Cumulo della delega da amministratore con il rapporto di lavoro subordinato
di Luca Vannoni Scarica in PDFIl contratto di lavoro subordinato, soprattutto in caso di posizioni apicali, può essere oggetto di cumulo con un ulteriore rapporto, sempre tra le stesse parti, di carattere societario. Se, in relazione a quest’ultimo rapporto, non si pongono particolari problematiche di legittimità, la sovrapposizione può determinare, viceversa, il dissolvimento dell’elemento essenziale che configura la subordinazione, la c.d. eterodirezione, che possiamo brutalmente sintetizzare nella soggezione a ordini: è evidente che la carica societaria, per una legittima cumulabilità, non può rinsecchire un presupposto fondante della subordinazione.
Accanto a tale dinamica perfettamente fisiologica nell’organizzazione imprenditoriale, si possono verificare situazioni patologiche, in particolare nelle piccole e medie imprese, dove la necessità di instaurare un rapporto di lavoro subordinato è successiva alla carica societaria, ed è finalizzata solo allo scopo di rafforzare la tutela previdenziale e assistenziale di quel soggetto. In tali situazioni, come del resto anche quando la subordinazione è evaporata all’esposizione alla carica societaria, l’INPS ha ovviamente interesse a procedere con il disconoscimento del rapporto di lavoro subordinato.
Ad aumentare la mole del contenzioso, di certo non ha aiutato la semplificazione nella costituzione di piccole società di capitali (SRL), dove sono più ricorrenti sovrapposizioni di ruoli (soci e amministratori) e posizioni.
Ad ogni modo, la configurabilità non può che fondarsi sull’analisi dei recenti orientamenti giurisprudenziali: è evidente, infatti, che la valutazione di legittimità di tali fattispecie di cumulo non può prescindere da una verifica effettiva degli elementi costitutivi della subordinazione, tema fisiologico e necessario proprio per la conformazione del nostro ordinamento.
Anche l’INPS, con messaggio 17 settembre 2019, n. 3359, nel tentativo di uniformare il proprio personale e ovviamente gli operatori economici interessati, ha utilizzato come parametro “il consolidato orientamento formatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità in ordine alla compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e l’instaurazione, tra la società e la persona fisica che l’amministra, di un autonomo e diverso rapporto di lavoro subordinato”.
Oltre a supporti interpretativi, come sono i documenti di prassi e la giurisprudenza, è opportuno valutare anche i possibili rischi in caso in cui sia ritenuto insussistente il vincolo di subordinazione, di carattere fiscale relativamente alla deducibilità dei costi, e di carattere contributivo, previdenziale e pensionistico: i compensi sarebbero infatti considerati rientranti nell’attività di amministratore e trasferiti alla gestione separata (tenuto conto poi di eventuali obblighi anche verso la gestione commercianti).
Sul tema, risulta interessante richiamare questa recente sentenza di Cassazione, n. 2487/2022, che sottolinea come diverse riqualificazioni del rapporto debbano poggiarsi su un rigoroso onere probatorio e non sulla base di presunzioni.
Con verbale ispettivo, l’INPS aveva disconosciuto la natura subordinata dei rapporti di lavoro intrattenuti da una società con due membri, gli unici, del CDA, soci al 50%: in primo grado, il Tribunale aveva escluso che l’Inps avesse assolto all’onere di dimostrare la natura simulata del rapporto subordinato. La Corte di Appello ribaltava tale giudizio, ritenendo, indipendentemente dalla ripartizione dell’onere probatorio, che “la qualità di entrambi di membri del C.d.A. della società (di cui ciascuno dei due era socio al 50%), sia pure con riserva, nella delibera di loro nomina, della necessità di una decisione congiunta di entrambi sulle principali scelte gestionali (comprese quelle relative al personale), ostasse alla costituzione di un vincolo di subordinazione alla società amministrata (e del conseguente potere conformativo di questa sulla loro prestazione lavorativa), per la decisività della volontà di ognuno dei due nella formazione del processo decisionale”.
La società ricorreva quindi in Cassazione, facendo valere due motivi, strettamente connessi tra loro.
- l’inesistenza di un vincolo di subordinazione è configurabile automaticamente solo nel caso di amministratore unico;
- l’onere della prova dell’inesistenza del rapporto di lavoro ricade sull’INPS, essendo alla base della sua pretesa contributiva (secondo motivo).
La Cassazione ha considerato entrambe le motivazioni legittime: se, da una parte, l’incompatibilità della condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della società si verifica solo esclusivamente con la qualifica di amministratore unico di una società, sono invece “cumulabili la carica di amministratore e l’attività di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali, purché sia accertata, in base ad una prova di cui è necessariamente onerata la parte che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato, l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale e il vincolo di subordinazione”.
Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha ritenuto, nel caso di specie, l’onere probatorio in questione spetta all’ente previdenziale, in quanto soggetto tenuto, in linea generale, alla dimostrazione dei fatti costitutivi dell’obbligo contributivo.
Pertanto, è stata considerato meritevole di censura l’omissione di ogni accertamento da parte della Corte di Appello, sul presupposto della qualità di entrambi i lavoratori di membri del C.d.A. della società (di cui pure ciascuno socio al 50%), tenuto conto che “la previsione nella delibera di loro nomina della necessità di una decisione congiunta di entrambi sulle principali scelte gestionali, comprese quelle relative al personale: in assenza, in capo ad ognuno dei due amministratori, di un autonomo potere direttivo sul personale rapporto di lavoro, invece conferito a un diverso centro decisionale di amministrazione congiunta sovrapersonale”.
Al di là dell’esito, e forse qualche passaggio incerto dove si salta dall’onere di dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato all’onere di chi vuol fare valere una pretesa contributiva, quello che emerge è l’assenza di ogni presunzione di incompatibilità, anche in un caso dove un’effettiva verifica dell’assenza di elementi legati alla subordinazione avrebbe portato ad esiti diversi: appare infatti alquanto labile come vertice datoriale del rapporto i due amministratori in simbiosi, con obblighi di non perseguire interessi personali, verso, alla fine, loro stessi come dipendenti.