3 Febbraio 2021

Licenziamento collettivo: fungibilità o non fungibilità, questo è il problema

di Edoardo Frigerio

Nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo, la limitazione dell’ambito aziendale nel quale operare la scelta dei dipendenti da porre in esubero rappresenta da sempre una questione particolarmente critica, specialmente quando i lavoratori licenziati siano fungibili con altri dipendenti di settori dell’impresa non toccati dalla procedura di mobilità. Una recente sentenza della Cassazione riaccende le luci su questo tema spinoso, questione sempre d’attualità nonostante l’attuale divieto di licenziamento, anche collettivo, posto dal Legislatore in ragione del perdurare della pandemia.

 

L’attuale blocco delle procedure di licenziamento collettivo

Come ormai universalmente noto, in ragione della necessità di arginare, almeno temporaneamente, i devastanti effetti sull’occupazione dell’attuale crisi pandemica, sono stati vietati dal Legislatore “dell’emergenza”, a decorrere dal 17 marzo 2020, i licenziamenti economici sia individuali che collettivi. Da ultimo, con la Legge di Bilancio per il 2021 (L. 178/2020), il Governo è nuovamente intervenuto su tale divieto di licenziamento prevedendo (articolo 1, commi 309 e 310) un’ulteriore proroga al 31 marzo 2021 della proibizione di procedere a licenziamenti per gmo., confermando l’impostazione del D.L. Ristori (DL. 137/2020) che aveva eliminato i problematici termini “mobili” (legati all’utilizzo della cassa integrazione o dello sgravio) del divieto del precedente Decreto Agosto. In particolare, per i licenziamenti collettivi, è attualmente previsto come, fino al 31 marzo 2021, sia precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, L. 223/1991, e siano, altresì, sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020 (nonché, per logica conseguenza, anche quelle avviate prima di tale data, ma non concluse), fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di Legge, di Ccnl o di clausola del contratto di appalto.

Eccezioni al divieto di dar corso alla procedura di esubero collettivo si rinvengono, viceversa, nei predetti provvedimenti, in queste ipotesi: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, e nei casi in cui, nel corso della liquidazione, non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano rappresentare un trasferimento d’azienda ai sensi dell’articolo 2112, cod. civ.; inoltre, nessun divieto anche in caso di fallimento dell’impresa, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio della stessa e, nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia, viceversa, disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso. Del tutto peculiare appare, inoltre, l’ulteriore eccezione all’attuale divieto di licenziamento, rappresentata dall’ipotesi di raggiungimento, con i sindacati, di “accordo collettivo aziendale” volto a incentivare la risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente, però, ai lavoratori che aderiscano al predetto accordo. Al riguardo, è stato evidenziato[1] che tali accordi, pur nella vigenza legata al periodo emergenziale, possono di fatto essere considerati dei “surrogati” delle procedure di licenziamento collettivo, pur essendo limitati ai soli casi di non opposizione (rectius, adesione) dei lavoratori alla risoluzione incentivata del loro rapporto di lavoro.

Nonostante tale situazione di blocco dei licenziamenti, anche collettivi, giungono, però, sempre puntuali e ricche di spunti le pronunce della Cassazione in tema: trattasi, ovviamente, di controversie vertenti su procedure anteriori al blocco dei licenziamenti, che offrono, nondimeno, spunti di riflessione per quando, presto o tardi, cesserà l’attuale blocco dei licenziamenti “economici”.

In particolare – ricordando che l’articolo 5, L. 223/1991, individua i criteri di scelta atti all’individuazione dei lavoratori da licenziare, stabilendo, in prima battuta, che tali criteri siano “previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2”, ovvero, in mancanza di tali accordi, nel rispetto dei criteri di carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive e organizzative, applicati in concorso tra loro – si deve sempre tenere presente, prima di adottare i criteri pattizi o legali per la scelta dei dipendenti da porre in esubero, che il datore di lavoro deve individuare l’ambito aziendale in cui operare il vaglio, che, secondo la norma, dovrebbe avvenire “in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale”. In tale contesto l’apprezzamento della fungibilità del lavoratore all’interno del complesso aziendale riveste importanza rilevante per la validità stessa della procedura di licenziamento collettivo.

 

La sentenza della Cassazione n. 21306/2020

Così, la Sezione lavoro della Suprema Corte è stata di recente chiamata a valutare la validità di una procedura di licenziamento collettivo (datata 2016) che era stata impugnata da un dipendente posto in esubero e che era approdata, in sede di rito Fornero (essendo il lavoratore un “vecchio assunto” ante tutele crescenti), all’attenzione del giudice di primo grado, che ne aveva decretato l’illegittimità, statuizione confermata dalla Corte d’Appello di Napoli. La Corte partenopea, infatti, aveva ritenuto che il licenziamento collettivo intimato da una società (attiva nel campo delle telecomunicazioni) al lavoratore, impiegato presso una delle diverse sedi aziendali (quella di Casavatore, nel napoletano), era risultato affetto da violazione procedurale, poiché l’ambito aziendale di scelta dei lavoratori da porre in esubero era stato immotivatamente limitato dal datore di lavoro a tale sola sede. Ciò, viceversa, in una rappresentazione – all’interno della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo – di uno stato di crisi aziendale generalizzata, dovuta alla perdita di importanti commesse. Secondo i giudici campani, tale comunicazione è risultata carente, in particolare, della descrizione della situazione specifica del personale delle altre unità produttive della società: informazioni necessarie, secondo la Corte, ai fini della valutazione dell’infungibilità e della dedotta “obsolescenza” delle mansioni svolte dagli addetti alla sede reputata in crisi, con conseguente assenza di giustificazione della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare alla sola sede di Casavatore. Ciò aveva comportato, secondo i giudici partenopei, la violazione dei criteri di scelta, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria prevista dall’articolo 18, comma 4, St. Lav..

La società ricorreva allora in Cassazione per mancata corretta valutazione, da parte dei giudici d’Appello, sia dell’indicazione – nella comunicazione di apertura della procedura – della perdita delle ultime 2 commesse attive nella sede di lavoro del lavoratore licenziato sia della distanza notevole degli altri siti produttivi della società: tali circostanze costituivano senz’altro, a detta del datore di lavoro, un chiaro indice d’infungibilità delle posizioni lavorative. Secondo l’azienda, inoltre, la L. 223/1991 richiederebbe esclusivamente l’indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura, dei motivi dell’eccedenza e di quelli per cui si ritiene di non poter evitare i licenziamenti. Nel caso di specie, l’indicazione sarebbe stata soddisfatta, secondo parte ricorrente, dalla descrizione della situazione di crisi dell’unità produttiva di Casavatore, che aveva perso le uniche 2 commesse attive. Inoltre, secondo la società, sarebbe stato inutile procedere, altresì, alla descrizione della situazione di tutte le altre unità produttive, collocandosi le stesse a notevole distanza dalla sede in crisi ed essendo dotate di autonomia produttiva, escludendosi, quindi, la fungibilità con gli addetti alla sede napoletana.

A fronte di tali motivi di ricorso da parte della società, la Cassazione, con l’ordinanza n. 21306/2020, ha confermato le valutazioni di merito circa l’illegittimità del licenziamento irrogato, rigettando il ricorso del datore di lavoro.

Nella pronuncia in esame la Suprema Corte ha evidenziato e ribadito, in tema di licenziamento collettivo, i seguenti principi:

  • in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, tuttavia, è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di apertura della procedura (ex articolo 4, commi 2 ss., L. 223/1991), essendo onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata;
  • il datore di lavoro può, quindi, circoscrivere a una particolare unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare, ma deve indicare nella comunicazione alle organizzazioni sindacali sia le ragioni che limitano i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui sia possibile ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine, ciò al fine di consentire ai sindacati di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti e il nesso fra le ragioni che determinano l’esubero di personale e i dipendenti che l’azienda intende concretamente espellere. Ciò comporta che, qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati siano da considerarsi illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali;
  • la limitazione dell’ambito aziendale in cui operare la scelta dei dipendenti deve escludersi ove i lavoratori da licenziare siano idonei, per acquisite esperienze oppure per pregresso e frequente svolgimento della propria attività, in altri reparti dell’azienda, con positivi risultati, a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti o sedi e siano, quindi, fungibili con altri lavoratori addetti a unità o reparti non toccati dagli esuberi. Così, la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità è condizionata dalle informazioni acquisite in sede di esame congiunto, nel senso cioè che, ove non emerga il carattere infungibile dei lavoratori in esubero presso il delimitato reparto o, comunque, in difetto di situazioni particolari evidenziate sempre in sede di esame congiunto, la scelta deve interessare i lavoratori addetti all’intero complesso aziendale.

Applicando i principi sopra esposti, la Cassazione ha rilevato che l’infungibilità del personale operante presso la sede napoletana dell’azienda, e l’affermata “obsolescenza” del bagaglio professionale vantato dai dipendenti addetti a tale sede, non aveva costituito oggetto della comunicazione di apertura della procedura di mobilità, avendo addirittura la società affermato di aver proposto un piano di riqualificazione di tutto il personale della sede partenopea, senza descrivere la specifica situazione delle altre sedi dell’impresa (Roma, Milano, Venezia), circostanza che avrebbe consentito un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale. Così, la Cassazione ha ritenuto l’indispensabilità, per un effettivo controllo sindacale della procedura di mobilità, anche delle informazioni – in sede di comunicazione di apertura della procedura – delle specifiche condizioni in cui lavoravano gli addetti delle altre sedi e delle ragioni per cui non si era ritenuto di estendere la selezione pure agli addetti delle altre strutture aziendali.

Gli Ermellini hanno, quindi, rigettato il ricorso proposto dalla società, confermando l’illegittimità del licenziamento intimato e la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

 

Fungibile o non fungibile, questo è il problema

Parafrasando il Bardo, si può affermare che il tema della fungibilità o meno dei dipendenti – strettamente connesso all’eventuale riduzione del perimetro aziendale in cui operare la scelta dei dipendenti da porre in esubero – rappresenti uno degli aspetti più problematici della procedura di licenziamento collettivo. Come opera tale principio e in che modo il datore di lavoro, apprestandosi ad aprire una procedura di licenziamento collettivo, deve uniformarsi ad esso?

La Cassazione, anche di recente, ha provato a dare risposta a questi dilemmi, che possono affliggere qualsiasi datore di lavoro alla stregua di un dubbioso Principe di Danimarca.

In un primo caso, la Suprema Corte (Cassazione n. 981/2020) ha ribadito il principio che la comparazione dei lavoratori – al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità – può non necessariamente interessare l’intero complesso aziendale, ma può avvenire (secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive) nell’ambito della singola unità produttiva, a condizione che la predeterminazione del limitato campo di selezione sia giustificata dalle suddette esigenze tecnico-produttive e organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale, dovendosi escludere la sussistenza di dette esigenze ove i lavoratori da licenziare siano idonei, per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda, con positivi risultati, a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti o sedi.

Così, la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari dal provvedimento di messa in mobilità è condizionata agli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, nel senso cioè che, ove non emerga il carattere infungibile dei lavoratori collocati in Cigs o comunque in difetto di situazioni particolari evidenziate sempre in sede di esame congiunto, la scelta deve interessare i lavoratori addetti all’intero complesso aziendale.

Ancora, di recente (Cassazione n. 3628/2020), si è stabilito come non possa essere ritenuta legittima, nell’ambito del licenziamento collettivo, la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altri settori dell’impresa. Al riguardo bisogna fare attenzione alla distinzione tra fungibilítà delle mansioni e repêchage: la prima, consistendo nell’interscambiabilità dei lavoratori di un settore colpito dalla riorganizzazione con quelli di altri settori o reparti non interessati, comporta l’ampliamento della platea dei lavoratori interessati dagli esuberi; il repêchage è, invece, come noto, un istituto sostanzialmente incompatibile con il licenziamento collettivo e che riguarda la dimostrazione dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore in altro settore aziendale. Inoltre, nella procedura di mobilità, la valutazione della fungibilità delle mansioni non può dirsi effettivamente compiuta con il mero richiamo ai “profili professionali”, bensì alle effettive mansioni, che sole ne consentono una comparazione concreta al fine di apprezzare la fungibilità dei lavoratori di un settore colpito dalla riorganizzazione con quelli di altri settori o reparti non interessati. Ciò al fine di poter verificare il possesso di professionalità equivalente, in funzione di un’utile collocazione nell’assetto organizzativo dell’impresa, dovendosi ribadire che il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei, per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda, a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti e, quindi, siano “fungibili”, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori esclusivamente impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altri settori aziendali (Cassazione n. 7166/2019).

Ma in che cosa consiste, in concreto, questa fungibilità che, dalle pronunce esaminate, appare oggetto da manipolare con cautela?

La Cassazione, sul punto, ha recentemente stabilito (Cassazione n. 24882/2019) che la valutazione della fungibilità, nella comparazione dei lavoratori da licenziare, implica “la necessità di ricostruzione del complessivo bagaglio di esperienza e conoscenza del lavoratore onde verificare la effettiva sussistenza di professionalità omogenee da mettere a confronto”. Inoltre, la fungibilità stessa non può essere collegata esclusivamente alle mansioni svolte dal lavoratore al momento del licenziamento, ma occorre “una più complessiva valutazione della sua professionalità che tenga conto delle esperienze pregresse, della formazione, del bagaglio di conoscenze acquisito”.

Bisogna evidenziare inoltre che, secondo recente giurisprudenza (Cassazione n. 31525/2019), non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con colleghi di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo, atteso che, ove sia mancato l’accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali, operano i criteri legali sussidiari previsti dall’articolo 5, comma 1, L. 223/1991, norma che non contempla tra i suoi parametri la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo alla regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro.

In sostanza, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, non sarebbe, quindi, valido il criterio di “ragionevolezza geografica”, teso, in ipotesi, a limitare l’ambito di scelta a unità produttive che non siano troppo distanti le une dalle altre e ad evitare all’impresa (ma anche ai lavoratori interessati dagli eventuali trasferimenti) costi e sforzi organizzativi troppo rilevanti in un’riorganizzazione che comporterebbe lo spostamento di maestranze anche su tutto il territorio nazionale.

Massima attenzione, quindi, all’aspetto della fungibilità, poiché, secondo la più recente Cassazione, nemmeno il raggiungimento dell’accordo sindacale all’esito della consultazione sindacale sarebbe in grado di superare il deficit informativo iniziale del datore di lavoro che avesse omesso, nella lettera di apertura della procedura, opportune notizie anche sugli altri settori della propria azienda (in ipotesi non toccati dal ridimensionamento aziendale) e sull’infungibilità tra posizioni lavorative in esubero e posizioni mantenute. Infatti, in tema di licenziamento collettivo, la sufficienza e l’adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura vanno valutate in relazione alla finalità della corretta informazione delle organizzazioni sindacali, che può ritenersi in concreto raggiunta nel caso venga successivamente stipulato l’accordo che, però, può non costituire totale sanatoria dei vizi della procedura, restando per il giudice l’obbligo della verifica in sede di merito circa l’effettiva completezza della comunicazione. Ciò può avvenire quando, malgrado sia intervenuto accordo sindacale, le OO.SS. non siano state poste in grado di partecipare alla trattativa con piena consapevolezza a causa delle insufficienze della comunicazione iniziale, in particolare al riguardo delle ragioni che impongano al datore di lavoro la delimitazione dell’ambito della scelta dei dipendenti da licenziare a particolari settori o sedi dell’impresa e non all’intera azienda.

In conclusione, quando terminerà l’attuale periodo di “sospensione” delle procedure collettive, i datori di lavoro in procinto di dar corso a licenziamenti collettivi dovranno sempre tenere presente, come insegna la più recente giurisprudenza della Cassazione, che nel caso il progetto di ristrutturazione dell’impresa si riferisca in via esclusiva a uno o più reparti, la comparazione dei lavoratori può essere più ristretta rispetto all’intero complesso aziendale, ma ciò solo nel caso che gli addetti al reparto soppresso siano portatori di specifiche professionalità non omogenee a quelle dei restanti reparti, che ne rendano impraticabile la comparazione con gli altri dipendenti. Viceversa, quando i profili in esubero, come indicati nella lettera di apertura della mobilità, siano fungibili, anche per pregressa professionalità, con quelli di lavoratori di altri settori dell’impresa, l’ambito di scelta va sicuramente esteso ad essi.

[1] Si veda, per maggiori ragguagli, E. Frigerio, Gli accordi di incentivo all’esodo nel Decreto Agosto (e nel Decreto Ristori), in “Il giurista del lavoro” n. 11/2020.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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