Cessione del quinto e pignoramento: casi pratici
di Andrea ErcoliGli istituti della cessione del quinto e del pignoramento hanno rilevante diffusione nella pratica quotidiana. Sia per il fatto che l’accesso al credito diffuso è ormai elemento essenziale del mercato economico, sia per la fluidità nel recupero crediti ormai insita nel sistema, il datore di lavoro si trova spesso a confrontarsi con tali istituti. Gli istituti emergenziali hanno un impatto sul tema, pertanto sarà necessario gestire in modo corretto le eventuali situazioni che la pratica offre.
Premessa
L’accesso al credito per il cittadino svolge un ruolo di assoluta rilevanza nel mondo economico attuale. Il mercato, in questo senso, offre numerose soluzioni al lavoratore dipendente che necessiti di liquidità per far fronte alle più disparate esigenze momentanee. Nell’ordinamento e nella pratica è ormai consolidato l’istituto del prestito contro cessione del quinto dello stipendio, attraverso il quale il lavoratore ha facoltà di accedere a un prestito che verrà rimborsato trattenendo una quota mensile del proprio compenso.
In tempi pandemici, l’istituto della cessione del quinto ha subito 2 differenti spinte:
- da un lato una maggior richiesta, dettata dalla carenza di liquidità in capo alle famiglie e ai lavoratori;
- dall’altro una minor base su cui agire, stante la riduzione – seppur temporanea, dettata dall’intervento degli istituti di integrazione salariale – delle retribuzioni medie in generale.
Il tema della cessione del quinto si interseca, per modalità applicative più che per natura, con quello del pignoramento dello stipendio, originato da sentenze o azioni della Pubblica Amministrazione. Anche in tema di pignoramento l’emergere della crisi ha generato un impatto considerevole, dettato dalla sospensione di alcuni pignoramenti da parte della normativa emergenziale, oltre che dalla medesima riduzione delle retribuzioni medie cui si faceva riferimento poco sopra. In relazione a tali istituti, il presente contributo comprende alcuni casi che potrebbero rilevarsi nella pratica, nonché alcuni accorgimenti tecnici per il corretto calcolo delle trattenute mensili.
Cornice normativa
In prima battuta, giova ricordare la normativa di riferimento per quanto riguarda la cessione del quinto e il pignoramento dello stipendio del lavoratore dipendente. Questi meccanismi di finanziamento scontano una storia normativa che ha seguito passi progressivi fino a giungere all’attuale assetto.
La cessione del quinto è un sistema di accesso al credito garantito ai lavoratori dipendenti, che ha trovato crescente diffusione negli ultimi anni, successivamente alla già citata crescente offerta da parte della società e degli enti finanziari. La cessione volontaria del quinto dello stipendio risponde allo schema della cessione del credito, ai sensi dell’articolo 1260, cod. civ., ma regolata in prima battuta da uno specifico atto normativo: il D.P.R. 180/1950. Tale atto prescrive, all’articolo 52, che “Gli impiegati e salariati […] possono fare cessione di quote di stipendio o di salario non superiore al quinto per un periodo non superiore ai dieci anni, quando siano addetti a servizi di carattere permanente, siano provvisti di stipendio o salario fisso e continuativo”.
Il limite fissato dalla normativa per la durata della cessione è di 10 anni, con differente applicazione per il lavoratore a termine, che potrà contrarre un prestito contro cessione del quinto per una durata massima pari alla durata residua del contratto in essere. Si legge, infatti, nel medesimo provvedimento: “Nei confronti dei medesimi impiegati e salariati assunti in servizio a tempo determinato, la cessione del quinto dello stipendio o del salario non può eccedere il periodo di tempo che, al momento dell’operazione, deve ancora trascorrere per la scadenza del contratto in essere”.
Il lavoratore dipendente riceve una somma di denaro in prestito, che restituirà mediante il versamento di una rata mensile. Il Tfr maturato e accantonato funge da garanzia. La cessione del quinto in fase di prima applicazione era riservata ai dipendenti pubblici. La L. 311/2004 ha esteso tale facoltà al settore privato, aprendo le possibilità di accesso al credito anche ai lavoratori di aziende esterne all’ambito pubblico.
Nel caso in cui la retribuzione mensile subisca una riduzione – come accade nel caso di intervento degli istituti di integrazione salariale – la normativa dispone differenti conseguenze. Il già citato D.P.R. 180/1950 contiene una disposizione specifica relativa alla riduzione della retribuzione su cui insiste una cessione. Trattasi dell’articolo 35, che recita: “Qualora lo stipendio o salario gravato di cessione subisca una riduzione non superiore al terzo, la trattenuta continua ad essere effettuata nella misura stabilita. Ove la riduzione sia superiore al terzo, la trattenuta non può eccedere il quinto dello stipendio o salario ridotto”.
Ai sensi del medesimo articolo, pertanto, la prima verifica da fare riguarda l’entità della riduzione della retribuzione.
Nel caso in cui sulla medesima retribuzione agiscano sia una cessione del quinto che un pignoramento, ovvero più pignoramenti, notificati al lavoratore e al datore di lavoro per le motivazioni previste dalla norma, il dettato del D.P.R. 180/1950 (articolo 2) prevede limiti ulteriori: “Gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti, nonché le pensioni, le indennità che tengono luogo di pensione e gli altri assegni […] sono soggetti a sequestro ed a pignoramento nei seguenti limiti:
- fino alla concorrenza di un terzo valutato al netto di ritenute, per causa di alimenti dovuti per legge;
- fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per debiti verso lo Stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto d’impiego o di lavoro;
- fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni, facenti carico, fino dalla loro origine, all’impiegato o salariato.
Il sequestro ed il pignoramento, per il simultaneo concorso delle cause indicate […], non possono colpire una quota maggiore del quinto sopra indicato, e, quando concorrano anche le cause […], non possono colpire una quota maggiore della metà, valutata al netto di ritenute, […]”.
Inoltre, l’articolo 68, D.P.R. 180/1950, prevede che “Quando preesistono sequestri o pignoramenti, la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da sequestri o pignoramenti. Qualora i sequestri o i pignoramenti abbiano luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario valutati al netto di ritenute e la quota ceduta, fermi restando i limiti di cui all’art. 2”.
Sulla base delle citate indicazioni normative, oltre ad altre disposizioni contenute in altri provvedimenti, è possibile desumere la corretta gestione di alcuni casi pratici che la pratica presenta.
CASO 1 – Fis e arretrato Anf
Un istituto che ha registrato un – malaugurato – diffuso ricorso nel corso dell’anno 2020 è il Fondo di integrazione salariale. Tale ammortizzatore sociale fu disegnato nell’ambito della riforma generale del 2015, con successiva applicazione assolutamente sporadica, stante la natura settoriale e la disponibilità normalmente percorsa di altre vie di riduzione per le aziende interessate. Tale storia normativa e di prassi ha determinato uno scollamento tra le regole previste per il Fis e quanto, viceversa, stabilito per gli altri ammortizzatori sociali. In particolare, in tema di Anf, prima del 2020 le giornate passate in Fis non erano utili alla maturazione del diritto all’Anf. Ciò in quanto nel Decreto istitutivo del fondo non è stata prevista l’erogazione, a carico del Fis stesso, degli Anf.
Se tale evenienza non ha generato grandi problemi prima del 2020, il ricorso massivo all’intervento del Fis in tempi pandemici ha reso necessaria una revisione di tale disposizione, operata con l’articolo 68, D.L. 34/2020. Tale norma ha disposto la maturazione e il diritto all’erogazione dell’Anf anche per le giornate in cui il lavoratore non ha prestato la propria attività per l’intervento del Fis, con causale COVID-19. Ciò ha comportato il verificarsi di moltissimi casi in cui l’Anf non erogato nei primi mesi di intervento del Fis è stato erogato in forma di arretrato successivamente all’emanazione del provvedimento.
Per le aziende in cui l’intervento dell’integrazione è stato maggiore, pertanto, si sarebbe potuta verificare l’eventualità secondo per cui in un mese senza retribuzione corrente (per intervento del Fis) l’importo netto erogato sarebbe stato elevato. In questo caso, l’azione di un pignoramento per causa differente rispetto a quelli sospesi dalla normativa emergenziale non avrebbe potuto aggredire tale somma, se non in uno specifico caso particolare. Giova, infatti, ricordare che, a mente dell’articolo 22, D.L. 797/1955, non possono essere pignorati gli assegni familiari. Il solo caso in cui tale aggressione sarebbe stata possibile è quello del pignoramento per causa alimentare operato dal soggetto in favore del quale l’assegno è riconosciuto.
CASO 2 – Intervento della Cigd per il 50% dell’attività
Un altro caso particolare offerto dalla pratica è quello della cessione del quinto a importo fisso che insiste su lavoratore la cui prestazione è ridotta al 50% per intervento della Cigd. Come noto, in relazione alla Cigd disposta con causale COVID-19 non è possibile ricorrere al pagamento della prestazione in acconto e conguaglio da parte del datore di lavoro, ma l’unica modalità prevista dalla norma è quella del pagamento diretto da parte dell’Istituto. Per effetto di tale intervento, quindi, la retribuzione del lavoratore viene ad essere ridotta, con conseguente pagamento da parte dell’Istituto della quota rimanente a seguito di invio dell’apposito modello di pagamento.
Seppure la retribuzione venga ad essere integrata da quanto successivamente erogato dall’Istituto, non si può tenere conto di tale importo al fine di valutare la capienza della cessione: il parametro di riferimento per la valutazione relativa alla cessione deve essere la retribuzione netta effettivamente erogata dal datore di lavoro. Sarà poi, eventualmente, la società finanziaria a operare le proprie valutazioni sulle somme erogate dall’Inps, rivalendosi sull’Istituto o sul lavoratore, ove ne ricorra la possibilità. A tale riguardo, trova applicazione la disposizione di cui al già citato articolo 35, D.P.R. 180/1950, secondo cui la trattenuta mensile deve essere ridotta proporzionalmente nel caso in cui la retribuzione mensile sia temporaneamente ridotta per una quota maggiore del terzo. Il limite sarà quello del quinto della retribuzione ridotta. Se la riduzione avviene in via naturale, per effetto del calcolo, nei casi di pignoramento, è differente il caso della cessione a importo fisso. L’importo rimarrà il medesimo, ad avviso di chi scrive, fino a che il quinto della retribuzione ridotta sia superiore a tale somma.
Si prenda l’esempio di un lavoratore che percepisca un netto medio di 1.000 euro e abbia una trattenuta di 100 euro. Se la riduzione della retribuzione fosse pari al 50%, il netto erogato sarebbe pari a 500 euro, il quinto del quale sarebbe ovviamente pari a 100 euro. In questo caso, anche se la riduzione è superiore al terzo del netto, la trattenuta continuerà ad essere applicata nella misura inizialmente stabilita. Nel caso in cui, viceversa, la riduzione sia del 60%, il limite dovrà essere così calcolato:
1.000 * 40% = 400
400 / 5 = 80
Il limite massimo della trattenuta mensile sarà, quindi, ricalcolato in 80 euro.
CASO 3 – Pignoramento della NASpI
Una particolare forma di pignoramento, che sconta regole proprie e disciplina particolare, è la trattenuta che colpisce il trattamento di disoccupazione (NASpI dal 2015). Il primo tema da tenere in considerazione è la possibilità di pignorare tale importo direttamente nei confronti dell’Istituto erogante, l’Inps, ovvero dal conto corrente del lavoratore. Entrambe le vie sono percorribili, ma con limiti differenti. La possibilità di procedere al pignoramento delle somme erogate a titolo di NASpI, in ogni caso, è confermata dallo stesso articolo 545, c.p.c., che prevede quanto segue: “Le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge”.
Dal testo della norma si evince il primo limite all’importo pignorabile, calcolato in modo differente rispetto al caso della trattenuta mensile che colpisce lo stipendio. Nel caso in cui, infatti, l’accredito sul conto corrente sia già avvenuto, sarà possibile pignorare esclusivamente le somme che eccedano il triplo dell’assegno sociale, che per il 2021 è fissato in 460,28 euro. Ciò significa che la quota pignorabile è esclusivamente quella eccedente la somma di 1.380,84 euro, qualora sia già stata accreditata sul conto corrente del beneficiario. Nel caso in cui, viceversa, l’assegno non sia stato accreditato in favore del beneficiario, la trattenuta potrà in ogni caso avere corso, ma con altro limite. La quota massima aggredibile sarà in ogni caso quella pari al quinto dell’indennità netta percepita, ma da calcolarsi su una quota ridotta rispetto all’intera somma erogata. L’articolo 545, comma 7, c.p.c., infatti, prevede che le somme percepite a titolo di pensione e di indennità che tengono luogo di pensione, o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. Ciò significa che, nel caso di pignoramento della NASpI, il limite del quinto (o del decimo o del settimo nel caso di pignoramento dall’agente della riscossione) sia applicato solo sulla parte eccedente l’importo di 690,42 euro (ossia l’assegno sociale stabilito per il 2021, aumentato della metà), che costituisce una quota minima impignorabile di trattamento per il lavoratore. Per dare avvio alle trattenute, il pignoramento dovrà essere notificato anche all’Inps, che dovrà dare corso allo stesso in seguito alla notifica, secondo le richiamate regole. Nell’ambito della disciplina emergenziale, l’articolo 152, D.L. 34/2020, ha disposto la sospensione dei pignoramenti operati dall’agente della riscossione o da altri soggetti iscritti all’Albo apposito, sulle somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di assegni di quiescenza. Tali somme non devono essere vincolate dal soggetto erogatore, sia esso il datore di lavoro o l’Istituto stesso, ma dovranno essere messe a disposizione del soggetto beneficiario, bloccando di fatto la trattenuta.
Anche l’Inps ha recepito l’indicazione normativa e ha pubblicato il messaggio n. 2479/2020, che ricomprende nell’alveo delle erogazioni interessate dalla sospensione dei pignoramenti ogni trattamento di disoccupazione. A tale riguardo, le strutture territoriali cui il messaggio è indirizzato non dovranno procedere alla trattenuta mensile sulle somme erogate a titolo di NASpI, né conseguentemente disporre versamenti in favore dei soggetti creditori. I pignoramenti effettuati tra il 19 maggio 2020 e la data di emanazione del messaggio dovranno essere restituiti.
CASO 4 – Conguaglio di fine anno e pignoramento
Un’altra particolare evenienza in cui il pignoramento delle somme in capo al dipendente deve fare i conti con la variabilità del netto erogato è il conguaglio di fine anno. In particolare, il conguaglio relativo al 2020 subisce il riflesso di quanto accaduto nel corso del 2020, con l’intervento massivo degli strumenti di integrazione salariale. A causa di ciò, il calcolo fiscale operato nei primi mesi dell’anno, unito alla generalizzata riduzione del reddito percepito dai lavoratori per effetto dell’intervento degli strumenti di integrazione salariale, ha comportato una maggiore diffusione di conguagli “a credito” nelle buste paga elaborate in dicembre 2020. L’erogazione del conguaglio “a credito” operata a fine anno dal datore di lavoro sembrerebbe aumentare la base di calcolo per il pignoramento, ma non è certo che tale somma – che ha natura di restituzione fiscale – possa essere aggredita dalla trattenuta mensile. Ciò in quanto il pignoramento colpisce le somme erogate con riferimento alla prestazione lavorativa, che abbiano – pertanto – natura di credito da lavoro. Alcune manovre elusive, tuttavia, suggeriscono come la soluzione di escludere il conguaglio “a credito” dalle somme pignorabili non sia di certa percorribilità.
Si prenda ad esempio un lavoratore che, colpito da pignoramento del quinto, eserciti la propria facoltà di vedersi applicata un’aliquota fiscale maggiore rispetto a quella che sarebbe stata calcolata in via ordinaria. Oltre a ciò, il medesimo lavoratore potrebbe chiedere che non vengano applicate le detrazioni da lavoro dipendente, percependo per effetto di queste scelte un netto inferiore rispetto a quello che sarebbe ordinariamente calcolato ed erogato. In sede di conguaglio, oppure di successivo 730, il lavoratore potrebbe beneficiare di restituzioni fiscali anche rilevanti, che risultano però costruite sulla base delle scelte citate. Ad avviso di chi scrive, il datore di lavoro non ha facoltà di sindacare le scelte fiscali del lavoratore, trovandosi, quindi, obbligato a dare corso al calcolo dell’imposta sulla base delle indicazioni ricevute. Allo stesso modo, il conguaglio fiscale di fine anno costituisce un necessario adempimento del sostituto d’imposta, pertanto, anche in questo caso, il datore di lavoro dovrà dare corso all’operazione. In questo senso, si ritiene che non sia possibile imputare al datore di lavoro alcuna responsabilità – salvo il caso di deliberata connivenza con il lavoratore nel mettere in atto manovre elusive – in quanto, in veste di sostituto d’imposta, è tenuto a dare corso alle richieste avanzate del lavoratore in materia fiscale.
Altro tema, viceversa, riguarda l’erogazione a conguaglio del trattamento integrativo e, ancora per il solo anno 2020, per il bonus fiscale di 80 euro previsto dal D.L. 66/2014. Non costituendo erogazioni di natura retributiva, né legate al rapporto di lavoro in sé, si ritiene che l’erogazione a conguaglio di tali somme non possa costituire base di calcolo per la trattenuta del quinto a titolo di pignoramento. Ciò anche in quanto tali erogazioni costituiscono bonus fiscali e non restituzioni o ricalcolo di imposta con riguardo al reddito del lavoratore. Il lavoratore, astrattamente, potrebbe ricevere l’erogazione del bonus integrale anche pagando un solo euro a titolo di Irpef, senza il limite della capienza tipico delle detrazioni: siamo, pertanto, in presenza di un bonus, slegato dal calcolo ordinario della tassazione.
CASO 5 – L’atto di benestare
Uno degli adempimenti previsti per la concessione di un prestito contro cessione del quinto è la firma dell’atto di benestare da parte del datore di lavoro. L’atto di benestare è un documento attraverso il quale il datore di lavoro esplicita il proprio assenso alla cessione – non necessario – e al contempo si assume alcuni obblighi comunicativi. Nella gran parte dei casi, le società finanziarie predispongono format di atti di benestare, che il lavoratore sottopone alla firma del datore di lavoro. Se alcune delle obbligazioni contenute negli atti di benestare sono già previste dalla norma (in primis, la trattenuta dell’importo), altre clausole contengono obblighi di segnalazione che il datore di lavoro accetta solo firmando tale documento. La parte datoriale non è obbligata a sottoscrivere tale documento, né tale rifiuto potrà condizionare la possibilità per il lavoratore di ottenere il prestito contro cessione. Al contempo, il datore di lavoro non potrà opporre la mancata firma dell’atto di benestare al lavoratore, ma dovrà attenersi a quanto prescritto nella cessione e dare conto alle trattenute mensili. Il datore di lavoro, oltre alla facoltà di rifiutarsi di sottoscrivere l’atto di benestare, ha la possibilità di emetterne uno sostitutivo, redatto secondo i canoni che vengono autonomamente determinati, escludendo così dall’atto ogni riferimento a clausole non gradite. Anche in questo caso, non sarà inficiata la possibilità di ottenere il prestito, né il meccanismo di trattenuta e versamento sarà ostacolato da tale differente sottoscrizione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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