmente il datore di lavoro.
Molto rilevante, riguardo la nostra analisi, risulta un’altra condizione legata all’effettiva validità del patto di prova sottoscritto.
Togliendo di mezzo il caso limite della mancanza di forma scritta, che esclude ex se la sussistenza stessa della pattuizione, sorgono infatti ulteriori ipotesi patologiche che posso colpire, inficiandone gli effetti, il patto in discorso. Tali ipotesi possono rilevarsi su 2 distinti piani: in relazione al momento della sottoscrizione; in relazione alla completezza esplicativa del patto.
Nel primo caso è stato ribadito in giurisprudenza come la sottoscrizione del patto debba avvenire prima che il lavoratore inizi la propria attività, pena la nullità della clausola[5]. Relativamente alla completezza, invece, l’attenzione deve andare alla chiara indicazione delle mansioni svolte dal lavoratore in prova. Non dunque un’informazione generica, quanto piuttosto una specifica qualificazione della mansione per la quale le parti intendono effettuare l’esperimento.
In relazione a tale indicazione è stato indicato, riguardo la mansione, che: “la specificazione può avvenire secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo con riferimento all’inquadramento del lavoratore, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”[6].
Da ultimo, ma non meno rilevante, occorre tenere in debito conto eventuali eventi sospensivi del periodo di prova, al verificarsi dei quali, quindi, l’arco temporale dell’esperimento risulterà sospeso, postergandone pertanto il termine.
Si tratta in sostanza di assenze del lavoratore giustificate e tutelate dall’ordinamento. È, infatti, previsto che: “in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza”[7].
Un’elencazione questa che, come ribadito dalla prassi ministeriale, non ha certo carattere perentorio ma semmai meramente esemplificativo; per tale motivo ciò che conta è la ratio alla base dell’effetto sospensivo che si ricollega, di fatto, con ogni tipologia di assenza giustificata posto che: “rientrano nel campo di applicazione del comma 3 tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva”[8].
Sarà quindi necessario, ai fini del calcolo della corretta durata del periodo di prova, che le parti tengano conto di quanto appena detto.
Le sanzioni in caso di illegittimo recesso nel periodo di prova
Vediamo infine di tracciare un quadro del sistema sanzionatorio previsto, dall’ordinamento, per il caso di illegittimità di un recesso datoriale per mancato superamento della prova.
Abbiamo detto circa la mancanza di forma scritta o il ritardo della sottoscrizione. In tali situazioni, rilevandosi l’inesistenza oppure la nullità del patto stesso, il recesso datoriale dovrà essere necessariamente assistito da una causale (Gmo, Gms o Gc) prevista dalla legge. La situazione non cambia nel caso in cui, invece, si vada a riscontrare una causa di nullità del patto di prova derivante da una sua non specificità nell’individuare le mansioni da svolgere.
Posto quindi il recesso datoriale come illegittimo, per mancanza di motivazione, ci si è chiesto come l’ordinamento reagisca a fronte di tale illecito.
In relazione ai rapporti rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 18, L. 300/1970 (c.d. vecchi assunti), è stato indicato come: “il richiamo al mancato superamento della prova è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo, ed il vizio è tale da determinare l’applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, che è stata prevista dalla L. n. 300 del 1970, nuovo art. 18, comma 4”[9].
Si tratta di quella tutela che è stata definita come reintegratoria attenuata.
Per quanto riguarda invece la situazione per i rapporti rientranti nell’abito di applicazione del D.Lgs. 23/2015 (c.d. nuovi assunti), si è assistito a differenti decisioni di merito relativamente al regime sanzionatorio applicabile. In un recente arresto, tuttavia, la Suprema Corte ha anzitutto ribadito come la nullità della clausola relativa al patto di prova, in quanto parziale, non si estenda all’intero contratto, andando semmai a determinare una vera e propria conversione del rapporto “in prova” in rapporto “ordinario”; dal che ne discende, inevitabilmente, l’applicazione del regime ordinario del licenziamento individuale. Posta tale considerazione, la Corte di Cassazione ha infine rilevato come corretta l’applicabilità, al caso in esame, del disposto ex articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015 ovvero di una tutela meramente indennitaria[10].
[1] Cassazione n. 1099/2022.
[2] Ex articolo 7, D.Lgs. 104/2022. Si ricorda inoltre che: “Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.
[3] Tra altre: Cassazione n. 2357/2003.
[4] Tra altre: Cassazione n. 2631/1996. Ciò a patto che l’interruzione venga giustificata soltanto dal mancato superamento della prova e non da altre eventuali ragioni.
[5] Tra le altre: Cassazione n. 16806/2011.
[6] Cassazione n. 1099/2022 (Cassazione n. 11582/2014 e n. 9597/2017).
[7] Ex articolo 7, comma 3, D.Lgs. 104/2022.
[8] Ministero del lavoro, circolare n. 19/2022.
[9] Cassazione n. 16214/2016. Rif. ex articolo 18, come modificato ex L. 92/2012.
[10] Cassazione n. 20239/2023. Rif. ex articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015: “omissis ….nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.