Il salario minimo costituzionale
di Evangelista Basile Scarica in PDFCon la sentenza n. 27711 dello scorso 2 ottobre 2023, la Corte di Cassazione – pur in presenza della corretta applicazione della contrattazione collettiva di settore – ha ritenuto il compenso percepito da un lavoratore, non conforme al dettato costituzionale di cui all’art. 36 Cost. Il caso di specie prende le mosse da un ricorso di un dipendente di una cooperativa che lamentava la non conformità ai parametri ex art. 36 Cost. del proprio stipendio di vigilante in un supermercato, corrispondente a quello previsto dal CCNL Servizi Fiduciari del 1° febbraio 2013. Il Giudice di primo grado, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, confermava l’inadeguatezza dell’emolumento. La decisione di primo grado, impugnata dal datore di lavoro, veniva tuttavia riformata dalla Corte di appello, che riteneva invece pacifica l’applicazione datoriale del CCNL di settore di operatività, stipulato dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Pertanto, non si rendeva necessaria alcuna valutazione di conformità di cui all’art. 36 Cost., non potendo tale valutazione applicarsi in presenza di contratti collettivi, vigendo il principio della libertà sindacale. Avverso tale sentenza il dipendente proponeva ricorso per cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione dei principi di cui agli artt. 36 Cost. e 2099 c.c.. La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, ha ritenuto la non conformità della decisione dei giudici di secondo grado con i principi in materia di salario minimo costituzionale.
In particolare, la Corte ha precisato che “nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’ art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata”. Difatti, ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice di merito ha ex art. 2099 c.c. ampia discrezionalità nel determinare la giusta retribuzione, potendosi servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe, purché ne dia un’adeguata motivazione rispettosa dei criteri costituzionali.
Il giudice, nell’opera di verifica dell’adeguatezza della retribuzione minima può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, non dovendo tuttavia ancorare la propria valutazione, per esempio, alla soglia di povertà fissata dall’Istat annualmente ma accogliendo una nozione più ampia, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, a norma della quale si deve tener conto “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.
La Suprema Corte ha chiarito che si pone in ogni caso la necessità di una verifica giudiziale nonostante la presenza (e il rispetto) della contrattazione collettiva, al fine di individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale. Tale intervento giudiziale, precisa la Corte, può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza, dal momento che “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.
Spetta pertanto al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost. mentre il lavoratore deve provare unicamente il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità della stessa. La Cassazione ha difatti precisato che al lavoratore “spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione”.
In conclusione, la Suprema Corte ritiene che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva, posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto. “Sicché una legge (come quella in tema di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.”.