23 Febbraio 2023

La ricerca della precarietà

di Riccardo Girotto

L’infinita polemica sui contratti a tempo determinato elevati a simbolo della precarietà o della flessibilità, a seconda del diverso analista che ne decanta pregi e difetti, si apre a un nuovo, per certi versi sorprendente, capitolo.

Si tratta delle Great Resignation, fenomeno che assume appellativo americano perché pare sia nato proprio negli USA; almeno dubbia, però, ne è la diretta relazione con le copiose dimissioni italiane, se non altro per il distantissimo sistema che governa i rapporti di lavoro nei 2 Stati.

In Italia i frequenti cambi di casacca degli ultimi tempi hanno invertito il paradigma delle “bandiere aziendali”, nutrito dall’endorsement del lavoro fisso; spingendo soprattutto, ma non solo, i giovani verso la ricerca di nuove esperienze. Una vera e propria ricerca della precarietà.

Al cospetto di questo scenario, una prima conseguenza apprezzata dai lavoratori interessati è la spinta all’aumento dei salari, generante un potere d’acquisto che potrebbe trasformarsi presto in denaro nuovamente immesso nel mercato; confinando, per contro, ai margini le aziende proponenti sistemi salariali inadeguati alla concorrenza di settore.

Non solo, un’ulteriore conseguenza delle grandi dimissioni riflette una revisione delle condizioni di vita. La corsa alle opportunità di conciliazione con il lavoro evidenzia grande interesse per la possibilità di svolgerlo almeno parzialmente da casa, incrementando il tempo dedicato a famiglia e interessi.

In ogni caso, non va sottaciuto che residuano numeri importanti di lavoratori working poor caratterizzati da limiti di competenza o di età, che perennemente subiscono la scarsa spendibilità nel mercato e che non possono comunque giovarsi dei risvolti positivi sopra elencati, verso i quali, comunque, non è possibile a oggi perpetuare indifferenza.

Alla luce di quanto esposto, lo strumento di gestione calato su misura su questo nuovo mercato del lavoro potrebbe essere il contratto a tempo determinato. Si assuma che il contratto a termine rappresenta il rapporto più tutelato in assoluto lungo tutta la sua durata, l’esclusione delle potenziali risoluzioni di tipo economico rassicura, infatti, il lavoratore, garantendo un’inviolabilità dell’accordo che forse pesa più nel limite alle dimissioni ante tempus, piuttosto che nell’incertezza di una proroga al termine apposto.

Difficilmente le caratteristiche del contratto a tempo determinato attrarranno il sentiment del sindacato, ma la crisi della rappresentanza sempre più acuta plastifica una situazione ove proprio i lavoratori interessati dall’attuale mondo del lavoro apprezzano più la tutela delle indennità a sostegno del reddito, piuttosto che quelle offerte dalla contrattazione collettiva o dalla tutela del conflitto (la ritrita situazione dei riders ne è l’esempio lampante). Alla luce di questo assunto, il lavoratore rischia di divenire impermeabile agli stimoli del sindacato.

Necessario capire dove intervenire per rendere più fruibile la contromossa alle dimissioni, rappresentata da uno strumento ben noto, ma necessariamente da adattare alle mutevoli, e talvolta imprevedibili, esigenze descritte.

L’acausalità, ad esempio, oltre a essere apprezzata da parte datoriale, può stimolare la nascita di rapporti dalla durata solida per il periodo utile alle parti per valutare il reciproco apprezzamento, per contro, la virata verso il sistema delle causali, anche di matrice contrattuale, innesca sicuramente il rischio contenzioso, con un onere della prova diabolica a totale carico datoriale.

La spinta all’estensione dell’acausalità fino ai 24 mesi non potrà che giovare al mercato per come si è autonomamente assestato, secondo una mano invisibile che l’ha guidato verso un sistema di rapidi cambi casacca per i lavoratori giovani e la ricerca della stabilità per gli ultracinquantenni, sfondando il muro invalicabile delle massime tutele al licenziamento. Oggi il metodo di cessazione più diffuso si manifesta nelle dimissioni, non nel recesso per mano datoriale.

La stagionalità definita per decreto veicolerebbe, inoltre, un utilizzo genuino del contratto a tempo, sopperendo alla palese inadeguatezza della contrattazione collettiva sul punto e su interi settori dal dubbio.

La questione del costo maggiorato del contratto a termine rispetto al competitor indeterminato, tra tutte, a mio avviso, risulta quella che cuba meno interesse tra gli imprenditori, posto che, a fronte della certezza del termine che scansa il contenzioso, il male minore è sicuramente il contributo aggiuntivo, anche incrementato da rinnovi e proroghe.

Sintetizzando, serve un contratto a termine snello e un contingentamento misurato sulla base delle conferme a tempo indeterminato, così le grandi dimissioni avranno dimostrato che nel confronto tra il punto di vista dei virtuosi della flessibilità e quello dei detrattori della precarietà la spunteranno i lavoratori a cui interessa solamente la ricerca della felicità.

 

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