1 Aprile 2020

I licenziamenti ai tempi del coronavirus

di Evangelista BasileRosibetti Rubino

Con il D.L. 18/2020, il c.d. Cura Italia, il Governo è intervenuto per introdurre alcune misure economiche di sostegno a favore di lavoratori e aziende per far fronte all’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del COVID-19. Tra i più svariati provvedimenti, spiccano, in particolare, quelli relativi ai licenziamenti o, per meglio dire, ai divieti (o sospensione) di licenziamento, di cui agli articoli 23, comma 6, 46, e 17, comma 2, D.L.: figli dell’inevitabile urgenza di emanazione della norma, lasciano aperti diversi dubbi.

 

Le limitazioni alla facoltà di licenziamento nel Cura Italia

Il D.L. 18/2020, rubricato “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, introduce diverse limitazioni alla possibilità del datore di lavoro a procedere al recesso dal rapporto, in particolare agli articoli 23, comma 6, e 46.

L’articolo 23, in generale, si occupa conseguentemente e fino alla sospensione delle attività scolastiche dell’introduzione di un congedo straordinario di 15 giorni per i lavoratori con figli di età non superiore ai 12 anni (oltre che di un ulteriore congedo, seppur non retribuito, per i figli di età compresa fra i 12 e i 16), a condizione che nessun altro lavoratore del nucleo familiare usufruisca di benefici tali da permetterne la permanenza presso la propria abitazione.

Il comma 6 del suddetto articolo, in relazione ai lavoratori che usufruiscano del congedo non retribuito, introduce un vero e proprio divieto di licenziamento e afferma espressamente, dunque, che detti lavoratori “hanno diritto di astenersi dal lavoro per il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro”.

Si tratta, in sostanza, di un caso tipizzato di giustificata assenza dal lavoro (o diritto potestativo di astensione dal lavoro), cui corrisponde – logicamente – il divieto di recesso per quella specifica ragione.

A nostro avviso, in sostanza, il Legislatore non ha voluto introdurre un divieto generale di recedere dal rapporto con i lavoratori che si trovino in quella particolare situazione, ma un divieto di esercitare il recesso motivato dalla particolare astensione dal lavoro giustificata. Ad esempio, il datore di lavoro potrebbe ben licenziare quel o quella dipendente laddove venisse a conoscenza di un fatto disciplinarmente rilevante integrante giusta causa, che nulla ha a che fare con la predetta giustificata astensione (che, in quanto giustificata ex lege, non potrà in nessun caso rilevare dal punto di vista disciplinare quale inadempienza).

Il seguente articolo 46, D.L. 18/2020, va sicuramente oltre, a partire dalla stessa rubrica “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”, che lascerebbe presagire un diverso contenuto della norma, che, in realtà, si sostanzia poi in un divieto per i datori di lavoro di procedere a licenziamenti, individuali e collettivi, per giustificato motivo oggettivo.

Tale articolo, infatti, afferma: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Una prima riflessione merita infatti proprio la questione relativa alla rubrica dell’articolo 46: fermo il brocardo secondo cui “Rubrica legis non est lex”, la sospensione delle impugnazioni di licenziamento non è stata poi riproposta all’interno della norma. Che l’intenzione del Legislatore, infatti, fosse comunque quella di sospendere (anche) i termini di impugnazione sembrerebbe essere confermata dalla relazione illustrativa del Decreto, che recita: “la norma dispone che a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto è precluso per 60 giorni l’avvio delle procedure di impugnazione dei licenziamenti individuali e collettivi e che nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti“.

Certo, la disposizione – nel suo complesso rubrica-contenuto – non è comunque chiara e rimane così un punto aperto su cosa ne sarà dei termini giudiziali (per certi versi mitigati dalle previsioni in termini di sospensione degli atti giuridici) e (soprattutto) stragiudiziali di impugnazione del licenziamento, che – prudenzialmente – si ritiene vadano comunque rispettati per evitare di incorrere in spiacevoli decadenze.

Infine, un’ulteriore limitazione alla facoltà di licenziamento è introdotta dall’articolo 47, comma 2, D.L. 18/2020, che così recita: “Fermo quanto previsto dagli articoli 23, 24 e 39 del presente decreto e fino alla data del 30 aprile 2020, l’assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità non può costituire giusta causa di recesso dal contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile, a condizione che sia preventivamente comunicata e motivata l’impossibilità di accudire la persona con disabilità a seguito della sospensione delle attività dei Centri di cui al comma 1 [NdA, tutti i centri destinati a persone con disabilità]”.

Tale ultima norma, come abbiamo già visto per l’articolo 23, introduce un ulteriore diritto potestativo all’astensione dal lavoro (previa, però, comunicazione dell’impossibilità di accudimento del figlio disabile causata dalla sospensione delle attività dei centri). Come era per i congedi, anche in questo caso la facoltà di recesso per giusta causa è limitata per il solo caso di contestazione d’assenza e non è, a nostro avviso, estensibile ad altre mancanze disciplinarmente rilevanti (né è impedito al datore di lavoro il recesso per giusta causa nell’ipotesi di esercitata astensione dal lavoro, priva tuttavia dei requisiti previsti dalla norma in esame: si tratterebbe anche in questo caso di assenza ingiustificata e abuso del diritto).

Questo, insomma, il nuovo scenario normativo in cui si muove il potere di recesso del datore di lavoro ai tempi dell’emergenza da COVID-19, della cui fine – purtroppo – nessuno riesce a dare conferme. Tale incertezza si ripercuote ovviamente anche sui tempi di validità delle norme citate: i permessi sono, infatti, legati a un indefinito lasso temporale, legato alla sospensione delle attività didattiche; i licenziamenti a un termine di 60 giorni che nulla esclude, visti i recenti accadimenti, possa essere prorogato, lasciando così nel limbo anche tutti quei recessi che avevano già iniziato a vedere la luce, in termini procedurali, prima dell’introduzione del decreto.

 

Quale, quindi, lo stato dell’arte?

La nuova normativa, come spesso accade in questo Paese anche in situazioni del tutto “ordinarie”, ci si figuri adesso, paga lo scotto della fretta nell’emanazione dei provvedimenti.

In particolare, il divieto di licenziamento di cui all’articolo 23, comma 6, presenta alcuni profili di incertezza:

  • il primo, in relazione alla durata di tale nuovo diritto potestativo del lavoratore di astenersi dalla prestazione lavorativa (nessuno può adesso immaginare se e quando verranno riaperte le istituzioni scolastiche). A riguardo occorre segnalare, comunque, che – sebbene non previsto dalla norma – il messaggio Inps n. 1281/2020 conferma la durata di 15 giorni anche per il congedo non retribuito;
  • il secondo, nonché in relazione – soprattutto in alcuni settori ad oggi, post Decreto 22 marzo 2020, di sospensione delle “attività non essenziali”, ancora operativi – all’esigenza di continuità dei servizi essenziali e ai diritti dei lavoratori di astensione.

Insomma, come può muoversi il datore di lavoro al fine di evitare di ritrovarsi privo del personale necessario alla prosecuzione dell’attività (fra l’altro appena definita indispensabile dallo stesso Governo artefice del decreto in commento)?

Gli strumenti, in realtà, sono ben pochi. Infatti, mentre il successivo articolo 24, sull’aumento dei permessi ex articolo 33, L. 104/1992, espressamente stabilisce – per il personale sanitario – la compatibilità dell’utilizzo degli stessi da parte dei lavoratori con le esigenze organizzative delle aziende in cui operano, nulla di tutto ciò è, invece, stato previsto per il congedo straordinario.

L’unica “arma”, se così si può dire, del datore di lavoro (e di riflesso, anche dell’utenza che utilizza le attività essenziali ancora rimaste operative) sembra essere riposta nel buon senso dei lavoratori richiedenti, in primis, e della capacità di organizzazione in turni delle aziende, in secondo luogo, le quali possono tutelarsi solo operando uno stringente controllo sul possesso dei requisiti previsti dalla Legge da parte dei richiedenti.

Ciò che rimane è comunque l’introduzione di un diritto potestativo del lavoratore di astensione dalla prestazione – e ciò vale tanto per l’articolo 23, comma 6, quanto per l’articolo 47, comma 2 – che renderebbe del tutto illegittimo, per espressa previsione normativa, il recesso dal rapporto di lavoro. Ovviamente, tale previsione non opererebbe nel caso in cui il lavoratore congedato non risulti poi in possesso dei requisiti ivi previsti, poiché in tal caso l’assenza si tramuterebbe in assenza ingiustificata, la quale – come qualsiasi ulteriore giusta causa estranea alla fruizione del permesso – renderebbe legittimo il licenziamento.

Ma la situazione non è delle più rosee neppure se si analizza quanto previsto dall’articolo 46 citato: a giudicare dalla lettura della norma, infatti, per 60 giorni a partire dall’entrata in vigore del Decreto, i datori di lavoro non possono procedere all’avvio delle procedure di licenziamento collettivo nonché ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. Tale sospensione dei licenziamenti per motivi di natura economica sembra, inoltre, riguardare anche le procedure avviate dopo il 23 febbraio e non ancora concluse, tanto con riguardo alla L. 223/1991, quanto all’articolo 7, L. 604/1966.

Insomma, se la lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è stata ancora ricevuta dal lavoratore, quel licenziamento – a prescindere dalla fase procedurale in cui si trovava all’entrata in vigore del Decreto – è congelato. Ovviamente, invece, ove la lettera di licenziamento fosse già stata consegnata, quel recesso è da ritenersi del tutto valido ed efficace.

Cosa succede invece ai licenziamenti che non rientrano strettamente in quelli citati dalla Legge?

Innanzitutto, è il caso di sgombrare il campo da equivoci: i licenziamenti disciplinari possono ancora essere intimati e non ricadono in nessun modo nella sospensione di cui si è detto.

Ma vi sono categorie di licenziamenti sicuramente più borderline: si pensi ai licenziamenti in prova o per superamento del periodo di comporto o per intervenuta inidoneità psico-fisica.

Ebbene, per quel che riguarda i licenziamenti in prova, non rientrando a nostro avviso nelle casistiche previste dalla Legge, non dovrebbero trovarsi in questa condizione di sospensione, potendo ben essere intimati.

Rimangono, però, ovviamente i soliti limiti a tale ultimo tipo di licenziamento, quali ad esempio la dimostrazione di aver messo il lavoratore nelle condizioni di svolgere il periodo di prova, ciò che può essere più difficoltoso in una situazione, quale quella che stiamo vivendo, caratterizzata da sospensioni forzate delle attività.

Ma anche i licenziamenti per superamento del comporto, che, come noto, non rientrano nei licenziamenti di carattere disciplinare, ma semmai nel giustificato motivo oggettivo imputabile alla sfera del lavoratore, è da escludere che possano ricadere nel divieto di recesso in esame, poiché trovano fondamento in una diversa norma – non citata dal Legislatore – che è l’articolo 2110, cod. civ..

Un’ultima riflessione, invece, è da farsi sui licenziamenti per sopravvenuta inidoneità psico-fisica, i quali rientrano nella previsione di cui all’articolo 3, L. 604/1966, e, come tali, risulterebbero soggetti alla sospensione prevista dalla norma.

Questo, dunque, lo stato dell’arte, stretto ancora tra il proliferare giornaliero di Decreti e i vuoti legislativi che l’emergenza porta inevitabilmente con sé.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

Licenziamenti e dimissioni