1 Marzo 2016

Una prossimità … poco prossima!!!

di Marco Frisoni

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Sembra trascorso un lasso di tempo indicibile da quando, nel 2011, con D.L. n.138, convertito con (molteplici) modificazioni dalla L. n.148/11, nel pieno della crisi congiunturale da cui era avvolto il sistema Italia (situazione che, per la verità, ancorché in forma più attenuata, perdura ancora oggi), l’allora Governo Berlusconi, nell’ambito di una serie di interventi d’urgenza finalizzati a fronteggiare il dirompente e galoppante stato di criticità del nostro Paese e dei conti pubblici (peraltro già cronicamente e storicamente in affanno), immise nell’ordinamento giuslavoristico interno la contrattazione di prossimità.

Orbene, il pacchetto di iniziative poste in essere allora dall’Esecutivo in parola rispondeva anche a precise direttive impartite dall’Unione Europea quale corrispettivo per aiuti e sovvenzioni richieste per rintuzzare il contesto deficitario economico e finanziario che si stava manifestando in maniera sempre più inquietante e, in verità, con esiti incontrollabili.

In particolare, da lungo tempo i rappresentanti dell’Unione Europea sollecitavano all’Italia interventi strutturali in vari ambiti strategici, ivi compreso il mercato del lavoro, basato su regole incerte, instabili, sovente non esigibili e, soprattutto, soggette a un’opera quasi invasiva di interpretazione giudiziaria; va da sé che, sempre nella logica del pensiero comunitario, un siffatto panorama scoraggiava la creazione di nuovi posti di lavoro, specialmente da parte di investitori stranieri, scoraggiati (se non, addirittura, spaventati) dall’alta gradazione di indeterminatezza delle normative vigenti.

A completamento del corollario appena accennato, si aggiungeva l’incerto status delle relazioni sindacali, basate, in concreto, su una sorta di regolamentazione propria di diritto comune, nei fatti divenuta pericolosa autoreferenzialità, che, tuttavia, anche per l’inasprirsi del contesto economico di riferimento e per la drammatica riduzione dei livelli occupazionali, produceva (e, anche attualmente, continua in tale guisa) attriti, vertenze, diaspore fra associazioni sindacali (sia dei lavoratori che datoriali) e, prima di tutto, regole non caratterizzate da solidità ed esigibilità, al punto che, nonostante molti sforzi in tal senso, nemmeno i protagonisti sindacali erano in grado di garantirne la puntuale osservanza.

In un simile (desolante) ambito di riferimento, l’istituto del contratto di prossimità avrebbe dovuto apportare ruvide innovazioni (se non, in effetti, rivoluzioni) almeno su due fronti:

  1. dare impulso e vigore alla contrattazione di secondo livello, preferibilmente aziendale, quale strumento idoneo alla soluzione delle crisi e/o al rilancio dell’occupazione e degli investimenti;
  2. ammansire regole non solo certe ed esigibili, ma dotate di efficacia generalizzata nei riguardi di tutti i prestatori di lavoro (e, ovviamente, datori di lavoro) interessati.

Al fine di perseguire simili obiettivi, il Legislatore, nell’art.8, L. n.148/11, ha affidato la negoziazione non solo alle tradizionali associazioni sindacali comparativamente più rappresentative (con uso della preposizione semplice “da” per legittimare gli accordi separati che, oramai, sempre di più contraddistinguono le relazioni sindacali nostrane) ma anche, in alternativa (“ovvero“) alle rappresentanze sindacali operanti in azienda, legittimando dunque codesti organismi di base a negoziare direttamente con il datore di lavoro su materie di grandissima rilevanza, atteso che, nel rispetto delle finalità specifiche richieste dalla legge, la contrattazione di prossimità può operare in deroga (incrinando il principio della norma inderogabile sul quale si basa il diritto del lavoro italiano) sia alla contrattazione collettiva nazionale sia alla norma di legge su un ampio numero di tematiche e istituti afferenti al rapporto di lavoro.

Si è compreso sin da subito che la contrattazione in analisi non avrebbe riscosso il consenso, in special modo delle organizzazioni sindacali dei prestatori di lavoro e delle associazioni sindacali (si registrano determinazioni a non adottare tale soluzione negoziale cristallizzate in accordi sindacali) per evidenti ragioni di equilibrio politico e conservazione di posizioni di forza; “abbassare” il livello di contrattazione a livello aziendale, su tematiche centrali e strategiche del rapporto di lavoro, significa, in buona sostanza, mettere in discussione il ruolo preminente del contratto collettivo nazionale e, a cascata, delle parti stipulanti, andando a scavare un solco fra il livello nazionale (o interconfederale) e le rappresentanze aziendali e/o unitarie nei luoghi di lavoro e a favorire la diffusione dei sindacati di base che, ancorché privi dei galloni di rappresentatività “comparata” a livello nazionale, magari muniti di rappresentatività territoriale piuttosto che aziendale, si trovavano improvvisamente investiti dalla legittimazione a negoziare con effetti erga omnes.

Di talché, si è assistito a un tentativo di “depotenziare”, nel tempo, la forza del contratto di prossimità (fenomeno che, a conti fatti, in virtù dell’ostracismo a più livelli registrato, è rimasto privo di applicazione concreta significativa), nonostante l’art.8, L. n.148/11, abbia retto il primo vaglio di costituzionalità; e, infatti, numerosi sono gli interventi di legge che, seppure non direttamente operanti sulla normativa contenuta nella L. n.148/11, hanno, in buona sostanza, sottratto competenze alle materie oggetto della prossimità contrattuale, oppure, più maliziosamente, generando dubbi rispetto alla prevalenza “per specialità” o sopravvenienza cronologica di una disposizione nei confronti dell’altra (anche i recenti decreti attuativi della L. n.183/14 si sono mossi in tal senso, con precipuo riferimento al D.Lgs. n.81/15).

In questa direzione si deve probabilmente leggere l’interpello n.8/16 del Ministero del Lavoro, per mezzo del quale, in risposta all’istanza dell’Associazione nazionale consulenti del lavoro, si assesta un’ulteriore spallata alla solidità della negoziazione di prossimità, affermando che, pur in presenza di una notevole ampiezza del campo d’azione, non sembra essere autorizzata la deviazione dalle regole generali che presiedono la determinazione dei c.d. minimali contributivi né, per la verità, al precetto costituzionale, ex art.36, di valorizzazione del criterio di retribuzione giusta e sufficiente.

Il tutto, va da sé, con buona pace delle intenzioni declamate nel 2011 e che immaginavano la prossimità come strumento vicino alle reali esigenze di ogni singola azienda.