18 Maggio 2023

I contratti a termine nel nuovo decreto Lavoro

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Con l’articolo 24 del D.L. n. 48 dello scorso 5 maggio 2023, il Governo è intervenuto in tema di causali dei contratti a tempo determinato.

Rimane anzitutto invariata la facoltà di concludere un contratto a termine a-causale fino a 12 mesi. Per contro – in relazione al periodo superiore e fino al limite dei 24 mesi – lungi dall’aver eliminato le causali (introdotte da ultimo nel 2018 dal decreto dignità, non senza polemiche), con spirito forse un po’ troppo cerchiobottista, il nuovo decreto stabilisce tre nuove causali:

«a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;

b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;

b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.».

Come è evidente, venute meno le “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività” e quelle “connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”, sembra residuare – oltre alla causale sostitutiva che diventa però generica – una causale meramente contrattuale, di matrice collettiva o, in assenza di previsioni nei CCNL, solo fino al 30 aprile 2024, addirittura individuale.

Nessuna liberalizzazione sfrenata dei contratti a termine, dunque, nonostante i titoli neppure giustificatamente preoccupati di alcune testate nazionali che evidentemente vedono nei contratti a termine il fulcro della precarietà del mercato del lavoro. Le cose però non stanno proprio così: fra tutti gli strumenti di flessibilità contrattuale, l’apposizione di un termine ad un contratto, sembra essere il minore dei mali (si pensi alle finte partite IVA, ai co.co.co., alle varie forme di lavoro atipico, di gran lunga categorie più a rischio precarietà) e di converso, l’introduzione delle causali ha storicamente creato un contenzioso dagli esiti quanto più variopinti.

Proprio il riferimento alle “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” individuate dalle parti riecheggia la formula già prevista a suo tempo dal d.lgs. 368/2001 e tutto il contenzioso giudiziale che ne derivò. In mancanza di causali collettive saranno le parti a verbalizzarle nei contratti di lavoro (o almeno, così parrebbe, sebbene la lettera di legge non parli esplicitamente di contratti individuali di lavoro).

È appena il caso di dire che nella pratica è quantomeno improbabile ritenere che un lavoratore possa conoscere così nello specifico da poterle “contrattare” le esigenze aziendali temporanee o che comunque abbia, in sede di sottoscrizione del contratto, un potere contrattuale tale da poter sindacare la veridicità della causale apposta.

Il risultato che ci si aspetta è quindi sempre il medesimo: l’impugnazione della causale nell’ipotesi in cui alla scadenza naturale il rapporto non venga stabilizzato e dunque incremento del contenzioso.

Per ridurre il rischio, quindi, non basterà raccogliere un paio di firme nel contratto di lavoro, ma sarà necessario predisporre e chiarire per iscritto, in modo trasparente e comprensibile, quali siano in concreto le ragioni che hanno condotto all’apposizione del termine. In definitiva, occorre che le parti nel contratto di lavoro riescano a declinare le specifiche “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva”, senza limitarsi a riprodurre il testo di legge.

Come si dice, patti chiari, amicizia lunga… o forse no?

 

Segnaliamo ai lettori che è possibile inviare i propri commenti tramite il form sottostante.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Diritto del lavoro