Social, piattaforme, web workers tra “like” e condivisioni: considerazioni (sparse) de iure condendo
di Michele Palla Scarica in PDFSocial – influencer – followers: implicazioni giuslavoristiche dei nuovi web-works
Lo sviluppo abnorme del mercato digitale (e-commerce) cui si è affiancato (o ne ha forse rappresentato la premessa) l’uso ormai universale dei canali e piattaforme social che consentono di raggiungere un numero imprecisato di potenziali consumers o comunque di fruitori ha concorso a creare nuove vie di contatto tra aziende e acquirenti e lo sviluppo di nuove forme di intermediazioni informative in chiave pubblicitaria – promozionale che utilizzano la notorietà di personaggi che producono e postano in rete contenuti digitali di varia tipologia e natura (video, stories, foto, messaggi, etc.)[1] a uso e consumo di gruppi più o meno estesi di loro seguaci (c.d. followers). Talvolta, la comunicazione, condivisione avviene attraverso luoghi virtuali (siti) di incontro e confronto (intorno ai quali ruota la community) il cui oggetto risulta riferibile a un brand o ai suoi prodotti che il personaggio, che in questo caso assume il nomen di blogger, propone al suo gruppo di contatti o che comunque il brand, “sponsorizza”.
Proprio per le loro capacità aggregative/persuasive costoro assumono il nomen di influencers[2] (o bloggers, appunto) termine che reca in sé il motivo per il quale le aziende ne richiedono sempre più spesso i servizi, concordano con loro la produzione di contenuti digitali da inserire in rete tramite piattaforme (Twitter, YouTube[3], Instagram, Facebook etc.) quotidianamente frequentate da centinaia di migliaia di persone e come tali suscettibili di un ritorno commerciale. Si tratta allora di valutare quale sia la qualificazione giuridica sintonica con le attività dei creatori di contenuti digitali muovendo dall’ovvia considerazione che questioni di tutela giuridica ed economica[4], ovviamente, si stemperano per i personaggi di grande notorietà che vantano decine, centinaia di migliaia di followers e che possono permettersi di porre essi stessi le condizioni economico-giuridiche della loro disponibilità per il brand che ne richieda la collaborazione. Ben diversa è la condizione di coloro che invece possono vantare bacini di influenza ridotti e ridottissimi e che comunque traggono da quelle collaborazioni corrispettivi minimi o addirittura in natura (ovvero prodotti del brand), ogni qualvolta quell’attività divenga impregno professionale, funzionale alle esigenze di vita[5].
In questo contesto, occorre annotare che, allo stato, la disciplina del c.d. platform work è pressoché intonsa anche considerando che, nel nostro ordinamento, l’unica normativa tipizzata è quella portata dalla L. 128/2019 la quale ha inserito il capo V-bis nel D.Lgs. 81/2015, la quale (articoli 47-bis e ss.) fissa livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui all’articolo 47, comma 2, lettera a), D.Lgs. 285/1992, c.d. codice della strada, attraverso piattaforme anche digitali, per tali intendendosi:
“i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
Il richiamo alla fattispecie legale tipizzata dal Legislatore disvela da subito l’ambito definito dell’intervento normativo che, proprio per la sua specialità, non appare suscettibile di estensione analogica.
Ciò precisato, occorre intanto individuare quale sia o come si caratterizzi l’attività che gli influencers svolgono, così da prospettarne la possibile qualificazione giuridica nella consapevolezza che un’attività in sé non porta alla sua immediata sussunzione nelle fattispecie giuridiche legal-tipiche, rilevando piuttosto come quell’attività concretamente si atteggi nel fattuale dipanarsi della relazione negoziale tra le parti.
Sul punto, giusto per richiamare principi noti e consolidati, occorre ricordare che ogni attività umana economicamente rilevante può svolgersi indifferentemente con modalità riconducibili al lavoro autonomo o subordinato (o a forme intermedie – collaborazioni di durata – tra del 2 tipologie):
“si ha rapporto di lavoro subordinato laddove il lavoratore mette a disposizione del datore di lavoro le proprie energie assoggettandosi al potere organizzativo, direttivo e disciplinare dello stesso, costituendo indici spia della subordinazione, in combinazione tra loro, la mancanza di rischio di impresa, la retribuzione fissa e calcolata ratione temporis, la continuità della prestazione e l’osservanza di un orario etero-imposto”[6].
Quanto poi al distinguo subordinazione/autonomia, i principi elaborati dalla S.C. sono (arci) noti:
“Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui si presenta in forma attenuata in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto, sicché occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, la cui valutazione di fatto, rimessa al giudice del merito, se immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità, ove è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto”[7].
Per cercare di identificare l’attività dell’influencer, può farsi utile riferimento alla definizione di influencer marketing resa dall’autorità garante della concorrenza e del mercato del 24 luglio 2017 ovvero:
“all’attività di diffusione su blog, vlog e social network di foto, video e commenti da parte di bloggers o influencers che mostrano sostegno o approvazione per determinanti brands, generando un effetto pubblicitario”.
L’effetto ottenuto dai messaggi proposti in varie forme e modalità sui social networks dagli influencers è poi oggettivamente tangibile traducendosi in “like”, “visite”, commenti etc.[8]. Proprio i riscontri raccolti determinano quella che si può definire come la categorizzazione degli influencer che muove dai c.d. nano-influencer (che vantano fino a 1.000 followers) che usualmente si rivolgono a followers – target molto specializzati o settoriali (ad esempio, sport estremi, discipline di nicchia, interessi estremamente settoriali), passando dai micro-influencer (fino a 100.000 followers), gli influencer veri e propri (tra 100.000 e 500.000 followers) fino ai c.d. macro-influencers con milioni di seguaci[9].
Ebbene, appare evidente che, in chiave giuslavoristica, un problema di tutela della parte debole del rapporto mal si pone per le ultime 2 categorie di influencers che, proprio in ragione dei rispettivi bacini di utenza, delle proprie capacità di aggregazione “social”, possono dettare le regole economiche e giuridiche del rapporto commerciale con i brand di riferimento, avvalendosi di professionisti ed esperti che ne tutelano gli interessi in fase di contrattazione ed esecuzione del vincolo. È ovvio che per costoro un problema di subordinazione “sociale”, “informativa” o “economica” difficilmente si può prospettare dettando essi stessi le regole negoziali e i limiti degli impegni verso i brand di riferimento.
L’assunzione di vincoli anche di natura personale (ad esempio l’obbligo di indossare solo i prodotti del brand e, al contempo, di non poter manifestare in pubblico gradimento per eventuali prodotti concorrenti o di mantenere un immagine pubblica in linea con i principi etici proclamati dal brand di riferimento) è infatti ampiamente compensata con corrispettivi talmente elevati che un afflato verso il riconoscimento della subordinazione o di una retribuzione giusta e sufficiente oggettivamente non può porsi, finendo costoro per assumere più la veste di imprenditori di sé stessi e della propria immagine pubblica, piuttosto che quella di lavoratore subordinato o dipendente (non dipendendo di fatto da alcuno), tanto che spesso si fanno promotori in prima persona di un proprio brand.
La quaestio si pone piuttosto per i nano e i micro influencer che si fanno loro malgrado latori di una debolezza economico – sociale equiparabile a quella di qualsivoglia altro lavoratore che si presenti sul mercato per ricercare occasioni di lavoro dovendosi però rammentare che, definizione normativa alla mano (articolo 2094, cod. civ.), la debolezza economica non vale di per sé a qualificare giuridicamente il lavoro dedotto nel rapporto negoziale[10] atteso che, per rivendicare lo schermo protettivo della subordinazione, occorre quell’assoggettamento pieno ad eterodirezione che nei repertori viene identificato come il nucleo ontologico, appunto, della subordinazione e che la Corte Costituzionale con sentenza n. 30/1996, ha individuato nella cosiddetta doppia alienità, quella di risultato e quella di organizzazione, conferendo così rilevanza non tanto alle modalità di esecuzione delle prestazioni, quanto, in verità, al:
“tipo di interessi cui l’attività è funzionalizzata e il corrispondente assetto di situazioni giuridiche in cui è inserita”.
Influencers tra autonomia, subordinazione e coordinamento. La prestazione d’opera
L’analisi giuridica di un fenomeno non può che dipanarsi dalle caratteristiche “strutturali” del fenomeno stesso e, se quel fenomeno è costituito da una prestazione lavorativa, è necessario che l’analisi qualificatoria muova dal concreto atteggiarsi delle modalità di estrinsecazione del lavoro, dal ruolo che in quelle assume l’auto determinarsi del debitore della prestazione rispetto al suo creditore, dall’inserimento, stabile o meno, della prestazione nell’organizzazione predisposta dal fruitore dei suoi risultati.
È ovvio che, come sempre accade nelle prestazioni intellettuali, la subordinazione tende ad assumere un carattere per così dire più etereo, meno legato alla diretta – fattuale ingerenza del creditore nell’esecuzione del lavoro[11] o alla eterodirezione assidua tipica delle prestazioni manuali, proprio perché si tratta di attività caratterizzate da un alto grado di creatività e, spesso, dalla particolare autonomia che accompagna naturaliter la natura prettamente intellettuale dell’attività stessa.
È poi noto che ai fini della qualificazione a nulla rileva il regime fiscale scelto dal lavoratore atteso che, ad esempio, il ricorso alla partita iva risulta spesso lo specchio per le allodole dietro al quale mascherare un genuino rapporto di lavoro subordinato il cui primo segnale, proprio per rimanere nell’ambito fiscale, è la rivelatrice consecutività numerica (1, 2, 3, 4 etc.) delle fatture emesse nei confronti dell’apparente mono-committente per importi pure essi ripetuti sia nel quantum che nella cadenza di erogazione. La circostanza che molti influencers siano dotati di partita Iva (con tutto il sottostante tema della qualificazione delle attività sub specie di prestazione occasionale[12]), dunque, non risulta di per sé decisiva ai fini della qualificazione del rapporto.
Una prima modalità di estrinsecazione della prestazione dell’influencer potrebbe essere quella, occasionale, di concordare con un brand – committente la realizzazione di un determinato contenuto (un video, ad esempio) da postare su un social network a disposizione dei followers. In questo caso, l’impegno che l’influencer assume è quello di realizzare un’opera o un servizio determinati verso un corrispettivo, qualificabile come prestazione d’opera e come tale incasellabile nella fattispecie normativa dell’articolo 2022, cod. civ., ovvero nel lavoro autonomo.
È ovvio che il ragionamento vale per una prestazione spot, una tantum, atteso che laddove le prestazioni singole dovessero succedersi con cadenza ripetuta collegandosi funzionalmente le une alle altre, magari all’interno di una campagna programmata dal committente, l’occasionalità verrebbe automaticamente meno e la qualificazione della fattispecie dovrebbe essere ripensata in una prospettiva di durata e di inserimento dell’attività nella complessiva organizzazione imprenditoriale – commerciale della committente.
Ovviamente, anche all’interno di un contratto di prestazione d’opera ex articolo 2222, cod. civ., si registra la cessione di spazi di autonomia nella misura in cui, ad esempio, il committente fissi delle direttive tipologiche, di contenuti o di destinazione del “prodotto” che richiede all’influencer, ma queste cessioni costituiscono fisiologica espressione della contrattazione atteso che, come noto, ogni contratto (articolo 1321, cod. civ.) rappresenta comunque la sintesi di una reciproca contrapposizione e direttive o richieste del “cliente” non valgono di per sé a snaturare la natura autonoma della prestazione che resta misurata sul servizio reso o non sulla modalità di esecuzione del lavoro che rimane auto-diretto e organizzato.
Irrilevante ai fini qualificatori, invece, è ad avviso di chi scrive, la circostanza che il contenuto postato sia destinato a rimanere in rete per un tempo prolungato, avendo le parti concordato, ad esempio, che esso non possa essere rimosso per un certo periodo di tempo. La continuità, in quel caso, riguarda l’uso del prodotto del vincolo occasionale contrattato, ma non il vincolo in quanto tale atteso che esso si è esaurito con la produzione del contenuto concordato. Piuttosto, qualche dubbio potrebbe sorgere se il contatto occasionale producesse per il lavoratore digitale effetti limitativi durevoli alla propria libertà lavorativa come nel caso in cui, ad esempio, l’attività (occasionale) dell’influencer venisse limitata in prospettiva futura con un vincolo di esclusività nel senso che gli fosse richiesto l’impegno a non realizzare contenuti analoghi per competitors della committente. In quel caso, infatti, ben difficilmente il vincolo potrebbe ritenersi occasionale, finendo per limitare nel tempo la libertà contrattuale dell’influencer e avvicinandosi così al coordinamento della collaborazione para-subordinata e al combinato disposto degli articoli 409, n. 3 c.p.c. e 2, D.Lgs. 81/2015.
Il coordinamento, la continuità e la (potenziale) etero-organizzazione
Può tuttavia accadere che il vincolo negoziale tra influencer e brand o committente assuma una maggiore stabilità risultando disciplinato da un contratto destinato a dipanarsi nel tempo (ad esempio per una o più campagne promozionali o anche per un periodo di tempo più consistente) che preveda reciproci diritti ed obblighi. Usualmente, il contratto tra influencer e azienda – committente ha a oggetto l’impegno del primo di realizzare contenuti digitali per promuovere o pubblicizzare i prodotti di un determinato brand attraverso la pubblicazione di post, storie, video o altri contenuti sul social network di riferimento, dietro il pagamento di un corrispettivo o, più raramente nel caso di influencer “professionali”, la cessione di prodotti da parte dell’azienda proprietaria del brand.
In questo caso, la denominazione spesso utilizzata è quella di contratto di influencer marketing[13] e risulta non riconducibile a nessuna fattispecie contrattuale tipica ma che, non per questo, è sottratta alla vis attrattiva della inderogabilità ogni qualvolta il vincolo, sia pure espressione dell’autonomia negoziale privata (articolo 1322, cod. civ.), finisca per manifestarsi in concreto secondo gli stilemi contrattuali della fattispecie, questa volta tipica, della collaborazione coordinata e continuata o, più difficilmente della subordinazione (per le quali, l’una e l’altra, vale la disposizione dell’articolo 2113, cod. civ.).
I contratti di influencer marketing presentano usualmente dei contenuti ricorrenti che al di là della prestazione dedotta con il conseguente corrispettivo (percentuale, fisso, progressivo in rapporto alle visualizzazioni etc.) al centro del sinallagma contrattuale concernono, ad esempio, l’esclusiva che può riguardare la limitazione allo svolgimento di analoghe attività per aziende o prodotti concorrenti, oppure per tipologie di consumatori o potenziali buyers. Ovviamente la clausola di esclusiva può essere anche bilaterale e dunque vincolare vicendevolmente le parti contrattuali (l’influencer potrebbe avere interesse ad essere l’unico interlocutore “social” della committente per una data tipologia di prodotti o in assoluto). Inoltre, essa può riguardare anche la fase post contrattuale divenendo un vero e proprio patto di non concorrenza con le conseguenze che da quello si dipanano nel caso in cui il rapporto atipico divenisse, per successiva qualificazione giudiziaria, di natura subordinata (articolo 2125, cod. civ.)[14].
Frequenti saranno poi le clausole di sensibilizzazione per i profili di tutela dei consumatori che impongono all’influencer di conformarsi alle regole di trasparenza pubblicitaria fissate dall’autorità garante per l’economia ed il mercato e dal regolamento Digital Chart emanato dall’istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP) [15] nel 2016 che stabilisce una serie di presidi a tutela dei consumatori per garantire la trasparenza delle comunicazioni commerciali diffuse tramite internet (prima fra tutte la necessità di inserire all’inizio del post la specifica annotazione che trattasi di pubblicità oppure l’indicazione dell’azienda che sponsorizza il contenuto digitale postato). Spesso, queste clausole sono accompagnate da penali o, addirittura, da clausole risolutive espresse in caso di inadempimento.
Ancora, al solo scopo di fornire una davvero sintetica descrizione delle possibili clausole di un contratto “da” Influencer, l’accordo potrà prevedere forme di tutela per la proprietà intellettuale dei contenuti realizzati dall’influencer, stabilire i limiti convenzionali all’utilizzo dei contenuti in rete selezionando piattaforme o escludendone altre, fissare regole per la tutela dell’immagine dell’influencer, stabilire limiti di durata del vincolo e, ovviamente, di preavviso di recesso.
Ebbene, se l’attività dell’influncer assume carattere stabile e protratto nel tempo verso una data committente, il rapporto che viene così ad instaurarsi assume i connotati della parasubordinazione traducendosi in una prestazione di opera[16] continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato:
“La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa” (così l’articolo 409, n. 3, c.p.c.).
Dovendosi ricordare comunque che alle collaborazioni continuative si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato[17] laddove le relative modalità di esecuzione siano organizzate dal committente e che la regola si applica in aggiunta qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali (articolo 2, D.Lgs. 81/2025[18]).
Ai fini qualificatori, dunque, si tratterà di verificare l’atteggiarsi in concreto della collaborazione tra influencer e brand dovendosi applicare la disciplina del lavoro subordinato ogni qualvolta l’ingerenza del committente, nell’ambito di una collaborazione di durata, si estenda alle modalità di esecuzione dei servizi concordati, imponendo ad esempio un determinato numero di post a determinate scadenze, un corrispettivo unilateralmente determinato o imposto, l’uso di format pre-stabiliti con conseguente compressione della creatività del collaboratore, un inserimento stabile nell’organizzazione della committente con la quale, in conclusione, l’influencer si identifica, l’imposizione di obblighi di risposta in tempi determinati, fino a giungere alla preventiva, indispensabile autorizzazione all’immissione nel web e sulle piattaforme del con tenuto elaborato. A tutto ciò, poi, potrebbero aggiungersi limitazioni verso terzi, nel senso cioè di impedimenti al collaboratore di assumere incarichi da altri brands così che la limitazione della sua libertà professionale finisce per assumere anche un carattere negativo, rendendo anco più pregnante l’ingerenza nel lavoro dell’influencer[19].
In tutti questi casi, la prestazione (intellettuale) del collaboratore finisce per essere etero organizzata dal brand (non potendosi escludere però, in tutto questo, una cointeressenza dell’influencer, visto che l’immedesimazione con un brand regala notorietà e testimonia la sua importanza presso i followers), dunque, al rapporto si applicherà la disciplina del lavoro subordinato, sdrammatizzandosi così la quaestio autonomia/subordinazione.
Circa la latitudine dell’estensione della disciplina riconducibile alla fattispecie dell’articolo 2094, pur non essendo questa la sede di una completa disamina sul punto, basti qui ricordare che secondo il Ministero del lavoro (circolare n. 3/2016), la formulazione utilizzata dal Legislatore, di per sé generica, lascia intendere l’applicazione di qualsivoglia istituto, legale o contrattuale (ad esempio, trattamento retributivo, orario di lavoro, inquadramento previdenziale, tutele avverso i licenziamenti illegittimi etc.), normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato.
In questa prospettiva, ad esempio, tribunale di Firenze, 24 novembre 2021[20], ha ritenuto applicabile ai collaboratori etero-organizzati (riders, in quel caso) la disciplina sui licenziamenti collettivi (L. 223/1991). Mentre il tribunale di Bergamo n. 386/2022[21] ha applicato i parametri di inquadramento e retributivi del Ccnl astrattamente corrispondente alla prestazione resa da un collaboratore eterodiretto che promuoveva contratti telefonici[22]. Infine, per una completa equiparazione di tutela, disciplina limitativa dei licenziamenti compresa, la nota del Tribunale di Palermo del 24 novembre 2020 ampiamente commentata[23].
Certo è che l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ha un’immediata ricaduta in punto di corrispettivi visto che essi andranno a ricadere sotto l’operare dei parametri di proporzione e soprattutto sufficienza che discendono dall’articolo 36, Costituzione, e che escludono, in relazione all’effettivo tempo di lavoro, remunerazioni simboliche o esclusivamente in natura e comunque certamente sottratte all’alea della indeterminatezza ex ante.
Content creator e piattaforme digitali: la tutela “oltre” il diritto della subordinazione
Quanto sin qui argomentato vale poi a maggior ragione laddove il rapporto negoziale non intercorra tra brand e “collaboratore” ma tra quest’ultimo e la piattaforma digitale sulla quale il primo posti i contenuti realizzati[24]. È ovvio che, anche in questo caso, la qualificazione giuridica del rapporto che si viene ad instaurare tra la piattaforma e l’influncer deriverà dalla struttura interna della collaborazione e sull’ingerenza che la prima avrà sulle attività del secondo (con soluzioni tutt’altro che semplici proprio per le caratteristiche dell’attività di che trattasi).
Intanto, occorre verificare come avvenga il “contatto” tra operatore e piattaforma: se il contatto è contingente, privo di vincoli e di corrispettivo e le regole che il creatore dei contenuti postati deve osservare abbiano una portata generale di tutela della piattaforma (responsabile dei contenuti che immette in rete) o dei suoi fruitori (si pensi ad esempio a limiti relativi a contenuti inopportuni, offensivi o violenti) esso è sul piano giuslavoristico indifferente o neutro non assumendo natura professionale.
Diversa è ovviamente la situazione qualora, il rapporto con la piattaforma assuma carattere di stabilità con regole di disciplina dei risultati/prodotti dell’attività del collaboratore – definito in questo caso content creator – che ad esempio è tenuto a caricare contenuti con una frequenza predeterminata dalla piattaforma, ottenendo in cambio un corrispettivo in relazione al numero di visualizzazioni, “like” o contatti: in questo caso, l’autonomia del content creator può subire una (notevole) compressione che si innesta sulla cadenza della propria attività e quindi, in definitiva, sulla sua libertà di auto organizzazione e ciò potrebbe evocare potenzialmente la figura della collaborazione etero organizzata di cui si è appena detto. Tale conclusione, però, come si vedrà, appare difficilmente sostenibile[25].
Sulla qualificazione giuridica dell’attività del creator indubbia rilevanza assume la circostanza che egli offra un prodotto frutto di una prestazione creativa di carattere intellettuale, operando integralmente da remoto e con auto determinazione di tempi ed intensità dell’attività, rivolgendosi a potenziali fruitori che, a loro volta, entrano in contatto con lui sempre da remoto. Nell’opera di (difficile) qualificazione della fattispecie, occorre poi considerare che le condizioni per poter inserire i contenuti sulla piattaforma sono unilateralmente determinate e in definitiva imposte dalla piattaforma stessa, senza che residui in capo al creator alcun margine di trattativa circa le condizioni del suo operare attraverso o all’interno di essa.
Si è poi evidenziato che in definitiva, oltre a dettare le regole di ingaggio (ovvero le regole in virtù delle quali il creator opererà in rete), la piattaforma determina anche le modalità di calcolo dei corrispettivi e la persistenza del “rapporto” atteso che è sufficiente bloccare l’account del collaboratore per estrometterlo dalla piattaforma. Di conseguenza, la natura autonoma della prestazione cui si impegna il creator risulta quanto meno sfumata, considerando soprattutto che la piattaforma non riveste il ruolo di mero intermediario – connettore tra creator e followers – utenti ma finisce per svolgere un ruolo attivo nello svolgimento dell’attività del collaboratore e nella sua cessazione[26].
La piattaforma, infatti, si riserva un potere di sospensione o addirittura di “oscuramento” (e dunque di esclusione) del creator in caso di violazione delle regole operative, etiche o di contenuto stabilite per l’inserimento dei contenuti e ciò senza una interlocuzione (la mente va alle procedure ex articolo 7, Statuto) con il diretto interessato.
Certo è che la figura del content creator mal si presta a essere inquadrata nella fattispecie del lavoro subordinato (ma in definitiva anche in quella della collaborazione etero-organizzata) mantenendo comunque una pressoché totale libertà di auto-determinazione della propria attività, ma al contempo sembra sfuggire all’autonomia del prestatore d’opera per i limiti e le “intromissioni” sin qui ricordate.
La peculiarità del lavoro del content creator induce dunque a ritenere che il ricorso alle categorie di tutela del diritto del lavoro tradizionale sia destinato a rimanere infruttuoso dovendosi piuttosto ricorrere a una panoplia di tutele ad hoc che riguardano sia il profilo informativo, sia la tutela dei prodotti intellettuali e creativi del creator, sia la trasparenza e fruibilità dei dati su contatti, visite e “like”, sia la sua posizione di debolezza economica ed operativa rispetto ad un interlocutore che può “abusare” di una posizione dominante (all’uopo potendosi richiamare la disciplina di tutela del lavoro autonomo portata dalla L. 81/2017).
La molteplicità e peculiarità dei profili di rilevanza/interesse nel lavoro del content creator lascia intendere la necessità di un intervento normativo ad hoc onde evitare che la ricerca di strumenti di presidio tradizionali, magari manipolando o forzando categorie giuridiche che mal si prestano alla tutela di un fenomeno per il quale non sono state pensate, finisca per condurre ad una irrisolta elucubrazione, mentre i web workers rimangono privi di ogni forma di tutela.
[1] Per un’attenta disamina del lavoro nel “metaverso”, si veda Labour & Law Issues (LLI) fascicolo 2 del 2022.
[2] Per i quali si è già costituti una associazione, la Assoinfluencer, che già si è fatta promotrice di una serie di richieste di tutela per gli aderenti rappresentate nel corso di un’audizione presso la commissione lavoro della camera dei deputati il 14 settembre 2021.
[3] Al quale fanno capo i creatori di contenuti (content creators) che operano attraverso un canale e che attirano followers che ne avallano il lavoro attraverso condivisioni e like. Si veda sotto n. 4
[4] P. Tullini, “C’è lavoro sul web?” LLI 1, 1, 2015, 14. Torsello, “Il lavoro degli influencers: percorsi di tutela”, LLI 20121, 7, 2.
[5] È ovvio che il problema della tutela giuridica del lavoro non si ponga per chi svolge certe attività per mero hobby o per contingente e a-professionale soddisfazione personale anche se ogni qualvolta ci si rivolga ad un pubblico indeterminato problemi giuridici si pongono comunque in relazione ai contenuti postati, ai diritti di terzi, alle regole sulla pubblicità (che non deve mai essere ingannevole) etc..
[6] Tra le innumerevoli, Cassazione n. 14639/2010, in nota n. 536/2010: “Premesso che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento, costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato, ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo, il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e di controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative e che elementi quali l’assenza del rischio, l’osservanza di un orario e la cadenza e la misura fissa della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva”. Cass. civ., sez. lav., 08-02-2010, n. 2728 in Arg. dir. lav., 2010, 943, n. CAPONETTI, a detta della quale: “costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative”.
[7] Cassazione n. 5436/2019.
[8] P. Iervolino, “Sulla qualificazione del rapporto di lavoro degli influencer”, LLI, 7, 2, 2021I, 28 e ss., ricorda la distinzione tra influencer, che si lega al brand da promuovere solo in relazione alla presenza on line, e il brand ambassador che si impegna a promuovere il brand anche al di fuori della rete, nella quotidianità impegnandosi a utilizzare in via esclusiva i prodotti del brand, a presenziare a manifestazioni o iniziative ecc. Ivi cit. S. Cortesi – F. Genzano, “Le nuove categorie professionali: il discrimine tra influencer e brand ambassador”, in Il Giuslavorista ,agosto 2021.
[9] P. Iervolino, cit. richiama il caso del calciatore Cristiano Ronaldo che vanta circa 340 milioni di followers su Instagram e che ha concluso, quale brand ambassador un contratto decennale con Nike per 16,2 milioni euro annui.
[10] Ponendosi piuttosto una questione di tutela del lavoro povero in sé: cfr. Cangemi, “Lavoro povero e non dignitoso. Il caso dei lavoratori delle piattaforme digitali”, in Arg. Dir. Lav. 2023, I, 36 e ss., il quale evidenzia come si possano enucleare “3 principali fattori interconnessi che aumentano il rischio dei lavoratori che svolgono la prestazione attraverso piattaforme digitali di permanere in uno stato di bisogno, nonostante il lavoro: la qualificazione del rapporto; la discontinuità lavorativa; la limitata applicabilità della contrattazione collettiva” (fattore per certi verso derivato dai primi 2); Bano, “Il lavoro povero nell’economica digitale”, in Lav. Dir. 2019, I, 130; Ferraris, “Una lettura economica del lavoro povero”, in Lav. Dir. 2019, I, 52 e ss..
[11] Nel caso del lavoro giornalistico, a mente dei presupposti ricordati nel testo, Cassazione n. 22785/2013, ha chiarito che la conseguenza di tutto ciò, ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie: “rileva specificamente l’inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell’organizzazione d’impresa”. Cassazione n. 22289/2014, in Foro it., 2014, I, 3429: “In tema di qualificazione del rapporto di lavoro caratterizzato da prestazioni lavorative dotate di notevole contenuto intellettuale, l’esistenza della subordinazione, in assenza di univoci indici di assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, va accertata sulla base di criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione della retribuzione, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la sussistenza o meno di poteri di autorganizzazione in capo al prestatore di lavoro, non risultando assorbente, in tale contesto, il c.d. nomen iuris del rapporto intercorso fra le parti”.
[12] Il D.L. 146/2021 ha introdotto l’obbligo di comunicazione preventiva dell’utilizzo di lavoro autonomo occasionale. Sul tema si veda la nota dell’Inl n. 29/2022, con le indicazioni operative e diverse Faq con la nota Inl 109/2022 e con successiva nota Inl n. 393/2022. Contermine, ma da non confondere con il primo è il lavoro occasionale accessorio, previsto dall’articolo 54-bis, D.L. 50/2017, conv. L. 96/2017, poi modif. L. 197/2022, articolo 1, commi 342 – 354.
[13] L’alternativa è quella del contratto di sponsorizzazione ovvero dell’accordo in virtù del quale un soggetto (detto, sponsee) si obbliga ad associare alla propria attività, immagine, presenza pubblica (fattuale, come nel caso di partecipazione fisica a eventi, o virtuale come nel caso del web) il nome o il segno distintivo di un altro soggetto (sponsor), contro un corrispettivo di natura prevalentemente economica, divulgandone così l’immagine o il marchio presso il pubblico o i followers, così da promuoverne i prodotti o servizi. Il contratto di sponsorizzazione è riconducibile alla categoria dei contratti di pubblicità, dato che, attraverso di esso, il committente effettua o promuove una forma di comunicazione d’impresa collegando il proprio marchio, i propri prodotti o la propria immagine a un soggetto che sfrutterà la propria notorietà per raggiungere lo scopo voluto dallo sponsor.
[14] Circa il lavoro autonomo, l’articolo 2596, cod. civ., è stato interpretato dalla giurisprudenza nel senso che il patto limitativo della concorrenza deve ritenersi nullo, in quanto contrastante con l’ordine pubblico costituzionale (articoli 4 e 35, Costituzione), laddove sia diretto, non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento (tra le molte, Cassazione, sez. I, sentenza n. 24159/2014).
[15] Lo si legga in https://www.iap.it Il regolamento, ad es. prevede un obbligo di riconoscibilità secondo il quale la comunicazione commerciale diffusa attraverso internet, quali che siano le modalità utilizzate, deve rendere manifesta la sua finalità promozionale attraverso idonei accorgimenti. Nel caso in cui l’accreditamento di un prodotto o di un brand, posto in essere da celebrity, influencer, blogger o altre figure simili di utilizzatori della rete che con il proprio intervento possano potenzialmente influenzare le scelte commerciali del pubblico, abbia natura di comunicazione commerciale, deve essere inserita in modo ben visibile nella parte iniziale del post o di altra comunicazione diffusa in rete una delle seguenti diciture: – “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by … brand” o “Sponsorizzato da … brand/Sponsored by … brand”, o “in collaborazione con … brand/In partnership with … brand”; e/o nel caso di un post entro i primi 3 hashtag, purché di immediata percezione, una delle seguenti diciture: – “#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by … brand”, o “#ad” unitamente a “#brand”. Nel caso di contenuti “a scadenza”, quali ad esempio le stories, una di tali diciture deve essere sovrapposta in modo ben visibile agli elementi visivi di ogni contenuto promozionale. Nel diverso caso in cui il rapporto tra influencer e inserzionista non sia di committenza ma si limiti all’invio occasionale da parte di quest’ultimo di propri prodotti gratuitamente o per un modico corrispettivo, i post o altre comunicazioni diffuse in rete dall’influencer che citino o rappresentino tali prodotti dovranno contenere – in luogo delle avvertenze di cui sopra – un disclaimer del seguente tenore: – “prodotto inviato da … brand”, o equivalente. Nel caso di cui al comma precedente, l’inserzionista deve informare l’influencer, in modo chiaro e inequivoco, al momento dell’invio del prodotto, dell’esistenza dell’obbligo di inserire tale disclaimer. In questo caso la responsabilità dell’inserzionista è circoscritta alla segnalazione all’influencer dell’esistenza di tale obbligo.
[16] Con allusione all’articolo 2222, cod. civ..
[17] Secondo la Cassazione n. 1663/2020, con la previsione il Legislatore ha fatto sì che: “quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato. Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella cui si è fatto cenno, la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione“, eliminando le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione”.
[18] La norma, com’è noto, è stata oggetto di un restyling che ne ha ampliato la portata protettiva per le prestazioni che si collocano in una sorta di terra di nessuno tra subordinazione e collaborazione ma che per continuità, etero- influenza e personalità comparano il collaboratore al lavoratore dipendente legittimandone una tutela pure essa comparabile a quella del “collega”. Il D.L. 101/2019 convertito con modificazione L. 128/2019, infatti, all’evidente scopo ampliare l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ha ritenuto sufficiente per legittimare l’applicazione dell’articolo 2 prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, in relazione alla etero-organizzazione, ha eliminato l’inciso “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro“, così da escludere interpretazioni restrittive della disposizione.
[19] Dovendosi considerare con Cassazione n. 1663/2020 cit. che: “possa essere ravvisata etero-organizzazione rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa”.
[20] In http://www.soluzionilavoro.it/2022/02/10/licenziamento-collettivo-e-collaborazioni-etero-organizzate/.
[21] In https://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2022/09/Trib-Bergamo-30-giugno-2022.pdf.
[22] Per una ricapitolazione della quaestio, Pilati, “Le collaborazioni organizzate dal committente e le incertezze della giurisprudenza sul lavoro tramite piattaforma”, LLI, 2021, 7, 2 e ivi alle collaborazioni organizzate dal committente si applica l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato e ampie note di richiami.
[23] Tra gli altri da F. Carinci, tribunale di Palermo 24 novembre 2020, L’ultima parola sui rider: sono lavoratori subordinati, in https://www.lavorodirittieuropa.it/dottrina/lavori-atipici/594-tribunale-palermo-24-11-2020-l-ultima-parola-sui-rider-sono-lavoratori-subor-dinati, il quale osserva, in un passaggio del suo scritto: “La questione centrale postasi alla giurisprudenza è considerata quella della configurabilità a proposito dei rider di rapporti di lavoro autonomo o subordinato, con una ricognizione che da quella internazionale si prolunga fino a quella nazionale, dove i Tribunali Torino 7 maggio 2018 e Milano 10 settembre 2018 avevano escluso che potessero essere considerati subordinati in quanto “la libertà dei fattorini digitali di decidere se e quando lavorare compromette, ab origine, l’esercizio da parte dell’azienda del potere direttivo e disciplinare… guardando alla fase genetica del rapporto” e “omettendo di addentrarsi nella valutazione” della “fase esecutiva”. Cosa che, invece, ha fatto la Corte di Appello di Torino, ritenendo applicabile la disciplina dell’art. 2, co. 1 d.lgs. n. 81/2015, ma senza per questo concludere per la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, in quanto il rider resterebbe, comunque, tecnicamente autonomo. Ma, proprio in forza di tale distinzione fra fase genetica (dove sussiste la facoltà di obbligarsi o meno alla prestazione) e funzionale (dove emerge la determinazione sostanziale delle modalità della prestazione tramite una piattaforma multimediale e un applicativo per lo smartphone), la Corte di Cassazione (Cass. 1663/2020, cit.) ha ritenuto irrilevante cercare di qualificare i rider come lavoratori autonomi o subordinati, trattandosi comunque di etero-organizzati ai sensi dell’art. 2, co. 1, come tali soggetti alla disciplina della subordinazione; senza, peraltro, escludere che, d’innanzi ad una specifica domanda dei lavoratori, possano essere qualificati come lavoratori subordinati, in ragione delle modalità effettive di svolgimento dei rapporti”.
[24] Torsello, cit. p. 58.
[25] Quando la collaborazione con la piattaforma diviene più intensa, il soggetto assume il ruolo di “partner” che può ottenere o mantenere solo garantendo un certo numero e frequenza di trasmissioni con un numero anch’esso minimo di visualizzazioni e followers. Numero e frequenza di contenuti immessi sulla piattaforma e followers da mantenere rappresentano indici che difficilmente possono ricondursi ai concetti o parametri proprio del diritto del lavoro stanti che gli uni sono comunque rimessi alla libera determinazione del creator, mentre gli altri si collocano totalmente al di fuori dalla sfera negoziale che si instaura tra piattaforma e collaboratore. Ciò a tacere del fatto che il “lavoratore” opera sempre e comunque da remoto, senza alcuna ingerenza personale o sulla organizzazione della sua attività ad opera della piattaforma. Sul punto, A. ROTA, I creatori di contenuti digitali sono lavoratori? in LLI 2012, 7, 2, ed ivi ampi richiami.
[26] A. Rota, cit. pag. 13 e ss. che ricorda le regole di operatività di alcune note piattaforme analizzandone la potestà “punitiva” (YouTube, Tik Tok, Twitch).
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”.
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