Se l’arcivescovo di Costantinopoli esternalizzasse, esternalizzeresti anche tu?
di Luca CarattiNon si può che partire dalla domanda elementare, massiva e scalare che svolge un ruolo fondamentale all’interno del modello delle esternalizzazioni; si può intermediare, somministrare, appaltare senza violare la normativa vigente e restando nell’alveo del lavoro regolare?
La risposta, come scrive la circolare n. 11/2019 della Fondazione studi consulenti del lavoro, non può che essere positiva! È certo che, nell’attuale contesto imprenditoriale flagellato ormai da qualche anno dalla crisi, via sia un notevole incremento delle esternalizzazioni volte a contrarre, anche a discapito del lavoro etico e regolare, i costi sostenuti dalle aziende per la gestione del lavoro dipendente. Ma è altrettanto vero che tale situazione palesa il rischio della contestazione dell’interposizione fittizia, della responsabilità solidale, della somministrazione illecita, dello sfruttamento del lavoro i quali offrono apparenti e illusori vantaggi economici, ma in realtà conseguono rischi di dumping sociale e violazione dei diritti dei lavoratori. Non si può, quindi, che salutare con grande entusiasmo la circolare della Fondazione studi che ribadisce la “difesa dei valori” quale linea guida dell’operatività giornaliera dell’imprenditore chiamato a contrastare concorrenti privi di qualsivoglia barlume di regolarità ed eticità. Tradizionalmente l’esternalizzazione, e in particolare il contratto d’appalto, si verifica con maggiore frequenza “negli ambiti dell’attività produttiva nei quali l’imprenditore opera su commissione diretta del cliente per realizzare il prodotto o i prodotti specifici ai quali il cliente stesso aspira, secondo i propri desiderata, senza limitarsi a una produzione seriale e preventivamente determinata”.
Allo stesso modo la medesima figura contrattuale si estrinseca “nell’affidamento, da parte di singole imprese, di uno o più servizi alle cure di altre realtà imprenditoriali o aziendali, non necessariamente da considerarsi minori, specializzate o tecnicamente più attrezzate per l’esecuzione dei servizi stessi”.
È, quindi, evidente che quando si parla di appalto occorre riferirsi a un fenomeno ben più complesso, a un c.d. contratto “matrice”, da cui discendono diverse tipologie negoziali. La matrice è dunque declinata nell’articolo 1655 cod. civ.: vi deve essere un soggetto imprenditoriale il quale si assume il rischio economico della realizzazione dell’opera o del servizio e impieghi una propria organizzazione di mezzi in sostanza che esplichi il potere organizzativo e direttivo. Indici di genuinità della fattispecie negoziale, individuati dalla consolidata giurisprudenza, sono quindi l’assenza di esperienza professionale dell’appaltatore nel settore di riferimento dell’appalto; la diversità tra l’attività svolta dall’appaltatore rispetto a quella che il suo dipendente avrebbe dovuto eseguire presso il committente; l’inesistenza, nella compagine aziendale dell’appaltatore, di personale qualificato e idoneo a svolgere le mansioni connesse alle attività appaltate, l’estraneità dell’oggetto dell’appalto rispetto alle attività normalmente fornite dall’appaltatore, rientranti nel suo oggetto sociale. Ancora, più recentemente, la genuinità dell’appalto, che non sconfina quindi pericolosamente nella somministrazione di lavoro – rileva la più moderna giurisprudenza – si ha quando siano assenti: la richiesta di un certo numero di ore di lavoro da parte del committente; l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente; la mancata identità dell’attività svolta dal personale dell’appaltatore rispetto a quella svolta dai dipendenti del committente; la proprietà, in capo al committente, delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività; l’organizzazione, da parte del committente, delle attività dei dipendenti dell’appaltatore. La circolare della Fondazione studi si sofferma, poi, sulla diversità tra appalto e distacco ricordando come il legittimo distacco si caratterizzi per l’“interesse” del distaccante che deve essere specifico, persistente (per l’intera durata del distacco il quale non può che essere temporaneo), rilevante e concreto. Esso non può consistere in mere ragioni economiche – di fatto non si avrebbe nessuna differenza apprezzabile con la somministrazione – ma deve, ad esempio, caratterizzarsi nell’interesse del distaccante per la specifica formazione erogata dal solo soggetto distaccatario o per esigenze di difesa del posto di lavoro. Accade, nel contesto degli appalti, soprattutto pubblici, che per eludere eventuali divieti di subappalto, si utilizzi fraudolentemente il distacco stesso. Ecco quindi che, ancora una volta, sono utili le precisazioni fornite dalla circolare n. 11/2019 della Fondazione studi consulenti del lavoro, la quale evidenzia le conseguenze civilistiche dell’appalto non genuino: si sarebbe in presenza di ipotesi di somministrazione illecita dell’appaltatore e utilizzo illecito della manodopera da parte del committente. In tale situazione la legge riconosce al lavoratore particolari tutele; esso, infatti, può richiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dello pseudo-committente. Oltre a ciò, qualora il personale ispettivo riscontri elementi di fraudolenza nell’utilizzo del contratto matrice, ci si vedrà contestare la violazione amministrativa, con la conseguente “prescrizione obbligatoria (per pseudo committente e pseudo appaltatore) volta a far cessare la condotta antigiuridica attraverso l’assunzione dei lavoratori alle dirette dipendenze dell’utilizzatore per tutta la durata del contratto”. In ultimo, la più volte richiamata circolare interviene chiarendo le fattispecie penali connesse all’utilizzo illegittimo del contratto matrice: la somministrazione fraudolenta e l’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La prima ipotesi, introdotta (o meglio, reintrodotta) nel nostro ordinamento dal c.d. Decreto Crescita, si ha quando la somministrazione sia posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore. L’altra ipotesi a rilievo penale è rappresentata dalla c.d. norma sul “caporalato”. L’attuale formulazione voluta dal Legislatore estende in capo al datore di lavoro la responsabilità che era prima in capo al solo “caporale”. Indicatori della condotta fraudolenta è l’utilizzo e/o assunzione di manodopera sfruttando e approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori stessi. È opportuno sottolineare come il datore di lavoro sia identicamente responsabile anche quando la medesima manodopera non sia reclutata tramite il caporalato. Lo stato di bisogno pare potersi identificare con l’impossibilità, per il lavoratore, di non accettare un’offerta abusiva, in quanto si trova in una situazione di vulnerabilità (si immagini, ad esempio, l’impiego di migranti). A ciò si aggiunga lo sfruttamento, ovvero qualunque “comportamento, anche se posto in essere senza violenza o minaccia, che inibisca o limiti la libertà di autodeterminazione della vittima senza che sia necessario realizzare quello stato di totale e continuativa soggezione che caratterizza il delitto di riduzione in schiavitù”.
A tutto ciò si aggiunga, soprattutto in appalti labour intensive, che vi sono aziende applicanti contratti collettivi non dotati della comparata rappresentatività e che realizzano, in tal modo, un distorto effetto dumping, a cui consegue un elevato rischio di vertenzialità con i lavoratori. In virtù di quanto sin qui visto, quindi, “l’arcivescovo di Costantinopoli” non si può far guidare nell’esternalizzazione solo dalla ricerca del prezzo più basso, ma occorre un’attenta e puntuale valutazione dei soggetti ai quali ci si affida per la realizzazione di un’opera, di un servizio o per l’utilizzo della manodopera.
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