8 Marzo 2016

Il datore “furbetto” che compensa indebitamente indennità Inps mai erogate

di Roberto Lucarini

 

Provate a indovinare cosa potrebbe succedere a un datore di lavoro il quale, colpito da italica astuzia, pensi di operare il seguente trucchetto:

  • il datore deve anticipare, per conto dell’Inps ai propri dipendenti, alcune indennità (malattia, assegni familiari, cassa integrazione), ma non le eroga;
  • al momento del conguaglio contributivo mensile (effettuato al tempo col mod. DM10), espone invece a credito tali indennità, non erogate, andando così a ridurre il debito contributivo.

Pescato con le mani nel sacco, si ritrova condannato per truffa in primo e secondo grado, finendo a difendersi in Cassazione (sent. n.4404/16).

La prima cosa che vi passerà in mente, con buone probabilità, va a riferirsi al reato di truffa, al più di appropriazione indebita. Così, in effetti, si erano mossi due filoni della giurisprudenza di legittimità. Le sentenze che puntavano sulla sussistenza del reato di truffa enfatizzavano il danno patito dall’Inps; le altre, escludendo il danno per l’Istituto, ravvisavano un’appropriazione indebita di somme destinate ai lavoratori.

A una rapida analisi verrebbe da dire: come possono dire che l’Inps non abbia subito un danno, e quindi una truffa?

A guardar meglio, invece, può essere proprio così. L‘Inps, quelle somme relative alle indennità, le doveva certamente ai lavoratori; a mezzo anticipazione del datore, d’accordo, ma erano a suo debito. Il fatto della compensazione illecita, quindi, non crea un danno effettivo all’Istituto debitore.

Così, infatti, cerca di difendersi l’imputato, il quale tenta di escludere il danno per disattivare la sanzione penale, spostando il tutto, invece, sul piano amministrativo dell’evasione contributiva.

Troppa grazia, viene da dire. E infatti la Corte di Cassazione non pare di quell’avviso. Nella sentenza di cui si tratta gli Ermellini si muovono tra le due tesi innanzi esposte, proposte in altri giudizi pari grado, optando tuttavia per una propria peculiare decisione (invero già intravista in altra precedente pronuncia).

No al reato di truffa o di appropriazione indebita, ma sussistenza – in ipotesi, e vedremo perché – del reato di “Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato” (ex art.316 ter codice penale). Nelle prescrizioni di tale norma i giudici rilevano la condotta del reo, posta in essere a mezzo presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, con omissione di informazioni dovute, al fine di ricevere illecitamente un beneficio dallo Stato o da un Ente pubblico. Una terza via, insomma, che stigmatizza comunque una condotta antigiuridica del datore di lavoro.

Fanno però notare i giudici come detto reato si concretizzi, ogni volta, al momento del versamento contributivo indebitamente ridotto. Tradotto sul caso specifico, stante la periodicità mensile dell’atto, il reo non è mai giunto a superare la soglia di € 3.999,96 (richiesti ex art.316 ter c.p.), al di sotto della quale si disattiva il presidio penale per far posto a una sanzione amministrativa.

Avendo quindi, il furbetto di turno, omesso versamenti al di sotto di tale soglia, se la cava con la cassazione della sentenza di condanna per truffa; con una bella e sostanziosa sanzione amministrativa gli passerà la paura. Forse….