Il danno pensionistico per omissioni contributive prescritte: profili di responsabilità del datore di lavoro in caso di omissioni contributive
di Paolo Bonetti - avvocato InpsIn caso di omesso versamento contributivo da parte del datore di lavoro, una volta decorso il termine quinquennale di prescrizione e spirati i termini per eventualmente chiedere la costituzione della rendita vitalizia in base alla L. 1338/1968, al lavoratore spetta un’ultima soluzione, rappresentata dall’azione di risarcimento danni – da promuovere nei confronti del datore inadempiente – ai sensi dell’articolo 2116, cod. civ.. Il presente contributo cerca di evidenziarne gli aspetti oggettivi e soggettivi e le problematiche che possono sorgere a livello procedurale.
Premessa
Il lavoratore dipendente ha un vero e proprio diritto soggettivo al regolare versamento dei contributi a proprio favore da parte datoriale, volto a costituire – tendenzialmente – l’integrità della posizione assicurativa.
L’instaurarsi del rapporto di lavoro fa nascere contemporaneamente 2 ulteriori tipologie di rapporti:
- da un lato, sorge il rapporto assicurativo tra datore di lavoro ed ente previdenziale, con il primo che è tenuto a corrispondere e denunciare mensilmente i contributi dovuti all’Inps;
- dall’altro, vi è il rapporto previdenziale in senso stretto, o rapporto “prestazionale”, con l’Istituto di previdenza, che è tenuto a erogare le prestazioni a favore degli assicurati quando ricorrono determinati requisiti (contributivi, anagrafici, reddituali).
Il mancato versamento dei contributi da parte datoriale comporta un correlativo nocumento in capo al prestatore di lavoro subordinato, a favore del quale l’ordinamento appresta una serie di rimedi cui si può ricorrere a seconda della natura del danno, del momento temporale in cui viene scoperta l’omissione contributiva e della documentazione che il prestatore stesso può vantare a dimostrazione soprattutto dell’esistenza del rapporto di lavoro.
A tutela dell’integrità della posizione contributiva del lavoratore operano soprattutto gli articoli 2115 e 2116, cod. civ., ai quali si affiancano, poi, alcune disposizioni speciali.
Il primo articolo determina il datore di lavoro quale unico responsabile del pagamento dei contributi nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato[1]. Inoltre, l’articolo 2115, comma 3, cod. civ., dichiara nullo qualsiasi patto diretto a eludere, in qualsivoglia modalità, gli obblighi relativi alla previdenza e all’assistenza, sancendo il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione contributiva.
L’articolo 2116, cod. civ. prevede, invece, una tutela per i lavoratori subordinati in caso di omessa copertura assicurativa e contributiva, attraverso il principio dell’automaticità delle prestazioni[2].
Qualora il datore di lavoro non adempia agli obblighi di denuncia e, soprattutto, al conseguente versamento dei contributi a favore dei propri dipendenti, i lavoratori mantengono comunque, grazie all’automaticità, il diritto all’integrale posizione assicurativa (e alle eventuali, connesse, prestazioni), trasferendo il rischio dell’inadempimento e l’onere relativo in capo all’ente previdenziale, alla fondamentale condizione che la contribuzione omessa non sia ancora coperta da prescrizione.
In pratica, attraverso il principio dell’automatismo avviene una vera e propria scissione tra il rapporto contributivo assicurativo (che disciplina i rapporti tra il datore di lavoro e l’Inps) e quello previdenziale (che connette l’Istituto ai lavoratori dipendenti), trasferendo in capo all’ente – creditore della contribuzione omessa – il pregiudizio derivante dal ritardo con cui la contribuzione viene recuperata, a condizione, tuttavia, che l’assicurato fornisca la prova dell’esistenza del rapporto lavorativo con documenti certi e che la contribuzione non sia prescritta[3].
È, dunque, onere del lavoratore verificare la propria posizione contributiva e, ove riscontrata un’eventuale omissione, rivendicare tale inadempienza presso il datore di lavoro, provvedendo, al contempo, a denunciare il mancato versamento dei contributi all’Inps affinché l’Istituto si attivi nel recuperare la contribuzione non ancora prescritta.
Si può ben dire, infatti, che l’interruzione della prescrizione da parte dell’Istituto previdenziale (a ciò sollecitato, magari, dallo stesso lavoratore) consente di ottenere vantaggi ai fini del principio dell’automaticità, lasciando che un’azione volta al risarcimento del danno sia residuale e possa utilizzarsi soltanto in caso di intervenuta prescrizione.
Il danno pensionistico per omissioni contributive prescritte
Ove sia spirato il termine di prescrizione, da ultimo fissato dall’articolo 3, commi 9 e 10, L. 335/1995, in 5 anni[4], il lavoratore può ancora porre riparo alla sua scopertura contributiva con 2 distinti rimedi:
- la richiesta di condanna del datore di lavoro alla costituzione di una rendita vitalizia, ai sensi dell’articolo 13, L. 1338/1962;
- o un’azione di risarcimento danni ex articolo 2116, comma 2, cod. civ., sempre nei confronti del datore di lavoro.
Tralasciando le problematiche e i presupposti inerenti alla costituzione di rendita vitalizia[5], è bene concentrarsi sui profili di responsabilità del datore di lavoro e sulla tipologia di danno che si verifica in capo al lavoratore.
Il danno è rappresentato dalla mancata o parziale prestazione previdenziale che si verificherà nel momento in cui il lavoratore raggiungerà (o avrebbe potuto raggiungere) i requisiti – anagrafici e contributivi – previsti per la pensione[6].
La Suprema Corte ritiene esperibile un’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro soltanto da quando si verifica effettivamente il danno in capo al lavoratore.
Infatti, potendo l’azione risarcitoria stricto sensu essere esercitata soltanto nel momento in cui la definitiva perdita della prestazione previdenziale si determina, prima di quel momento il lavoratore soffre esclusivamente un danno potenziale, in quanto titolare di una posizione assicurativa carente (in caso di parziale omissione contributiva) ovvero del tutto mancante (in caso di totale omissione).
L’azione risarcitoria ex articolo 2116, cod. civ., avrà quale oggetto un danno generico o specifico, a seconda che l’azione venga esperita prima o successivamente alla maturazione dei requisiti per il diritto a pensione.
Ci si spiega meglio.
Qualora un lavoratore rivendichi un determinato periodo in cui si è verificata l’omissione contributiva, coprendo il quale egli avrebbe potuto raggiungere i requisiti per ottenere l’agognata pensione, non potrà che chiedere genericamente il risarcimento dei danni nei confronti del datore di lavoro, potendo il prestatore soltanto comprovare, da un lato, l’esistenza e la durata del rapporto lavorativo (all’interno del quale vi sia stata l’omissione contributiva) e, dall’altro lato, il fatto che, grazie alla copertura con quei contributi (in realtà omessi), egli avrebbe potuto percepire un trattamento pensionistico.
Al contrario, vi sarà una richiesta di risarcimento dei danni specifico laddove il lavoratore maturi, comunque, il diritto a percepire una pensione (di invalidità, di vecchiaia, anticipata), ma la stessa sia di importo inferiore a quello potenzialmente ottenibile, ove i contributi fossero stati regolarmente e integralmente versati in costanza del rapporto di lavoro subordinato.
Si pensi, a mero titolo di esempio, agli straordinari – diurni, festivi, notturni – o a superminimi pagati al lavoratore senza il corrispondente versamento contributivo all’Inps o, ancora, al lavoro festivo o a quello supplementare per i part timers, oppure ai trattamenti meramente retributivi comprendenti l’indennità di trasferta, il rimborso spese, qualificati come tali unilateralmente dal datore di lavoro al solo fine di non corrispondere su dette voci i relativi contributi.
Tra i requisiti indispensabili per poter validamente instaurare l’azione risarcitoria serve il requisito soggettivo, che consiste nella colpa del datore di lavoro, ovverosia dell’autore della condotta illecita.
Partendo dal presupposto che contestualmente al rapporto di lavoro si instaurano i pressoché paralleli rapporti assicurativi e previdenziali, è onere dell’impresa provvedere, da un lato, a presentare le denunce mensili (gli attuali UniEmens) entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello cui i contributi si riferiscono e, dall’altro, a corrispondere all’ente previdenziale i relativi contributi entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento.
In mancanza del tempestivo versamento vengono addebitati ai datori di lavoro morosi o evasori le sanzioni civili (o somme aggiuntive), calcolate rispettivamente secondo il regime dell’omissione o della, più onerosa, evasione, con importi che conseguono alla mancata corresponsione dei contributi e sono predeterminati dalla legge, da ultimo con la L. 388/2000 (articolo 116, comma 8).
Allorquando il versamento dei contributi non si può più effettuare per il decorso del periodo (quinquennale) di prescrizione, da un lato, non si parla più di sanzioni civili (rivendicabili dall’Inps solo per periodi non coperti da prescrizione), dall’altro, la determinazione del relativo quantum si deve effettuare attraverso specifiche quantificazioni e capitalizzazioni, che dipendono da una serie di variabili, che ovviamente cambiano in considerazione del diverso percorso previdenziale di ciascun lavoratore.
Le diverse tipologie di danno
Il danno pensionistico e la relativa quantificazione saranno da calcolare in maniera differenziata per ciascun avente diritto che si duole e rivendica il mancato versamento dei contributi.
Una prima tipologia di lavoratori è rappresentata da coloro che avrebbero potuto ottenere la pensione con il regime retributivo: si tratta, dunque, di coloro che, potenzialmente, avrebbero maturato il diritto a pensione grazie a un accredito contributivo di almeno 18 anni prima del 31 dicembre 1995[7].
Per coloro la cui pensione sia determinabile secondo il criterio retributivo, dunque, si può parlare di danno pensionistico soltanto laddove l’assicurato non abbia raggiunto il requisito contributivo massimo[8].
Al contrario, ove l’assicurato raggiunga il requisito contributivo massimo e la contribuzione non versata non ricada nell’arco temporale di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile, nessuna lesione potrà essere azionata dal lavoratore, il quale si troverà già a godere di un emolumento pensionistico nella dimensione massima e, quindi, non aumentabile con il periodo e la contribuzione omessa, in quanto – lo si ribadisce – riguardante un periodo risalente e non computato nell’arco temporale di riferimento[9].
Alla stessa stregua non potrà rivendicare alcun danno il lavoratore nei confronti del quale non sono stati versati per un determinato periodo i contributi, laddove, pur computando la contribuzione omessa e, magari, facendo ricorso a un’integrazione della propria posizione contributiva attraverso i versamenti volontari o eventuali riscatti consentiti, non raggiunge lo stesso il requisito contributivo minimo per il diritto alla prestazione. E quindi – a titolo di esempio – nel caso di un assicurato che ha una posizione contributiva di 5 anni di contributi versati, il quale scopre che anni addietro un datore di lavoro non gli ha versato ulteriori 3 anni e che, potenzialmente, può anche riscattare una laurea o un periodo di lavoro all’estero per altri 4 anni, ma raggiunge (ipoteticamente) soltanto 12 anni di contribuzione e non gli servono nemmeno ulteriori versamenti volontari se non per ben 8 anni al fine di ottenere quel minimo di 20 anni, che costituisce il requisito contributivo, cui si deve aggiungere quello anagrafico di 67 anni per ottenere la pensione di vecchiaia. E lo stesso è a dirsi per un lavoratore più giovane che ambisca a una pensione di anzianità per la quale sono necessari, allo stato, 42 anni e 10 mesi di contributi, se uomo, e un anno di meno, se donna.
Ne consegue che chi ha un estratto contributivo molto scarno, difficilmente potrà azionare un danno pensionistico per omissioni contributive prescritte, non raggiungendo comunque il potenziale diritto a pensione.
Resta inteso che l’azione risarcitoria potrà, invece, essere promossa, anche nelle appena prospettate e descritte situazioni, qualora la contribuzione presso la Gestione dei lavoratori dipendenti sia sì insufficiente per una pensione autonoma, ma potrebbe essere utilizzata unitamente ad altra contribuzione corrisposta presso altra Gestione pensionistica, attraverso un cumulo[10] o una totalizzazione[11].
Un’altra ipotesi in cui non vi è spazio per un’azione risarcitoria si ha allorquando vi sia stata un’omissione contributiva parziale (intendendo, con questa, le ipotesi in cui il datore di lavoro ha comunque versato i contributi in un determinato periodo per il lavoratore, ma non ha assoggettato a contribuzione alcune voci della retribuzione imponibile) e il lavoratore ha diritto a una pensione calcolata con il sistema retributivo in cui, tuttavia, il periodo oggetto della parziale omissione non viene preso in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione pensionabile.
Al contrario, sarà esperibile un’azione nei confronti del datore di lavoro allorquando il lavoratore possa rivendicare una pensione liquidabile con il regime retributivo e l’arco temporale omesso sia proprio necessario per l’ottenimento del requisito – anagrafico e/o contributivo – per il diritto a pensione.
Alla medesima stregua, l’azione di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro inadempiente potrà essere sempre esperita da parte del lavoratore che ha (potenzialmente) diritto a una pensione calcolata con il regime misto[12] (ovverosia con meno di 18 anni di contributi prima del 31 dicembre 1995) o totalmente contributivo (con versamenti previdenziali che si collocano esclusivamente dopo il 1° gennaio 1996).
Gli aspetti procedurali
L’azione risarcitoria ex articolo 2116, cod. civ., ha natura contrattuale ed è soggetta a una prescrizione ordinaria decennale, che decorre dal momento in cui teoricamente il lavoratore avrebbe avuto diritto a pensione.
Il danno subito dal lavoratore per la perdita della pensione, derivata dall’omessa contribuzione previdenziale da parte del datore di lavoro ex articolo 2116, cod. civ., si verifica – come sopra specificato – al raggiungimento dell’anzianità pensionabile, con la conseguenza che da tale momento decorre il termine decennale di prescrizione del diritto al risarcimento.
Va evidenziato che sulla citata decorrenza non incide il provvedimento di reiezione dell’Istituto previdenziale e, dunque, sarà fondamentale per il lavoratore offrire la dimostrazione che, grazie ai contributi omessi, avrebbe percepito la pensione il cui danno è pacificamente ascrivibile al datore di lavoro negligente.
La causa va promossa innanzi al giudice del lavoro territorialmente competente, ma va evidenziato che – pur non essendoci sostanziali differenze tra un giudizio lavoristico e uno previdenziale – formalmente qui si tratta di una causa di lavoro che deriva da un inadempimento imputabile alla parte datoriale.
In questo si nota la differenza con la controversia promossa dal lavoratore e diretta a ottenere la costituzione della rendita vitalizia, ex articolo 13, L. 1338/1962: quest’ultima, infatti, introduce pacificamente una causa di natura previdenziale, diretta alla reintegrazione della posizione contributiva del prestatore di lavoro per equivalente e prevede il necessario litisconsorzio dell’ente previdenziale, tenuto, in quel caso, sia a esaminare la bontà della documentazione a esso sottoposta dal lavoratore, che – superato positivamente il primo step della prova scritta di data certa ai fini dell’esistenza del rapporto di lavoro – a quantificare l’onere corrispondente alla riserva matematica basata su una specifica capitalizzazione e, versata la quale, la posizione può intendersi effettivamente coperta.
Al contrario, nella causa diretta a ottenere il risarcimento del danno (generico o specifico) causato al lavoratore dal mancato versamento in suo favore dei contributi, a essere evocato in giudizio è soltanto il responsabile di tale ammanco contributivo, ossia il datore di lavoro, con facoltà per quest’ultimo di giustificarsi sia nell’an (per esempio dimostrando che quello rivendicato dal lavoratore non era un rapporto di natura subordinata), sia nel quantum (per esempio evidenziando di aver dato mandato e provvista a un professionista o a un intermediario abilitato che tuttavia non ha presentato le denunce obbligatorie o, fatto ancor più grave, non ha versato i relativi contributi all’Inps, provvedendo a chiedere – in tale ultima ipotesi – di essere manlevato).
Da un punto di vista processuale, al lavoratore sarà sufficiente allegare la prova del periodo effettivamente lavorato presso il datore di lavoro inadempiente, dimostrando, altresì, che, ove fossero stati versati tali contributi, egli avrebbe percepito – con una determinata decorrenza – l’agognata pensione o, in ipotesi di parziale inadempimento, l’avrebbe percepita in una maggiore misura.
Di fatto, dunque, la correlazione tra omissione contributiva e danno pensionistico sussiste senza un particolare ulteriore onere probatorio, soprattutto allorquando la pensione sia determinata in tutto (sistema contributivo) o in parte (sistema misto) con i criteri contributivi per cui il trattamento pensionistico è rapportato agli effettivi versamenti effettuati nel corso dell’intera vita lavorativa.
La determinazione del danno pensionistico
Si è visto sopra che il danno risarcibile coincide con la somma della prestazione non conseguita.
Pertanto, in ipotesi di contributi evasi che non hanno permesso al lavoratore di raggiungere in un determinato momento i requisiti anagrafici o contributivi per la pensione di vecchiaia, di invalidità o anticipata il danno coinciderà con l’intera pensione che sarebbe spettata all’assicurato.
Al contrario, in ipotesi di versamenti soltanto parziali da un punto di vista quantitativo (o, per meglio dire, non completi), il danno coinciderà con la differenza tra quanto liquidato dall’ente previdenziale sulla base degli effettivi versamenti e quanto, invece, sarebbe stato l’importo della pensione ove ci fosse stato un versamento “pieno”.
Ecco, quindi, che si potrà parlare di prestazione non conseguita dall’assicurato, frutto del danno emergente – coincidente con i ratei o le differenze di ratei non percepiti – ma anche di lucro cessante.
La giurisprudenza propende, giustamente, per classificare il credito da risarcimento del danno derivante da omessa o irregolare contribuzione quale obbligazione di valuta e, quindi, suscettibile di rivalutazione.
Precisate sopra le (oggettivamente) scarne prove cui è tenuto il lavoratore in sede giudiziaria, resta da capire come potrà il magistrato quantificare esattamente il danno risarcibile.
Certamente, è da escludersi a priori un risarcimento commisurato agli importi dei contributi omessi: significherebbe umiliare il prestatore di lavoro già danneggiato sotto un profilo previdenziale, ma, soprattutto, graziare il datore di lavoro chiedendogli – a distanza di anni, se non di decenni – importi che avrebbe dovuto versare molti anni prima, ignorando la svalutazione nel frattempo intercorsa.
Appare lungimirante la conclusione spesso adottata di quantificare il danno utilizzando i criteri di calcolo della riserva matematica ai sensi dell’articolo 13, L. 1338/1962. Infatti, in questo caso non si condanna il datore di lavoro inadempiente a corrispondere la provvista contributiva, bensì si obbliga lo stesso a versare degli importi capitalizzati (e rivalutati) tali da garantire al lavoratore un risarcimento che possa ristorarlo per la totale (o parziale) impossibilità di ottenere la giusta pensione dall’ente previdenziale.
Naturalmente, nel quantificare il danno (anche in ottica di rendita indicizzata), il giudice del lavoro sarà tenuto a soppesare se, in fin dei conti, la pensione a quel determinato prestatore (e ricorrente in giudizio) mai spetterà, se il trattamento sarà liquidato con qualche anno di ritardo (per esempio, per il raggiungimento del requisito contributivo per la pensione anticipata in un momento successivo o il dover attendere, a causa della mancata corresponsione dei contributi, l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia) o, infine, se la pensione corrisposta con la corretta decorrenza dall’Inps sia quantitativamente inferiore a quella che sarebbe spettata ove ci fosse stato il pieno versamento dei contributi.
I coefficienti della capitalizzazione sono quelli contenuti nei Decreti Ministeriali attuativi dell’articolo 13, L. 1338/1962, e, quindi, prima il D.M. 19 febbraio 1981 e, successivamente, a far data dal 1° novembre 2007, il D.M. 31 agosto 2007[13].
Ecco, dunque, che sarà necessaria un’opera di parificazione tra la pensione (parziale o totale) pregiudicata dall’omesso versamento contributivo e la corretta tabella ministeriale da adottare alla specifica persona, tenuto conto ovviamente dell’età, del regime pensionistico, del sesso del lavoratore istante.
Si rammenta che, in ipotesi di decesso dell’assicurato, l’azione volta a ottenere il risarcimento dei danni potrà essere promossa dal coniuge superstite, quale titolare della pensione di reversibilità.
Il convenuto in giudizio, spesso di pietra
Una volta delineato il danno e descritti gli aspetti procedurali, rimane da vagliare un tutt’altro che banale aspetto della vicenda, che riguarda il vero responsabile dell’omissione contributiva, ossia il datore di lavoro.
Nel caso di specie, come sopra evidenziato, si parla di situazioni in cui i contributi sono ormai prescritti e quindi, come minimo, sono trascorsi almeno 5 anni da quando il relativo versamento doveva essere corrisposto.
Inoltre, se il prestatore non ricorre all’azione volta a costituire la riserva vitalizia ex L. 1338/1962, e si concentra a instaurare una controversia volta all’ottenimento di un risarcimento dei danni provocati dal datore di lavoro inadempiente sulla sua prestazione pensionistica, egli deve attendere – come sopra visto – il momento in cui avrebbe il potenziale diritto a percepire la pensione.
Tuttavia, in un mondo lavorativo caratterizzato sempre più dalla parcellizzazione dei rapporti e, soprattutto, da una durata media della vita delle imprese inferiore ai 10 anni, appare arduo che – a distanza di un lungo lasso temporale – il lavoratore sia ancora in grado di rinvenire e, conseguentemente, di adire in giudizio il datore di lavoro inadempiente.
Tranne l’ipotesi (remota, ma non impossibile) di un’impresa ancora attiva dopo molti anni, si evidenzia che tra le poche situazioni favorevoli al lavoratore ci possano essere quelle di soci illimitatamente responsabili di società di persone, a condizione ovviamente che la società non sia magari decotta nel frattempo, comportando per legge la dichiarazione di insolvenza in capo anche ai soci (e magari una successiva procedura di esdebitazione) o, ancora, una procedura di sovraindebitamento promossa dagli stessi, che lascerebbe al lavoratore pochissime possibilità di ottenere il ristoro ai suoi danni.
Gli inutili tentativi di convenire in giudizio l’Inps nell’azione risarcitoria
Il lavoratore, sia quando rivendichi il mancato versamento dei contributi non ancora prescritti, sia nel caso agisca per la costituzione della rendita vitalizia, è tenuto a chiamare in giudizio anche l’Inps, quale legittimato attivo alla riscossione della contribuzione.
Non così deve avvenire in ipotesi di azione risarcitoria per il mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, restando quest’ultimo unico responsabile e contraddittore del lavoratore subordinato.
Come ben statuito da ultimo dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2164/2021, nel caso di mancato versamento di contributi dovuti dal datore di lavoro, ma ormai prescritti, il lavoratore non può agire direttamente in giudizio nei confronti dell’Inps per far condannare l’Istituto a regolarizzare la propria posizione assicurativa.
In simili fattispecie, infatti, l’Istituto non ha la responsabilità di aver lasciato decorrere i termini di prescrizione della contribuzione senza provvedere a recuperarla nei confronti del datore di lavoro.
In conclusione, il lavoratore – nel caso di credito contributivo prescritto (circostanza che dunque impedisce all’ente previdenziale di rivendicare i propri crediti) – può azionare ex articolo 2116, comma 2, cod. civ., una richiesta di risarcimento del danno a carico esclusivamente del datore di lavoro, in quanto tale situazione determina l’attualizzarsi per il lavoratore del danno risarcibile, che consiste – come sopra visto – nella perdita totale del trattamento di pensione o nella percezione di un ammontare pensionistico inferiore a quello altrimenti spettante, ove i contributi fossero stati pagati[14].
È questo il motivo per cui il lavoratore, proprio per salvaguardare l’integrità della propria posizione assicurativa, è tenuto costantemente a monitorare il proprio estratto contributivo, al fine di accorgersi tempestivamente di eventuali ammanchi e di procedere – se del caso, e comunque prima dello spirare dei termini di prescrizione – con una denuncia tempestiva all’Inps, corredata da una documentazione completa da parte del lavoratore.
E a tale controllo il lavoratore è agevolato, soprattutto negli ultimi anni, da una serie di strumenti telematici che gli permettono una verifica da casa, accedendo alla propria posizione contributiva sul sito dell’Inps, una volta tramite il PIN e, dal 1° ottobre 2020, mediante lo Spid, previa idonea registrazione o, in alternativa, delegando un soggetto o un professionista a ciò appositamente abilitato.
[1] Per ragioni di spazio si evidenzia solo incidentalmente che anche i lavoratori sono tenuti a corrispondere una quota parte dei contributi, ma materialmente il versamento degli stessi spetta alla parte datoriale mediante una trattenuta mensile che viene fatta sulla retribuzione dei lavoratori. L’omesso versamento delle ritenute previdenziali effettuate dal datore di lavoro, di cui all’articolo 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983, convertito, con modificazioni, dalla L. 638/1983, costituiva fino a pochi anni fa un reato rimasto tale soltanto per le omissioni che superano l’importo annuo di 10.000 euro, mentre per gli importi inferiori è stata adottata una sanzione amministrativa, come disciplinata dall’articolo 3, comma 6, D.Lgs. 8/2016, oggi particolarmente nota in virtù delle tante ordinanze ingiunzioni notificate dall’Inps negli ultimi mesi ai datori di lavoro. Le ritenute previdenziali sono, come noto, parte integrante della stessa retribuzione e, pertanto, il datore di lavoro sarebbe tenuto a ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere i compensi ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all’obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull’integrale pagamento delle retribuzioni medesime (Cassazione, Sez. III, n. 38269/2007, in Cass. pen. 2009, 3, 1236).
[2] Tale principio, originariamente previsto dall’articolo 27, R.D.L. 636/1939, per le prestazioni temporanee, è stato poi esteso, dall’articolo 40, L. 153/1969, alle prestazioni pensionistiche, dapprima ai soli fini del raggiungimento del diritto a pensione e, successivamente (articolo 23-ter, D.L. 267/1972, convertito con L. 485/1972), anche per la misura del trattamento pensionistico.
[3] La delimitazione del principio di automaticità ai periodi non coperti da prescrizione è dettata da ragioni di economia pubblica, anche perché non si vuole addossare a tempo indeterminato in capo all’ente di previdenza e, dunque, allo Stato, oneri privi di una corrispondente copertura, soprattutto in periodi – come il presente – in cui la tenuta dei conti pubblici è costantemente a rischio e determinata anche dall’enorme flusso di denaro che la fiscalità generale deve erogare a tutela della previdenza e assistenza in Italia.
[4] Si ricorda che “non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che, rispetto ai contributi stessi, sia intervenuta la prescrizione” e l’Inps non può accettare contributi coperti da prescrizione proprio dal momento che sarebbe comunque impossibilitato a recuperare il relativo onere nei confronti del datore di lavoro.
[5] Per un approfondimento ci si permette di rimandare a P. Bonetti, “Omissione contributiva e tutela del lavoratore: quando risponde l’Inps?, in “La circolare di lavoro e previdenza”, n. 12/2021, pag. 39.
[6] Si rimanda sul punto all’arresto di Cassazione n. 27660/2018.
[7] Si ricorda che la pensione viene comunque liquidata con il regime retributivo per il periodo sino a tutto il 2011, dal momento che per i versamenti successivi al 1° gennaio 2012 – a seguito della riforma Monti Fornero adottata con il D.L. 201/2011, convertito con modificazioni nella L. 214/2011 – viene adottato il sistema contributivo.
[8] Requisito massimo che è pari, nel Fondo previdenziale dei lavoratori dipendenti, alla misura dell’80% della media della retribuzione pensionabile.
[9] E quindi non rientrabile né temporalmente nella c.d. quota A, ossia quella maturata dall’assicurato prima del 31 dicembre 1992 e che si basa sulla media degli ultimi 5 anni (260 settimane) delle retribuzioni utili percepite dal dipendente, né nella c.d. quota B, cioè per il periodo successivo al 1° gennaio 1993 e fino al 31 dicembre 2011.
[10] Articolo 1, commi, 239-248, L. 228/2012.
[11] D.Lgs. 42/2006.
[12] Unica ipotesi di esclusione potrebbe esserci nel caso in cui il periodo di scopertura contributiva coincida con il primissimo periodo di regime retributivo e quindi non interessato dal calcolo della retribuzione pensionabile.
[13] Pubblicato sulla G.U. il 6 novembre 2007 ed emanato in attuazione dell’articolo 1, comma 790, L. 296/2006.
[14] Si veda sul punto anche Cassazione n. 3790/1988.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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