Potere di variazione unilaterale delle mansioni e il nuovo art.2103
di Luca Vannoni
La riforma dell’art.2103 cod.civ. da parte del D.Lgs. n.81/15 ha introdotto nuovi principi nella regolamentazione delle mansioni, che consentono in via generale una variabilità molto più estesa, con una disciplina specifica anche nel caso di adibizione a mansioni inferiori. La novità richiede tuttavia un riscontro dal punto di vista operativo, verificando come l’impianto normativo risponde e che soluzioni offre alle esigenze organizzative e gestionali della forza lavoro.
Superamento dell’equivalenza e l’esclusivo riferimento ai livelli contrattuali
Con l’approvazione del D.Lgs. n.81/15, a decorrere dal 25 giugno 2015, in virtù di quanto disposto più specificatamente dall’art.3, è in vigore una nuova disciplina delle mansioni, derivante dalla profonda opera di riscrittura dell’art.2103 cod.civ., norma, come è noto, di riferimento sulla materia.
Analizzando brevemente le principali novità, innanzitutto emerge come sia stato superato il criterio dell’equivalenza professionale come limite alla variazione delle mansioni: il margine per il mutamento oggi è definito esclusivamente dal “livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.
Ne consegue che tutte le mansioni ricomprese nel livello contrattuale del lavoratore risultano essere esigibili dal datore di lavoro, sempre che si riferiscano alla categoria legale posseduta dal lavoratore (operaio, impiegato, quadro e dirigente).
Come giustamente è stato osservato in dottrina, “il bene tutelato non è più la professionalità del lavoratore intesa nel senso elaborato dalla giurisprudenza tradizionale, bensì la posizione da lui occupata in azienda in ragione della categoria di inquadramento alla quale appartiene” (F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”, n.257/15).
La nuova disciplina trova un’importante precedente nel pubblico impiego, dove il D.Lgs. n.165/01, art.52, riconosce come unico criterio di variabilità l’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita dal lavoratore.
Lo strappo rispetto alla disciplina previgente è evidente: in base al testo in vigore fino al 24 giugno 2015, la giurisprudenza, in linea generale, verificava l’equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non solo in astratto in riferimento al livello di inquadramento, ma con una forte attenzione alla tutela della specifica competenza tecnico professionale del dipendente e alla salvaguardia del livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità e di arricchimento del bagaglio di conoscenze del lavoratore (si veda Cass. SS.UU. n.25033/06, dove si è affermato che possa aversi demansionamento anche quando le mansioni nuove e quelle anteriori rientrino nella medesima qualifica contrattuale, purché quelle nuove compromettano la professionalità già raggiunta).
La disciplina oggi vigente semplifica le scelte aziendali organizzative e comprime lo spazio interpretativo della giurisprudenza, limitato al rispetto della categoria legale e dell’inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva. Quest’ultimo, tradizionalmente legato alla determinazione del trattamento retributivo, ora acquista una nuova fondamentale funzione nel guidare il datore di lavoro al mutamento delle mansioni dei lavoratori.
In chiave dinamica, la contrattazione collettiva con tutta probabilità terrà in debito conto il nuovo ruolo, con la definizione di livelli molto più omogenei al loro interno. Al momento, tra i principali Ccnl, solo quello del settore Chimica industria è caratterizzato da una struttura vicina alle nuove logiche. L’art.4, capitolo IV, Ccnl Chimica industria, inquadra i lavoratori in un’unica scala classificatoria, composta da 6 categorie, nell’ambito delle quali sono previste distinte posizioni organizzative che includono mansioni contrattualmente considerate equivalenti. In molti altri settori si è preferito utilizzare classificazioni a maglie larghe e molto meno strutturate (si veda il Ccnl Terziario Confcommercio): nei settori regolamentati da tali contratti oggi è estremamente ampia la possibilità di variare le mansioni dei lavoratori, non avendo più alcuna rilevanza l’equivalenza professionale valutata sulla figura del lavoratore.
Forse l’aspetto più complicato riguarderà l’interpretazione delle categorie legali, previste dall’art.2095 cod.civ. nelle figure dei dirigenti, dei quadri, impiegati e operai. A partire dagli anni ’80, con l’introduzione dell’inquadramento unico dei lavoratori da parte della contrattazione collettiva, le categorie legali avevano perso oramai gran parte della loro funzione operativa: ora, stante il loro carattere aperto, sicuramente potranno determinare dubbi interpretativi di non semplice soluzione in quelle zone di confine ovvero in caso di mansioni promiscue.
La perdita di attualità delle categorie legali si riscontra anche dall’assenza di orientamenti giurisprudenziali recenti sul tema: risalendo nel tempo, si segnala l’interessante sentenza della Cassazione n.3106/90, dove si affermò che “ai fini della distinzione tra la categoria operaia e quella impiegatizia (da effettuarsi anche alla stregua della specifica disciplina contrattuale applicabile al rapporto), non è decisivo il carattere intellettuale o manuale dell’attività lavorativa ma il grado di collaborazione del lavoratore con l’imprenditore, con la conseguenza che deve definirsi operaio chi esplica attività che ineriscono al processo produttivo e si mantengono nella sfera della semplice esecuzione e non implicano esercizio di discrezionalità o di poteri decisionali, senza che tale attività possa assumere carattere impiegatizio per il semplice fatto di non essere esclusivamente manuale o perché involga un qualche compito di vigilanza o di controllo su altri operai in ordine agli aspetti meramente esecutivi del lavoro; va, invece, definito impiegato colui che svolge un’opera inerente al processo organizzativo tecnico-amministrativo dell’impresa e riconducibile a quei compiti di organizzazione, promozione, direzione e vigilanza che sono concettualmente propri dell’imprenditore”.
La presenza di attività non meramente manuali (si pensi al magazziniere che, oltre a movimentare merci, si occupi anche di registrare tali attività) non determina il perfezionarsi della categoria impiegatizia, purché le mansioni complessivamente rimangano nella sfera della “semplice esecuzione”. Sicuramente tali attività dovranno essere tenute in considerazione nel momento della definizione del livello contrattuale, ma non saranno preclusive, nel caso in cui il datore di lavoro intenda variare le mansioni del lavoratore all’interno del livello di assegnazione, ovvero a quello inferiore, nel rispetto delle condizioni previste dal nuovo co.2, art.2103 cod.civ..
Ad ogni modo, quasi a conferma della parabola discendente della tutela della professionalità rispetto alle esigenze aziendali, la cui realizzazione, è bene ricordarlo, è il primo strumento di salvaguardia dei posti di lavoro e, ovviamente, per lo sviluppo di politiche espansive della forza lavoro, si richiamano i recenti approdi giurisprudenziali in materia di mansioni, riferite alla disciplina previgente dall’art.2103 cod.civ., in particolare la recente sentenza della Cassazione n.23945 del 24 novembre 2015, relativa al ricorrente tema della diminuzione dei compiti e delle responsabilità.
Legittimità della riduzione delle mansioni per esigenze organizzative: gli esiti giurisprudenziali
In particolare, nella sentenza sopra richiamata, la Suprema Corte ha affermato che “specialmente nel momento in cui esigenze organizzative e produttive inducano mutamenti soggettivi nella titolarità del rapporto di lavoro, con incorporazioni o fusioni societarie, oppure con cessioni d’azienda o di singoli rami, è frequente che nelle categorie e qualifiche più alte, nelle quali l’attribuzione delle mansioni più facilmente si basa sull’intuitus personae, si possono avere diminuzioni di compiti e di responsabilità non gratificanti ma neppure contrastabili in sede giudiziaria, onde non frustrare operazioni economiche, legittimamente perseguite nell’esercizio del potere di gestire l’impresa e, se occorra, di risanarla in tutto o in parte”.
A supporto della propria decisione, dopo aver ammesso la possibilità di demansionamento anche all’interno della medesima qualifica contrattuale, la Cassazione ha richiamato i principali precedenti giurisprudenziali in cui sono messi in risalto i margini di legittimità alla variazione delle mansioni da parte del datore di lavoro.
Innanzitutto ricorda come non sia sindacabile l’esercizio discrezionale di variare il contenuto delle mansioni sotto il profilo dell’opportunità, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art.41 Costituzione (Cass. n.9251/10). Le scelte discrezionali del datore di lavoro incontrano un limite solo in riferimento al diritto del lavoratore a non subire una “vessatoria sottrazione di mansioni, tale da impoverire il suo patrimonio di conoscenze professionali o da mortificarlo e così da portare anche ad una violazione del principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c.” (Cass. n.8596/07; recentemente la Cassazione ha ribadito tale principio con la sentenza n.23698/15).
Ne consegue che – continua il ragionamento della Cassazione – non tutte le sottrazione di singoli compiti, nell’ambito della qualifica professionale di appartenenza, determinano una violazione dell’art.2103 cod.civ. (versione previgente), ma solo quelle che alterino i tratti essenziali delle competenze raggiunte dal lavoratore (Cass. n.10091/06; Cass. n.9119/15).
Pertanto, decidendo la causa, ha ritenuto non sussistere demansionamento ai sensi dell’art.2103 cod.civ. nel caso di conservazione delle mansioni non dirigenziali proprie dell’addetto all’ufficio legale di una banca, con la sola perdita del potere di firma degli atti di gestione dei rapporti giuridici sostanziali, dovuta all’inserimento dell’azienda bancaria in altra di più ampie dimensioni.
Legittimità della riduzione delle mansioni per esigenze organizzative: l’evoluzione normativa
Il Legislatore della riforma, tenuto conto di quanto sviluppatosi in giurisprudenza, ha dotato di un’espressa regolamentazione l’adibizione a mansioni inferiori. Ovviamente, il carattere inferiore ora è determinato solo dall’appartenenza delle nuove mansioni a un livello inferiore nella contrattazione collettiva.
In particolare, il co.2, art.2103 cod.civ., prevede la possibilità, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, di assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale.
Ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni del livello di inquadramento inferiore possono essere previste dalla contrattazione collettiva, di qualunque livello, anche aziendale (anche non di prossimità).
L’espressione utilizzata, “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, è estremamente generica: l’importante è che vi sia un meccanismo causale che porta consequenzialmente alla riduzione delle mansioni del lavoratore. A tutela del lavoratore, il co.5, art.2103 cod.civ., prevede la conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo. Per potere incidere su tali elementi, il co.6, art.2103 cod.civ., richiede la sottoscrizione di accordi individuali nelle sedi protette prevista dall’art.2113, co.4 cod.civ., ovvero avanti alle commissioni di certificazione.
Nulla è previsto in merito alla durata della variazione peggiorativa delle mansioni e, pertanto, si ritiene che essa possa essere disposta anche a tempo indeterminato. Vero è che il lavoratore ha un teorico diritto a vedersi assegnate le mansioni proprie del livello nel quale è inquadrato, a ricomporre il riallineamento tra inquadramento formale e compiti effettivi, non potendosi modificare unilateralmente l’oggetto definito nel contratto di lavoro: tuttavia, fino al momento in cui non vengano meno le esigenze organizzative che hanno portato al demansionamento, tale diritto non può essere fatto valere. Inoltre, in caso di successive scoperture di organico riguardanti le mansioni originarie del lavoratore, il lavoratore legittimamente demansionato potrebbe far valere il diritto alla riassegnazione, dalla cui lesione si ritiene possano derivare solo effetti risarcitori per la c.d. perdita di chance; certo è che dovrebbe essere anche interesse dell’azienda ricomporre il dato formale a quello effettivo, visto che il demansionamento non si accompagna a una riduzione della retribuzione.
Variazione delle mansioni: elementi accessori
Oltre al rispetto dei criteri sopra indicati, la variazione di mansioni, dello stesso livello o di livello inferiore, deve essere accompagnata dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Solo nel caso di assegnazione a mansioni inferiori il mutamento deve essere comunicato, pena nullità, in forma scritta.
Riguardo alla formazione, il fatto che un eventuale inadempimento non comporti la nullità dell’assegnazione porta a valutare quali ulteriori conseguenze vi possano essere. Se la formazione è necessaria per adeguare la professionalità del lavoratore alle nuove mansioni richieste, in assenza al lavoratore non potrà essere contestata la mancata diligenza nell’esecuzione della prestazione, al fine di sanzionare disciplinarmente eventuali parziali inadempimenti relativi a profili di cui non possiede le competenze ovvero prestazioni imprecise rispetto al risultato atteso. È opportuno evidenziare che l’obbligo formativo riguarda anche il lavoratore, che potrà essere considerato inadempiente e sanzionato disciplinarmente nel caso in cui non presti la necessaria diligenza nella fase di addestramento.
Assegnazione a mansioni superiori
La riforma dell’art.2103 cod.civ. ha riguardato anche l’assegnazione a mansioni superiori, dove è stato raddoppiato il termine massimo, ora pari a 6 mesi previsti espressamente come continuativi, che fa scattare il diritto alla promozione automatica. Come ulteriore novità, il co.7, art.2103 cod.civ., riconosce al lavoratore il diritto a non consolidare in modo definito l’assegnazione a mansioni superiori. Si ritiene che la rinuncia al livello superiore non rientri nella disciplina dell’art.2113 cod.civ. e, quindi, sia valida anche se espressa non in sede protetta, ferma restando l’utilità di tale contesto per evitare eventuali vizi legati alla volontà del lavoratore (es. consenso estorto sotto minaccia di licenziamento).
Questioni operative del nuovo art.2103 cod.civ.
Dopo questa breve analisi della disciplina attualmente in vigore, si considerano una serie di situazioni operative, brevemente accennate in precedenza, valutando le opzioni percorribili.
Entrata in vigore del nuovo testo dell’art.2103 cod.civ.
La prima questione da affrontare riguarda l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art.2103 cod.civ., in particolare se possa essere applicato a demansionamenti iniziati prima del 25 giugno 2015: sul punto attualmente si registrano due indirizzi. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 settembre 2015, ha ritenuto applicabile la norma novellata anche ai rapporti di lavoro già in corso alla data della sua entrata in vigore, anche rispetto a mutamenti di mansioni disposti prima del 25 giugno 2015 e ancora in atto dopo quella data. Il demansionamento, infatti, è stato considerato come “una sorta di illecito permanente”. Conseguentemente, la legittimità della variazione delle mansioni “va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno; con l’ulteriore conseguenza che l’assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo”.
Di diverso avviso è il Tribunale di Ravenna, sentenza 22 settembre 2015, dove è stato stabilito che “la nuova normativa […] non si può applicare alla fattispecie perché il fatto generatore del diritto allegato al giudizio (il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente. Ed il fatto che segna il discrimine tra una normativa e l’altra è proprio il prodursi del demansionamento”.
Tale situazione paradossale evidenzia ancora una volta le inutili problematiche che derivano dalla latitanza del Legislatore odierno a regolamentare il diritto transitorio e intertemporale, anche perché entrambe le sentenze operano legittime e motivate ricostruzioni interpretative.
Inquadramento o variazione in mansioni non previste dalla contrattazione collettiva
La seconda complessa problematica che può essere necessario gestire riguarda le mansioni e le qualifiche professionali non regolamentate dalla contrattazione collettiva, sia nel caso di determinazione della prestazione al momento dell’assunzione sia in occasione di una successiva variazione.
In tali situazioni non si può che procedere con valutazioni che si basino su un giudizio di equivalenza, fermo tuttavia agli aspetti di inquadramento contrattuale e non legato alla tutela della professionalità del lavoratore: l’integrazione alla declaratoria contrattuale ben potrebbe essere effettuata anche mediante atto unilaterale del datore di lavoro, come può essere il regolamento aziendale, soprattutto nel caso di variazione successiva all’assunzione.
Ovviamente, è sicuramente consigliabile un accordo sindacale aziendale, volto a comprovare l’oggettività dell’integrazione operata, soprattutto se le mansioni non previste dal contratto collettivo riguardano un’attività quantitativamente rilevante nel contesto aziendale.
Assegnazione a mansioni promiscue
L’assegnazione a mansioni promiscue, soprattutto se di livelli diversi, nel momento di instaurazione del rapporto di lavoro richiede attenzione al fine di definire il livello contrattuale di inquadramento.
Qualora la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l’individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore occorre avere riguardo alle mansioni maggiormente qualificanti, purché svolte in misura quantitativamente significativa (Cass. n.23612/15, n.26978/09 e n.6303/11).
Il problema si complica nel caso in cui si prospetti la necessità di operare una variazione alle mansioni promiscue, spacchettabili su due livelli di inquadramento: fermo restando il mantenimento del livello, si ritiene possibile adibire il lavoratore anche a mansioni diverse, che rientrino nel livello dove risultano essere collocate quelle inferiori, purché non vengano eliminate le mansioni di livello superiore che hanno determinato l’inquadramento: in tal caso la variazione non è più libera, ma deve trovare giustificazione nella modifica degli assetti organizzativi aziendali.
Variazione delle mansioni per evitare il licenziamento del lavoratore
In materia di licenziamento per motivo oggettivo, la giurisprudenza ha introdotto ormai da molti anni il c.d. obbligo di repêchage, in base al quale il datore di lavoro, prima di procedere con il licenziamento, deve verificare che il lavoratore non possa essere reimpiegato in altre mansioni scoperte in azienda.
L’estensione della verifica del datore di lavoro è condizionata dalle mansioni esigibili del lavoratore: il nuovo testo dell’art.2103 amplia notevolmente i margini di verifica, visto che anche le mansioni inferiori, nel limite del livello immediatamente inferiore, rientrano tra esse. In base al testo previgente dell’art.2103 cod.civ., l’orientamento prevalente in giurisprudenza limitava il repêchage alle mansioni equivalenti, ferma restando la possibilità che il lavoratore prospettasse disponibilità all’assegnazione a mansioni inferiori.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”.