9 Ottobre 2019

“Stranger Things”: criteri di scelta nel licenziamento collettivo e fungibilità delle mansioni

di Edoardo Frigerio

La procedura di licenziamento collettivo, dopo quasi un trentennio, presenta ancora molteplici aspetti di criticità che emergono spesso all’esito di contenziosi promossi da lavoratori che si ritengono illegittimamente posti in esubero. Tra le “Strane Cose” che si manifestano in occasione delle vertenze, sicuramente vi è, nell’ambito dell’applicazione dei criteri di scelta, l’incognita della fungibilità tra lavoratori del settore produttivo dell’impresa oggetto della riorganizzazione o del ridimensionamento e lavoratori di altri ambiti aziendali non toccati dalla procedura di riduzione. La recente pronuncia n. 301/2019 della sezione lavoro della Corte d’Appello di Milano pone l’attenzione sulla questione, nell’alveo di altrettanto recenti arresti giurisprudenziali che stanno consolidando principi che è opportuno tenere in considerazione nell’approccio alla gestione delle procedure ex L. 223/1991.

 

Criteri di scelta e licenziamento collettivo: i capisaldi

Le procedure di licenziamento collettivo di grandi e medie aziende rimangono, purtroppo, frequenti e diffuse su tutto il territorio italiano, segno che il tessuto industriale nazionale risulta ancora in sofferenza dopo la grave crisi internazionale della fine degli “anni zero“. Si potrebbe pensare che, dopo quasi trent’anni dall’entrata in vigore della L. 223/1991, vi siano ormai solo punti fermi e sicurezze. Tuttavia, la frequenza e soprattutto l’incertezza dei contenziosi che hanno ad oggetto proprio la valutazione dei criteri di scelta e la loro applicazione negli esuberi da parte della magistratura del lavoro (come si vedrà con evidenza nella recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano in commento) impone una periodica rivisitazione delle regole che sovraintendono alla complessa (per non dire “bizantina”) procedura di mobilità.

Appare, quindi, opportuno ricordare quali siano i principi posti dalla L. 223/1991 per la corretta scelta dei lavoratori da porre in esubero. In sintesi:

  • l’articolo 5, comma 1, L. 223/1991, che individua, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, i criteri di scelta atti all’individuazione dei lavoratori da licenziare, dispone in primis che tali criteri siano “previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2”;
  • sempre il comma 1 stabilisce che, nel caso non vi siano tali accordi, debbano operare i criteri dei carichi di famiglia, dell’anzianità (aziendale) e delle esigenze tecnico-produttive e organizzative, applicati in concorso tra loro;
  • la norma prevede anche che la scelta debba avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale. L’ambito aziendale può quindi essere esteso, di norma, a tutte le sedi, stabilimenti, filiali e unità locali dell’azienda. Però, il richiamo presente nella norma alle “esigenze tecnico-produttive ed organizzative” dell’impresa ha fatto sì che possa ritenersi, a fronte di tali comprovate esigenze oggettive, che l’ambito di scelta possa essere limitato a un individuato settore o unità produttiva dell’impresa, specie in presenza di accordi sindacali e di oggettive motivazioni produttive. In mancanza di accordi, la limitazione dell’ambito aziendale in cui operare la scelta appare più problematica nel caso venga, appunto, disposta unilateralmente dal datore di lavoro, soprattutto quando vi siano figure professionali omogenee e quindi fungibili nel complesso aziendale;
  • se il criterio di scelta deriva da accordo, sottoscritto all’esito della procedura di consultazione sindacale o amministrativa, non può però essere contrario a principi costituzionali o a norme imperative di legge e deve rispettare i principi di razionalità e non discriminazione, dovendo avere i caratteri dell’obiettività e della coerenza con il fine della mobilità dei lavoratori: sono, pertanto, ritenuti validi, in via di principio, i criteri di scelta dell’esodo volontario e della “non opposizione” al licenziamento oppure quelli del possesso dei requisiti pensionistici o della maggiore vicinanza alla pensione.

Se queste sono le regole, non sempre ne è agevole la declinazione sul piano pratico, come dimostra una recente pronuncia della sezione lavoro della Corte d’Appello di Milano, chiamata a esprimersi su un caso di impugnazione di un licenziamento collettivo in relazione alla fungibilità delle mansioni del lavoratore posto in esubero.

 

La pronuncia della Corte d’Appello di Milano n. 301/2019: la fungibilità fa crollare il “castello di carte”

Una lavoratrice, “vecchia assunta” e fuori quindi dalle “tutele crescenti” del 2015, aveva impugnato il recesso intimato dal datore di lavoro all’esito di una procedura di riduzione del personale. Il Tribunale di prime cure, nonostante fosse stato sottoscritto accordo sindacale con il quale, per un verso, l’ambito aziendale entro il quale operare la scelta dei lavoratori eccedentari era stato circoscritto a un determinato stabilimento industriale del milanese e, per altro verso, era stato individuato quale criterio di scelta prioritario per operare detta selezione (quella delle “esigenze tecnico produttive”), aveva evidenziato che la ricorrente era stata scelta quale lavoratrice da licenziare senza che fosse stata effettuata alcuna valutazione in merito alla fungibilità professionale della suddetta con altri lavoratori del medesimo livello presenti nello stabilimento. Inoltre, il Tribunale aveva altresì evidenziato, all’esito della prima fase del rito Fornero, che non vi era traccia, nelle comunicazioni di avvio e chiusura della procedura, delle ragioni per cui gli altri dipendenti dello stesso livello della lavoratrice erano stati ritenuti infungibili rispetto alla stessa.

La lavoratrice veniva così reintegrata nel posto di lavoro, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, L. 223/1991, che prevede come noto, in caso di violazione dei criteri di scelta, l’applicazione dell’articolo 18, comma 4, St. Lav.; il Tribunale, nelle motivazioni dell’ordinanza, ha richiamato un precedente della Cassazione che ha precisato come, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione appunto al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia, hanno precisato gli Ermellini, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere appunto ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.

La società datrice di lavoro proponeva, quindi, reclamo avanti alla Corte d’Appello distrettuale, evidenziando che l’ambito aziendale entro cui effettuare la scelta dei lavoratori eccedentari era stato limitato allo stabilimento milanese in forza di accordo sindacale che ciò espressamente aveva autorizzato. Infatti, tale stabilimento era stato oggetto di un intervento di riorganizzazione aziendale che aveva comportato la dismissione del reparto produttivo cui la dipendente era addetta, reparto la cui gestione era stata in parte trasferita in altro stabilimento e in parte, per il tramite di un affitto d’azienda, a un soggetto terzo. Sul piano concreto la reclamante ha precisato, sul punto, che gli unici 4 dipendenti che, all’esito della riorganizzazione, erano rimasti in forza nello stabilimento milanese, erano impiegati addetti a reparti diversi da quello produttivo cui, invece, era preposta la lavoratrice licenziata.

La società, quindi, criticava la decisione del Tribunale, in quanto non aveva considerato che l’accordo sindacale aveva derogato ai criteri di scelta legali, indicando appunto quale criterio prioritario quello delle esigenze produttive: quindi non era corretto imporre al datore di lavoro la comparazione della lavoratrice con altri impiegati, pur di pari livello, addetti a reparti diversi da quello produttivo. Ad avviso della società, erroneamente il primo giudice non aveva considerato che le mansioni che la dipendente aveva svolto in azienda (dapprima impiegata con mansioni di segretaria di produzione e di addetta alla gestione amministrativa dello smaltimento rifiuti; successivamente destinata al magazzino con mansioni di controllo manuale) non esistevano più e che, con riguardo in particolare al ruolo d’addetta al magazzino, la comunicazione di apertura della procedura esplicitamente indicava il profilo come eccedentario e in ogni caso, dimostrando (a detta del datore di lavoro) le risultanze documentali acquisite al processo di primo grado come la stessa non fosse fungibile con gli altri impiegati rimasti in forza.

La Corte d’Appello, nella propria decisione n. 301/2019, si è soffermata in primo luogo sulla lettera di apertura della procedura di mobilità, che, dopo l’elenco dei profili professionali reputati eccedentari (tra i quali quello di “assistente magazzino materiali ausiliari/confezionamento”, attività da ultimo svolta dalla lavoratrice), ha indicato che “l’individuazione dei dipendenti eccedentari verrà effettuata mediante comparazione all’interno dell’intero complesso aziendale con particolare riferimento alle esigenze tecnico produttive e più specificatamente attraverso il mantenimento al lavoro delle professionalità specifiche acquisite nell’ambito dell’utilizzazione degli impianti. A pari professionalità verrà dato ingresso alla valutazione comparata dei criteri dell’anzianità e dei carichi di famiglia. Solo in caso di specifico accordo sindacale l’individuazione delle unità eccedentarie verrà effettuata con esclusivo riferimento al sito produttivo di …”.

L’accordo poi concluso tra azienda e organizzazioni sindacali aveva previsto che la comparazione dei criteri, così come prevista dall’articolo 5, L. 223/1991, trovasse applicazione limitatamente alle unità lavorative impiegate nello stabilimento milanese e che la stessa venisse effettuata seguendo il criterio prioritario delle esigenze tecnico-produttive e organizzative e, in caso di situazioni non risolvibili sulla base del criterio citato (cioè nel caso di sostanziale equivalenza delle posizioni), facendo riferimento al criterio dei carichi di famiglia e, successivamente, al criterio dell’anzianità aziendale.

Secondo la Corte d’Appello emergeva la correttezza delle decisioni del primo grado proprio dall’esame coordinato della lettera di apertura della mobilità e dell’accordo sindacale e in particolare:

  1. in ragione della natura e dei contenuti della progettata ristrutturazione, con accordo sindacale è stato legittimamente stabilito che l’individuazione delle 98 risorse eccedentarie venisse effettuata entro la platea dei 126 addetti nello stabilimento milanese, senza coinvolgimento del personale operante nella diversa unità locale toscana della società;
  2. dai medesimi documenti emergeva anche la necessità di eliminare il reparto produttivo e di stoccaggio e di ridimensionare il complessivo assetto impiegatizio dello stabilimento lombardo, con riduzione anche del personale appartenente a quest’ultima categoria;
  3. in alcun modo era, invece, affermato quanto sostenuto dal datore di lavoro ovvero che la scelta del personale impiegatizio andasse semplicemente individuato in quello adibito al reparto produttivo. Infatti, nella comunicazione di avvio della procedura non erano state individuate specifiche e verificabili esigenze tecnico-produttive dalle quali far discendere la necessità di escludere una comparazione di professionalità tra gli impiegati addetti ai vari reparti per individuare quali licenziare e quali, invece, mantenere in servizio.

Pertanto, la Corte d’Appello ha affermato che, trattandosi di lavoratrice con inquadramento di impiegata, con pregressa esperienza in altri ruoli impiegatizi, la società avrebbe dovuto effettuare verifica comparativa con il resto del personale con professionalità fungibile, individuando ex ante, ai fini di effettuare il raffronto e orientare la scelta, criteri valutativi certi e verificabili. Ciò alla luce del contenuto della lettera di apertura della mobilità e del successivo accordo sindacale, per riuscire a valutare se fosse proprio la licenziata, tra gli impiegati in servizio, a dover essere individuata quale esubero.

La Corte territoriale ha ratificato, quindi, la pronuncia del Tribunale di Milano, con la conferma che l’omissione di tale individuazione di criteri oggettivi e verificabili si è, quindi, tradotta in vizio nell’applicazione dei criteri di scelta stessi, con la conseguenza, secondo quanto stabilito dall’articolo 5, comma 3, L. 223/1991, dell’applicazione della “reintegrazione attenuata”, ex articolo 18, comma 4, L. 300/1970.

La sentenza d’Appello ha poi rilevato che vi era comunque un “peccato originale” commesso in precedenza dalla società nei confronti della lavoratrice: la reclamante aveva individuato, infatti, la lavoratrice come eccedentaria, in quanto questa svolgeva presso lo stabilimento milanese, da ultimo, mansioni di “assistente magazzino”, profilo professionale indicato come eccedentario della comunicazione di apertura, in ragione della sostanziale cessazione dell’attività di produzione e stoccaggio presso tale stabilimento. Tuttavia, l’assegnazione di detto profilo professionale alla lavoratrice era frutto di una condotta illecita del datore di lavoro, posto che, in un diverso giudizio tra le parti, era stato accertato che l’assegnazione alla lavoratrice del suddetto ruolo aveva comportato la violazione dell’articolo 2103 cod. civ..

Così, ha concluso la Corte ambrosiana, la soppressione dell’attività lavorativa il cui svolgimento è stato illegittimamente imposto dall’azienda alla lavoratrice non poteva costituire esigenza tecnico-organizzativa idonea a giustificare l’intimazione del licenziamento a una lavoratrice che, in azienda, avrebbe in effetti dovuto occupare posizione e ruolo diverso da quello oggetto della riorganizzazione e dei conseguenti esuberi.

La fungibilità della lavoratrice, non considerata dal datore di lavoro nel momento dell’applicazione del criterio di scelta e la conseguente omissione di “concorso” con altri lavoratori aventi il medesimo profilo professionale operanti nell’azienda, ha quindi comportato la fatale patologia dell’esubero della lavoratrice, con le conseguenze reintegratorie previste automaticamente dall’articolo 5, comma 3, L. 223/1991, per violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 del medesimo articolo.

Non hanno salvato il datore di lavoro – salvo diverso avviso della Cassazione a cui il datore di lavoro sconfitto potrà essersi rivolto – né il raggiungimento dell’accordo sindacale che aveva limitato l’ambito di scelta a un determinato stabilimento, né l’effettiva chiusura del reparto produttivo a cui era addetta la lavoratrice al momento del licenziamento: i pregressi ruoli rivestiti dalla lavoratrice in azienda l’avevano, infatti, resa fungibile con altri lavoratori di categoria impiegatizia non investiti dall’esubero e il mancato concorso con essi nell’applicazione dei criteri di scelta ha determinato l’illegittimità del licenziamento.

 

La giurisprudenza indica la via da seguire per navigare in acque sicure

Veleggiare nell’infido mare del licenziamento collettivo può essere impresa ardua per il datore di lavoro, che può incagliarsi, come visto poc’anzi, nelle secche rappresentate dalla fungibilità dei lavoratori al momento dell’applicazione dei criteri di scelta.

La giurisprudenza, però, detta alcuni principi in merito, lontani fari nella caliginosa navigazione alla ricerca dell’approdo sicuro della procedura ex L. 223/1991:

  • in primo luogo, come evidenziato dalla Corte d’Appello milanese, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale: tuttavia, è bene tenere presente come il datore di lavoro non possa limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore, se essi siano idonei (per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda (ovvero per una specifica professionalità) a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che è illegittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalenti a quella di addetti ad altre realtà organizzative;
  • inoltre, in tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l’organico al fine di diminuire il costo del lavoro, il criterio di scelta (ad esempio la possibilità di accedere al pensionamento) adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali è applicabile a tutti i dipendenti dell’impresa, a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura;
  • infine, qualora la ristrutturazione aziendale debba riferirsi a più unità produttive, ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale a una sola di esse, si determina allora violazione dei criteri di scelta.

Da ultimo, una freschissima pronuncia della Cassazione, la n. 7591/2019, può dare sicuramente indicazioni utili su come destreggiarsi tra reparto produttivo da chiudere o ridimensionare ed eventuale fungibilità dei relativi addetti con maestranze presenti in altri reparti aziendali. Nel caso deciso, le esigenze di riduzione del personale del datore di lavoro erano strettamente collegate a programmi di riconversione industriale, con soppressione di alcune attività all’interno delle aree di produzione e, onde evitare la selezione dei soli lavoratori impiegati nei reparti da sopprimere e garantire, quindi, la comparazione tra tutti coloro che fossero in possesso di professionalità equivalenti (nell’ambito del criterio delle esigenze tecniche, produttive e organizzative), la società aveva individuato 4 sottocriteri, al fine di operare il concorso. La Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento nel caso di specie, poichè è stato individuato, di concerto con le organizzazioni sindacali, un sottocriterio di valutazione dei profili dei vari lavoratori avente a oggetto la “polivalenza” ovvero la “capacità di svolgere mansioni diverse su reparti diversi“. Inoltre, hanno sottolineato gli Ermellini, tutti i 3 criteri legali (carichi di famiglia, anzianità aziendale ed esigenze tecnico-produttive e organizzative) erano stati correttamente considerati e l’articolazione del criterio delle esigenze tecniche, produttive e organizzative in 4 “sottocriteri” – con attribuzione di “diversificati punteggi” – rispondeva proprio alla funzione di comparazione tra tutti i lavoratori aventi mansioni equivalenti nei vari settori di attività produttiva e il sottocriterio della “polivalenza”, appunto intesa come capacità di svolgere mansioni diverse su reparti diversi, era idoneo a valutare la fungibilità tra i vari lavoratori ai fini della corretta applicazione dei criteri di scelta ex articolo 5, L. 223/1991.

La strada segnata da tale ultima pronuncia può, quindi, essere forse quella maggiormente rispondente ed efficace al fine della valorizzazione del ruolo della fungibilità nella scelta dei lavoratori da porre in esubero, con ricorso, quindi, a criteri quanto più oggettivi e verificabili possibile, auspicabilmente condivisi con le organizzazioni sindacali nella procedura di licenziamento collettivo. Altrimenti il ruolo della fungibilità, qualora non correttamente valorizzata dal datore di lavoro, può rischiare di affossare il licenziamento collettivo, come successo nel recente caso giudicato dalla Corte d’Appello di Milano.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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