Decreto Trasparenza: come cambia il periodo di prova
di Paolo BoniniIl D.Lgs. 104/2022 (Decreto Trasparenza) interviene, tra l’altro, sulla regolamentazione del patto di prova nel rapporto di lavoro subordinato. In ossequio alla Direttiva UE 2019/1152 ne fissa la durata massima, cristallizzando poi alcuni principi affermatisi nella giurisprudenza in relazione ai rapporti a tempo determinato, alla possibilità di reiterazione del patto di prova, agli eventi che ne sospendono il decorso.
Il patto di prova nel Decreto Trasparenza
L’articolo 7, D.Lgs. 104/2022, interviene sul patto di prova disponendo che, per il settore privato:
- la durata massima del periodo di prova non possa superare i 6 mesi, fatta salva la durata inferiore eventualmente fissata dalla contrattazione collettiva;
- nel rapporto a tempo determinato, la durata del periodo di prova debba essere stabilita in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere “in relazione alla natura dell’impiego”;
- in caso di rinnovo di un contratto che preveda lo svolgimento delle medesime mansioni, il rapporto non potrà essere soggetto a un nuovo periodo di prova.
Caratteristiche fondamentali del patto di prova
Come noto, con il patto di prova, le parti del contratto individuale di lavoro concordano di subordinare la definitiva instaurazione del rapporto al positivo esito di un iniziale periodo in cui esse ne verificano la reciproca convenienza. In sintesi, durante il periodo di prova, il lavoratore valuta le condizioni di lavoro a lui offerte, mentre il datore di lavoro verifica le competenze specifiche del lavoratore in relazione alle mansioni da svolgere e la capacità di quest’ultimo di integrarsi positivamente nell’ambiente di lavoro. In proposito, la Corte d’Appello di Milano n. 746/2015 ammette che il patto, necessariamente redatto in forma scritta, a pena di nullità ai sensi dell’articolo 2096, cod. civ., possa prevedere esplicitamente che formino oggetto (esplicitato nel patto scritto) della prova non solo la capacità tecnica di svolgere le mansioni assegnate al lavoratore, ma anche le sue capacità relazionali con i colleghi, i collaboratori e i superiori.
La caratteristica precipua del patto di prova, a norma dello stesso articolo 2096, cod. civ., è la possibilità, riconosciuta a entrambe le parti, di recedere dal rapporto in qualunque momento, senza obbligo di preavviso e senza fornire giustificazioni. I contratti collettivi possono prevedere una limitazione alla libera recedibilità fissando un “tempo minimo necessario” per lo svolgimento della prova.
Trascorso il periodo di prova, il rapporto si instaura definitivamente e il lavoro prestato si computa nell’anzianità di servizio.
Durata massima
L’articolo 7, Decreto Trasparenza, dando attuazione all’articolo 8, Direttiva UE 2019/1152, stabilisce che la durata massima del periodo di prova non possa superare i 6 mesi, facendo salva la durata inferiore eventualmente stabilita dai contratti collettivi. Per la verità, analoga disposizione è già presente nell’ordinamento: l’articolo 4, R.D.L. 1825/1924, con riferimento all’impiego privato, stabilisce che il periodo di prova non possa superare i 6 mesi con riguardo agli “institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti”, mentre per “tutte le altre categorie di impiegati” la durata massima non può superare i 3 mesi.
In ambito nazionale, la durata massima del periodo di prova è stabilita dai contratti collettivi. La giurisprudenza ha ammesso una durata superiore a quella stabilita dai contratti, a condizione che ciò realizzi un interesse del lavoratore (Cassazione n. 9789/2020), o anche per mansioni di particolare complessità, con onere della prova a carico del datore (Cassazione n. 8295/2000). In mancanza di tali condizioni, la durata del periodo di prova è sostituita di diritto con quella contrattuale. Stessa possibilità è contemplata anche dalla Direttiva; ciononostante, il Legislatore italiano si è limitato all’introduzione del limite massimo.
Pertanto, si deve ritenere che l’eventuale superamento del periodo di prova fissato dal contratto collettivo in presenza di un interesse del lavoratore sia, dal 13 agosto 2022, data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, ammissibile solo nel limite massimo di 6 mesi.
Ricordiamo che la giurisprudenza ha ritenuto legittimo il prolungamento del periodo di prova inizialmente fissato in misura inferiore a quella prevista al contratto collettivo allo scopo di adeguarlo a quest’ultimo (Cassazione n. 5677/2013).
Rapporti a tempo determinato e durata del periodo di prova
Il comma 2 del citato articolo 7, D.Lgs. 104/2022, dispone che nel rapporto a tempo determinato il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. Come noto, l’applicazione pratica di tale disposizione non è agevole, dal momento che il Legislatore non ha fornito un preciso criterio per la determinazione della durata periodo di prova e non sono molti i Ccnl che si occupano della questione (ad esempio, il Ccnl Legno e arredamento industria). Il principio della durata proporzionale del periodo di prova era stato in più occasioni affermato dalla giurisprudenza, che lo aveva collegato unicamente alla durata del rapporto.
Il criterio oggi indicato dal Legislatore, tenendo conto della Direttiva UE, è, invece, duplice: non solo la durata del rapporto, ma anche le mansioni e la “natura dell’impiego”. Mentre il primo criterio sembra di più immediata applicabilità, il secondo appare più oscuro, per quanto non si possa dubitare della sua ragionevolezza. È, infatti, indubbio che, se il periodo di prova ha la funzione, dal punto di vista innanzitutto datoriale, di valutare le specifiche capacità del lavoratore proprio in relazione alle mansioni affidate, la complessità delle mansioni stesse ne possa influenzare la durata. È intuitivo, peraltro, che tale valutazione sia suscettibile di generare un ampio contenzioso nella misura in cui possa essere ricondotta all’arbitrarietà del datore di lavoro.
Come da più parti osservato, la conseguenza naturale di tale approccio legislativo è quella di affidare la soluzione alla contrattazione collettiva, che risulta indirettamente invitata a occuparsi della questione quanto prima.
Nel frattempo, alla ricerca di un criterio il più possibile oggettivo, si potrebbe operare privilegiando l’aspetto relativo alla durata del rapporto, rivolgendosi, solo in seconda battuta e quando il risultato non sia soddisfacente, all’aspetto relativo alla mansione. Il metodo qui proposto dovrebbe servire più a rendere chiari i termini della questione che a fornire indicazioni operative specifiche, dal momento che le decisioni concrete in materia non potranno che essere assunte avendo riguardo alla specifica situazione che ci si trovi di volta in volta ad affrontare.
I contratti collettivi generalmente fissano la durata del periodo di prova, per i rapporti a tempo indeterminato, in relazione al livello di inquadramento del lavoratore.
In generale, la durata del rapporto a termine non può superare i 24 mesi, tralasciando, sempre in ottica prudenziale, la possibilità dell’ulteriore contratto della durata massima di 12 mesi, stipulabile presso l’ITL (articolo 19, D.Lgs. 81/2015).
Pertanto, possiamo affermare che i periodi di prova stabiliti dai contratti sono indubbiamente adeguati a rapporti di lavoro di durata pari ad almeno 24 mesi e un giorno, atteso che tali rapporti sarebbero a tempo indeterminato.
Su queste basi, la seguente ipotesi:
- periodo di prova già previsto dal Ccnl per il tempo pieno: 3 mesi;
- durata massima contratto a termine: 24 mesi;
- 24/3=8, un mese di prova ogni 8 mesi di contratto;
- 30 giorni/8= 3,75 giorni di prova per ogni mese di contratto, da arrotondare a 4 giorni.
Risulta evidente che, minore sarà la durata del rapporto a termine, minore sarà la durata del patto di prova; ma sarà anche minore la probabilità che il periodo di prova, così calcolato, sia effettivamente adeguato a un’effettiva valutazione delle capacità del lavoratore. In tali casi, si potrà procedere ad aumentarne la durata, mettendola in relazione alle mansioni, secondo le caratteristiche del caso specifico. Non si tratta, ovviamente, di una soluzione, ma di un criterio che dovrebbe ridurre, se non il contenzioso, le eventuali censure volte a classificare come illegittima e arbitraria la durata del periodo di prova.
La reiterazione del periodo di prova
Ancora l’articolo 7, comma 2, D.Lgs. 104/2022, stabilisce che, in caso di rinnovo di un contratto a termine per lo svolgimento delle stesse mansioni, il successivo rapporto di lavoro non può essere soggetto a un nuovo periodo di prova.
Anche a questo proposito la norma cristallizza un orientamento giurisprudenziale, sebbene non univoco. Molte pronunce giurisprudenziali, infatti, hanno sancito la nullità del patto di prova ripetuto per lo stesso lavoratore e per le stesse mansioni, anche quando l’impiego precedente non fosse diretto, ma in somministrazione, in distacco, in caso di cambio di appalto o di trasferimento del lavoratore tra aziende facenti capo alle stesse persone (Cassazione n. 15059/2015, Cassazione n. 7167/2017). L’ammissibilità di un patto di prova successivo era limitata alla circostanza che tra i diversi rapporti di lavoro vi fosse un radicale (e consensuale) cambiamento nelle mansioni richieste al lavoratore. Non sono mancati, tuttavia, pronunciamenti di segno differente, secondo i quali l’apposizione del patto di prova è stata ritenuta legittima anche a fronte di un rapporto di lavoro che contemplasse lo svolgimento di mansioni analoghe a quelle in precedenza espletate presso il medesimo datore di lavoro, ove fosse accertata la sussistenza di ragioni che giustificassero l’utilità del ricorso al patto di prova per una verifica ulteriore rispetto a quella relativa alle qualità professionali (Cassazione n. 7984/2020). Non solo: Cassazione n. 8237/2015 ammette il patto di prova in 2 successivi contratti di lavoro, dovendosi riconoscere come, nel corso del tempo, possano intervenire molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute; Cassazione n. 28252/2018, analogamente, ricollega la legittimità della reiterazione del patto di prova, qualora sia funzionale a verificare la persistenza di quegli elementi della condotta suscettibili di modificarsi nel tempo, nonché la permanenza delle condizioni utili alla prestazione e al sereno svolgimento della stessa.
Resta da vedere se tali ultimi orientamenti possano essere confermati, alla luce di una norma che non li contempla, limitandosi a sancire l’impossibilità di ripetere il periodo di prova qualora le mansioni siano le stesse.
Il prolungamento del periodo di prova
Infine, l’articolo 7, comma 3, D.Lgs. 104/2022, dispone il prolungamento del periodo di prova quando intervengano particolari eventi, che determinano l’impossibilità della prestazione. La norma individua esplicitamente i seguenti casi:
- malattia;
- infortunio;
- congedo di maternità o paternità obbligatori.
Anche su questo aspetto vi sono precedenti giurisprudenziali, che si esprimono nel senso di ammettere la sospensione del periodo di prova quando la prestazione non è effettuata a causa di eventi non prevedibili (quindi, ne sono esclusi i giorni di riposo e le festività) e a condizione che i contratti collettivi non si esprimano in senso contrario in relazione a particolari eventi. Tali pronunce giurisprudenziali fanno riferimento anche a ulteriori eventi, quali lo sciopero o anche le ferie e i permessi (Cassazione n. 4573/2012, Cassazione n. 19043/2015).
Si discute, in questi giorni, se eventi diversi da quelli indicati espressamente dalla nuova norma possano dare luogo alla prosecuzione del periodo di prova; in altre parole, se l’elencazione contenuta nella norma sia tassativa. Non è di questo avviso il Ministero del lavoro, che, nella circolare n. 19/2022, diffusa lo scorso 20 settembre, dichiara espressamente che il richiamo normativo deve intendersi come “meramente esemplificativo”, ritenendo che il prolungamento del periodo di prova si determini anche “in tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992 (cfr. Cass. n. 4573 del 22 marzo 2012 e Cass. n. 4347 del 4 marzo 2015)”.
Invero, la posizione del Ministero sembra condivisibile: il perno delle pronunce giurisprudenziali in materia è il riferimento alla “finalità del periodo di prova”, che, in mancanza di un prolungamento corrispondente, è vanificata da tutte le assenze non prevedibili, non solo da quelle espressamente richiamate dall’articolo 7, comma 3, D.Lgs. 104/2022.
Anche il dato letterale della stessa disposizione depone in questo senso, in verità:
“3. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza”.
L’aggettivo relativo “quale”, infatti, ha lo scopo di introdurre un’esemplificazione, avendo il significato di eventi “come”, “che abbiano la qualità di…”, tale, appunto, da interrompere imprevedibilmente l’esperimento del periodo di prova.
Ulteriori indicazioni giurisprudenziali utili in materia di periodo di prova
La validità del patto è subordinata alla chiara indicazione delle mansioni affidate (Cassazione n. 17045/2005); in mancanza, il patto si considera nullo, derivandone l’automatica conversione del rapporto (Cassazione n. 21698/2006); la specificazione delle mansioni può avvenire anche mediante rinvio al sistema classificatorio del contratto collettivo (Cassazione n. 1957/2011, Cassazione n. 17587/2013), purché il richiamo sia fatto alla nozione maggiormente dettagliata tra quelle presenti nel contratto collettivo stesso (Cassazione n. 9597/2017, Cassazione n. 16587/2017).
Il licenziamento intimato con periodo di prova nullo in un rapporto a tempo determinato soggiace alla procedura ordinaria di licenziamento, ossia alla disciplina dell’articolo 18, L. 300/1970, se il datore di lavoro non dimostra l’insussistenza del requisito dimensionale; altrimenti, si applica la disciplina di cui alla L. 604/1966 (Cassazione n. 17921/2016).
Naturalmente, la prova è valida se le mansioni effettivamente svolte sono quelle indicate nel patto; altrimenti, l’esito negativo a fondamento del recesso non sarà invocabile (Cassazione n. 2357/2003). Tuttavia, in tal caso (Tribunale di Roma, 22 gennaio 2021), non si applica la disciplina ordinaria in materia di licenziamento, avendo il lavoratore diritto a proseguire la prova, ove possibile, o al risarcimento del danno. Per altro verso, nel caso di svolgimento di mansioni ulteriori, l’invocazione dell’esito negativo è illegittima se emerge che dallo svolgimento di tali mansioni, sotto profili sia quantitativi che qualitativi, deriva mutamento dell’oggetto complessivo della prestazione (Cassazione n. 15432/2001).
In generale, il recesso datoriale durante il periodo di prova incontra 2 limiti: l’adeguatezza della durata del periodo di prova e l’assenza di un motivo illecito alla base del recesso.
L’impugnazione del recesso da parte del lavoratore dev’essere sorretta dalla prova (a carico del lavoratore stesso) circa l’inadeguatezza della prova, il positivo esperimento della prova stessa, un motivo illecito o estraneo all’esperimento della prova (Cassazione n. 1180/2017), senza che l’obbligo di motivazione eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva si debba tradurre in un’inversione dell’onere a carico del datore (Cassazione n. 26679/2018)
Il recesso datoriale per motivo illecito (cioè, non coerente con la causa del contratto) determina o la prosecuzione della prova, ove possibile, o il diritto al risarcimento del danno. L’onere della prova del motivo illecito grava sul lavoratore (Cassazione n. 31159/2018, Cassazione n. 18268/2018).
In caso di dimissioni per giusta causa durante la prova non spetta al lavoratore l’indennità di preavviso, ma solo il risarcimento del danno pari alla retribuzione fino al termine della prova (Cassazione n. 17423/2021).
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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