Storie di giurisprudenza moltiplicativa e ciò che resta (forse) del Jobs Act
di Marco FrisoniPuò obiettivamente apparire un luogo comune, se non, addirittura, un esercizio di stile meramente pleonastico, eppure, giorno dopo giorno, l’antica saggezza, insieme con il tradizionale buon senso, risulta, come un’agognata oasi nel deserto più arido, l’unica proverbiale ancora di salvezza a cui possono appellarsi i soggetti che, a loro rischio e pericolo, si cimentano con la perigliosa attività dell’amministrazione e gestione del personale, e, dunque, su tutti, i consulenti del lavoro, oramai stremati da un anno e mezzo di peripezie e vessazioni professionali.
E, in effetti, mala tempora currunt (sed peiora parantur) sembra affermassero, in senso infausto, gli antichi latini e, a ben vedere, mai siffatta espressione si è attanagliata in maniera appropriata al contesto che ancora ci ammanta e, per una volta tanto, con una riflessione che si spinge al di là della crisi pandemica, dalla quale, con molta fatica, il nostro Paese cerca di emergere, grazie, in particolare, all’avanzamento della campagna vaccinale collettiva.
Dunque, perché no, parliamo di Job(s) Act, considerando che, negli ultimi tempi, non mancano gli spunti, soprattutto giudiziali, che creano terreno fertile per una considerazione rigorosamente ex post su una (pseudo) riforma partita con fare trionfante e che, poco alla volta, si sta disciogliendo come neve al sole, soprattutto con riguardo alla fattispecie delle c.d. tutele crescenti (ovvero, secondo alcuni, maliziosamente descritte come “decrescenti”) di cui al D.Lgs. 23/2015.
Sembra trascorso un tempo lunghissimo (forse la fase emergenziale sanitaria dovuta all’avvento del COVID-19 ha alterato la percezione dello scorrere del tempo), non di meno era il 2015 quando, fra suoni di fanfare, acclamazioni, giubilo diffuso e, come naturale, 92 minuti di applausi in perfetta tradizione fantozziana (aggiungiamo anche una celebrazione in sala mensa), venne offerto in ostensione urbi et orbi il nuovo frutto della L. 183/2014 (Legge delega denominata, in un sussulto di esterofilia, come Jobs Act), vale dire il contratto a tutele crescenti, sorto con l’intento di dare certezza ed esigibilità al diritto del lavoro e, specificamente, nelle fasi estintive del rapporto di lavoro dipendente (storicamente afflitte da un’incertezza giudiziale quasi ineluttabile, degna della sensazione apocalittica che si respira durante la visione del capolavoro “Il settimo sigillo”, diretto, nel 1957, dal maestro Ingmar Bergman), al fine di favorire, rimuovendo tali timori datoriali, l’incremento di occupazione stabile (ma incerta e fortemente depauperata nella fase di conclusione del vincolo negoziale) e di qualità (salvo che nelle tutele in caso di licenziamento).
A ben vedere, al di là degli scopi perseguiti dal D.Lgs. 23/2015 (di per sé anche lodevoli), sempre con visione a posteriori, forse la debolezza genetica delle tutele crescenti risiede, sin dall’origine, nell’equivoco ideologico di partenza, nel senso che si è deciso di sviluppare la normativa in parola dalla regolamentazione degli aspetti di risoluzione del contratto di lavoro, quasi sussistesse la distorta volontà di assumere non per reperire la risorsa umana necessaria all’organizzazione datoriale, quanto, al contrario, già con il proponimento di licenziare…….
Non solo; si poteva certamente concordare con la scelta, per ragioni di prognosi del rischio di contenzioso, di certezza del diritto e per evitare artificiosi dilatamenti processuali, di introdurre un meccanismo di indennizzo a beneficio del lavoratore illegittimamente estromesso (metodo, fra l’altro, in parte già adottato dalla Legge Fornero – L. 92/2012), ciò nonostante si è subito sottolineato che la soluzione percorsa presentava almeno un paio di versanti opinabili e che si sarebbero prestati (come, infine, accaduto) a future aggressioni rispetto alla compatibilità con i principi costituzionali, quali la modestia economica del risarcimento previsto (successivamente innalzato dalle modifiche normative sopravvenute) e la rigidità, quasi dogmatica, del criterio di quantificazione dell’indennizzo al solo parametro dell’anzianità di servizio.
Tanto tuonò che, alla fine, piovve, posto che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 194/2018, ha dichiarato l’illegittimità di tale disposizione nella parte in cui statuisce inflessibilmente la regola di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato sulla scorta della sola anzianità di servizio, poiché contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza, nonché al diritto e alla tutela del lavoro sanciti dagli articoli 3, 4 e 35, Carta costituzionale (rinviene la vicenda narrata nella pellicola, invero non straordinaria, “La profezia”, del 2014, con Nicolas Cage).
D’altronde, secondo il pensiero del Giudice delle Leggi, in una vicenda assai delicata che coinvolge la persona del lavoratore nel momento della conclusione del rapporto lavorativo (dal quale, giova rammentare, il dipendente ricava il sostentamento per sé stesso e la propria famiglia), la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, dovendosi invece sussumere ulteriori indici da affidare alla valutazione del giudice del lavoro, come il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, nonché il comportamento e le condizioni delle parti.
Di riflesso, nella misura quantitativa che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità, l’organo giudicante adito deciderà l’ammontare risarcitorio caso per caso, in funzione della gravità del fatto concreto e delle condizioni oggettive e soggettive delle parti, con la conseguenza che, in linea teorica, anche lavoratori con brevi anzianità lavorative potranno, a fronte del licenziamento ingiustificato, vedersi applicato il massimo indennizzo.
È del tutto evidente che un simile pronunciamento ha sgretolato, di fatto, l’aspetto maggiormente innovativo e incidente delle tutele crescenti, aprendo a scenari di contenzioso nuovamente incerti in ordine all’entità della soccombenza economica datoriale, comportando un effetto di immediata osservazione e consistente nella reviviscenza numerica del contenzioso del lavoro nelle aule dei Tribunali, che, per i lavoratori soggetti al D.Lgs. 23/2015, si era sopito proprio per il rigido meccanismo indennitario che favoriva la ricerca della conciliazione stragiudiziale.
Vista la strada aperta dalla Corte Costituzionale, non restava che attendere le ricadute sulla giurisprudenza vivente, principalmente di merito, e, quale esempio paradigmatico, non si può non richiamare la sentenza del Tribunale di Udine del 10 maggio 2021, che potrebbe assurgere a punto di non ritorno del nuovo corso interpretativo che avvolgerà le tutele crescenti.
Nel caso in esame, il giudice unico del lavoro ha dato seguito, con accoglimento, al ricorso di una lavoratrice che aveva impugnato il licenziamento radicato su ragioni oggettive, rilevata l’assenza di soddisfacimento probatorio, da parte del soggetto datoriale, di adempimento dell’obbligo di ricollocazione (obbligo di repêchage); conseguentemente, il Tribunale friulano statuisce che, al fine di quantificare l’indennità di cui al D.Lgs. 23/2015, in caso di licenziamento illegittimo, si debba tenere conto non solo dell’anzianità di servizio, bensì, in aderenza all’insegnamento della Corte Costituzionale, anche di altri fattori.
Su tale base, il malcapitato datore di lavoro viene condannato a versare alla ricorrente un’indennità pari a 30(!!) mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del Tfr, nonostante l’anzianità di servizio relativamente breve (circa 3 anni), stante il fatto che la lavoratrice si era dovuta spostare da una Regione a un’altra per il lavoro, dovendo reperire un’abitazione, e stante il rilevante numero di dipendenti addetti alla società.
Insomma, uno strabiliante e fulgido esempio di giurisprudenza moltiplicativa (come non rimembrare le allucinazioni mistico-religiose della coppia Fantozzi/Filini, che ripercorrono, con esito infelice, anche l’aspetto della moltiplicazione dei pani e dei pesci), che deve fare riflettere attentamente rispetto all’approccio consulenziale sulla scivolosa tematica del licenziamento individuale (come sempre, per cercare una spiegazione alle inesplicabili vicende illustrate, gli unici punti di riferimento vanno reperiti altrove e, pertanto, sorge spontanea la saga che, nel 1997, coinvolse uno dei personaggi più noti e amati del mondo fumettistico DC Comics, ossia Superman, l’uomo di acciaio, soggetto a una moltiplicazione di sé stesso in un Superman Rosso e un Superman Blu) e nella contezza che, quanto meno in materia di tutele crescenti, quel che resta del Jobs Act originario (immediata è la comparazione con l’atmosfera crepuscolare della apprezzabile pellicola “Quel che resta del giorno”, regista James Ivory, e protagonista il due volte premio Oscar Sir Philip Anthony Hopkins, tratta dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro, premio Nobel per la letteratura nel 2017) è ben poco …
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