12 Dicembre 2018

Documentazione di lavoro: la conservazione nel rispetto della privacy

di Rossella Schiavone

Alla luce del Regolamento UE 2016/679, i documenti di lavoro vanno conservati nel rispetto del principio della limitazione della conservazione in forza del quale i dati personali dei lavoratori vanno conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati o nel rispetto del maggior termine di conservazione individuato sulla base di una norma nazionale o europea. Si analizza, quindi, il termine di conservazione massimo ammesso per i principali documenti di lavoro.

 

I principi del GDPR da rispettare

La conservazione della documentazione di lavoro da parte dei datori di lavoro e dei professionisti che, ai sensi della L. 12/1979, si occupano di tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei lavoratori dipendenti per conto dei loro clienti, è funzionale all’attività di verifica degli organi ispettivi e giudiziari, per cui, in materia, occorre rispettare quanto stabilito dalle varie norme.

I tempi di conservazione, inoltre, devono rispettare il Regolamento UE 2016/679 in materia di privacy e, in particolare, i principi di:

  • limitazione della finalità;
  • minimizzazione dei dati;
  • limitazione della conservazione;

di cui all’articolo 5, GDPR:

Articolo 5 – Principi applicabili al trattamento dei dati personali

I dati personali sono: (…)

b) raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità; un ulteriore trattamento dei dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici non è, conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, considerato incompatibile con le finalità iniziali («limitazione della finalità»);

c) adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati («minimizzazione dei dati»); (…)

e) conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; i dati personali possono essere conservati per periodi più lunghi a condizione che siano trattati esclusivamente a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, fatta salva l’attuazione di misure tecniche e organizzative adeguate richieste dal presente regolamento a tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato («limitazione della conservazione»)”.

Il considerando n. 39 del Regolamento chiarisce che:

  • le finalità specifiche del trattamento dei dati personali dovrebbero essere esplicite e legittime e precisate al momento della raccolta di detti dati personali;
  • i dati personali dovrebbero essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario per le finalità del loro trattamento.

Inoltre, per il citato considerando, da quanto sopra scaturisce l’obbligo, in particolare, di assicurare che il periodo di conservazione dei dati personali sia limitato al minimo necessario.

Inoltre, i dati personali dovrebbero essere trattati solo se la finalità del trattamento non è ragionevolmente conseguibile con altri mezzi e, onde assicurare che i dati personali non siano conservati più a lungo del necessario, il titolare del trattamento dovrebbe stabilire un termine per la cancellazione o per la verifica periodica.

Tale verifica periodica dovrebbe essere finalizzata a eliminare i dati non più utili rispetto alle finalità perseguite.

Successivamente al raggiungimento del limite del periodo di conservazione è, teoricamente, possibile continuare a conservare i dati con una modalità che non renda identificabile l’interessato. L’utilizzo dei dati successivamente al raggiungimento della finalità o successivamente al termine di conservazione individuato sulla base di una norma nazionale o europea porterebbe a un abuso.

Sempre in materia, è utile ricordare che tutta la documentazione di lavoro dei dipendenti e collaboratori contiene dati personali e, in alcuni casi, quantomeno anche dati relativi alla salute e altri dati particolari di cui all’articolo 9, GDPR, che possono essere trattati dai datori di lavoro/titolari del trattamento senza consenso, in quanto il trattamento:

  • è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale;
  • è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del nostro diritto.

Posto ciò, occorre tener anche presente che il GDPR stabilisce il principio di responsabilizzazione in capo al titolare del trattamento.

Infine, si rammenta che coloro che si occupano di consulenza del lavoro possono trattare tali dati per conto del titolare del trattamento loro cliente in virtù di un contratto che li nomini responsabili esterni del trattamento e che li vincoli al titolare del trattamento.

Posto che possono essere nominati responsabili del trattamento solo i soggetti che presentino garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate, in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del Regolamento e garantisca la tutela dei diritti dell’interessato, il contratto tra titolare e responsabile deve indicare la materia disciplinata e la durata del trattamento, la natura e la finalità del trattamento, il tipo di dati personali e le categorie di interessati, gli obblighi e i diritti del titolare del trattamento e deve prevedere quanto altro stabilito dall’articolo 28, Regolamento UE 2016/679.

 

I vecchi libri paga e matricola

Ai sensi del decreto del Ministero del lavoro del 9 luglio 2008, fino al periodo di paga relativo al mese di dicembre 2008 i datori di lavoro hanno potuto adempiere agli obblighi di istituzione e tenuta del LUL, mediante la corretta e regolare tenuta del libro paga, nelle sue sezioni paga e presenze.

L’articolo 6, comma 2, D.M. 9 luglio 2008, ha, altresì, dimezzato, gli obblighi di conservazione, fissando in 5 anni dalla data dell’ultima registrazione l’obbligo in questione riferito ai vecchi libri paga e matricola. Per la circolare n. 20/2008 del Ministero del lavoro gli organi di vigilanza, anche nelle ipotesi di verifiche che attengono alla ricostruzione dei crediti contributivi nel termine decennale, devono acquisire la documentazione d’ufficio o da parte del lavoratore denunciante senza gravare il soggetto ispezionato.

Quindi, in definitiva, i libri paga e matricola vanno conservati per legge solo per 5 anni dall’ultima registrazione.

Alla luce dell’articolo 3, commi 9 e 10, L. 335/1995, e della circolare Inps n. 31/2012, a decorrere dal 1° gennaio 1996 i contributi dovuti per il finanziamento del Fondo pensioni lavoratori dipendenti e di tutte le altre Gestioni pensionistiche obbligatorie si prescrivono in 5 anni; tuttavia, può essere mantenuto il termine prescrizionale decennale qualora il lavoratore o i suoi superstiti presentino all’Istituto una denuncia entro il termine di 5 anni dalla scadenza dei contributi per i quali si chiede il recupero.

Alla luce di quanto sopra, potrebbe tornare utile al datore di lavoro conservare i libri matricola e paga per un tempo più ampio dei 5 anni obbligatori per legge.

Alla luce, però, del principio di limitazione della conservazione di cui al Regolamento UE 2016/679 e del principio di accountability, il titolare del trattamento datore di lavoro potrebbe, a parere di chi scrive, giustificare la conservazione di tale documentazione per massimo 10 anni, proprio in virtù del termine prescrizionale decennale dei contributi in presenza di una denuncia da parte del lavoratore interessato o di un suo erede.

 

Il LUL

Il LUL, che, in un’ottica di semplificazione degli adempimenti relativi alla gestione del rapporto di lavoro, dal febbraio 2009 ha sostituito appieno i vecchi libri di matricola e paga, va conservato per 5 anni dalla data dell’ultima registrazione, per espressa previsione dell’articolo 6, comma 1, D.M. 9 luglio 2008.

In merito, si segnala che il vademecum sul LUL del Ministero del lavoro ha chiarito che l’obbligo di conservazione si riferisce a documenti dismessi e, quindi, non più operativi, che si configura nel caso di cambio di sistema o di modalità della tenuta del LUL.

Per il LUL le considerazioni sono analoghe a quelle fatte per i libri di paga e matricola, evidenziando, altresì, che già il citato D.M. 9 luglio 2008 ha stabilito l’obbligo di custodire il LUL nel rispetto del D.Lgs. 196/2003, in materia di protezione dei dati personali.

Anche in questo caso, infatti, il datore di lavoro potrebbe ritenere utile conservare il LUL per un periodo maggiore dei 5 anni minimi richiesti, e, per rispettare la normativa sulla privacy, tale periodo potrebbe al massimo estendersi fino a 10 anni dall’ultima registrazione per i motivi già illustrati a proposito dei libri matricola e paga ovvero per il termine prescrizionale decennale dei contributi in presenza di una denuncia da parte del lavoratore interessato o di un suo erede.

Inoltre, occorre tener presente che, per il principio di minimizzazione dei dati, sul LUL vanno registrati solamente i dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati, per cui, a titolo esemplificativo, per i lavoratori in somministrazione, l’utilizzatore dovrà limitarsi ad annotare i dati identificativi del lavoratore (nome, cognome, codice fiscale, qualifica e livello di inquadramento contrattuale, agenzia di somministrazione), così come previsto dalla citata circolare n. 20/2008 del Ministero del lavoro.

Infine, una specifica a parte va fatta in caso di appalto e subappalto.

Nel caso di specie, il vademecum sul LUL del Ministero del lavoro ha previsto che, poiché il Libro Unico attesta la registrazione dei dati retributivi e delle presenze per i singoli lavoratori iscritti, il committente e l’appaltatore, previa apposita clausola nel contratto di appalto o di subappalto, potranno richiedere alla controparte (appaltatore o subappaltatore) di fornire, nel rispetto delle prescrizioni relative alla privacy, le scritture annotate nel LUL riferite ai lavoratori impegnati nell’appalto o nel subappalto, ai fini dei controlli inerenti alla responsabilità solidale.

In merito, per chi scrive, alla luce dei principi illustrati di cui al Regolamento UE 2016/679, il committente e l’appaltatore, in caso, rispettivamente, di appalto o subappalto, potranno conservare la copia del LUL ricevuta dall’appaltatore o subappaltatore per il tempo entro cui sussiste la responsabilità solidale ovvero entro il termine decadenziale di 2 anni dalla cessazione dell’appalto.

Tale termine decadenziale per l’esercizio dei relativi diritti opera non solo con riferimento all’esercizio dell’azione da parte del lavoratore creditore di somme di natura retributiva, ma anche nei confronti degli Istituti, creditori di somme dovute a titolo contributivo.

Per quanto concerne, invece, il subappalto, occorre tenere presente che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha specificato che il limite dei 2 anni, in tal caso, non può che decorrere dalla cessazione dei lavori del subappaltatore e non già dall’eventuale successiva data di conclusione dell’appalto principale. Tale limite sarà anche da tener presente ai fini della durata massima di conservazione nel rispetto della normativa sulla privacy.

 

Il registro infortuni

L’obbligo di tenuta, registrazione e conservazione del registro degli infortuni, di cui all’articolo 403, D.P.R. 547/1955, è stato abrogato dall’articolo 21, D.Lgs. 151/2015, a far data dal 23 dicembre 2015.

Lo stesso va comunque conservato per almeno 4 anni dalla data di vidimazione, se non è mai stato utilizzato, o dalla data dell’ultima registrazione.

Lo stesso obbligo di conservazione vale per le schede individuali elaborate e stampate periodicamente nel caso in cui i datori di lavoro abbiano, a suo tempo, optato per la tenuta automatizzata del registro infortuni.

Per quanto concerne la privacy, non si ritiene vi siano giustificazioni che potrebbero consentire una conservazione del registro infortuni o delle schede individuali per un periodo maggiore dei suddetti 4 anni.

 

Il prospetto paga

Per l’articolo 1, L. 4/1953, sussiste l’obbligo per i datori di lavoro di consegnare, all’atto della corresponsione della retribuzione, ai lavoratori dipendenti, con esclusione dei dirigenti, un prospetto di paga in cui devono essere indicati nome, cognome e qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli assegni familiari e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute.

Tale prospetto paga deve portare la firma, sigla o timbro del datore di lavoro o di chi ne fa le veci.

Ai sensi dell’articolo 39, comma 5, D.L. 112/2008, con la consegna al lavoratore di copia delle scritturazioni effettuate nel LUL il datore di lavoro adempie agli obblighi di cui alla L. 4/1953.

Nella pratica, la gran parte dei datori di lavoro adempie all’obbligo di legge consegnando copia del LUL, ma – come il vademecum ministeriale chiarisce – sebbene un criterio di semplificazione porti a concepire un documento identico, non vi è alcun obbligo di corrispondenza fisica fra prospetto di paga e LUL.

Pertanto, il primo, purché nel pieno rispetto della L. 4/1953, potrà essere formato in momenti differenti rispetto al LUL e con qualsiasi modalità.

Tuttavia, si rammenta che è necessario che i dati retributivi, fiscali e previdenziali contenuti nei 2 documenti devono essere coincidenti per il medesimo periodo di riferimento.

Qualora, quindi, si opti per la consegna del prospetto paga, la sua conservazione potrebbe servire per dimostrare l’avvenuta consegna e l’avvenuto pagamento della retribuzione dovuta; infatti, anche se la sottoscrizione non costituisce una presunzione assoluta della corrispondenza tra il percepito e il dovuto, potrebbe sicuramente essere un documento idoneo su cui fondare una presunzione relativa di adempimento dell’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro.

Il prospetto paga potrebbe, quindi, essere conservato, anche da un punto di vista privacy, per 5 anni, termine giustificato dalla necessità di dimostrare l’avvenuta consegna al lavoratore.

 

Comunicazione di assunzione e lettera di assunzione

L’articolo 40, D.L. 112/2008, convertito dalla L. 133/2008, prevede che, all’atto dell’assunzione, i datori di lavoro, prima dell’inizio dell’attività di lavoro, sono tenuti a consegnare ai lavoratori una copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 9-bis, comma 2, D.L. 510/1996, convertito, con modificazioni, dalla L. 608/1996, e successive modificazioni, adempiendo in tal modo anche alla comunicazione di cui al D.Lgs. 152/1997.

La comunicazione obbligatoria va conservata nel limite prescrizionale quinquennale, ma, da un punto di vista privacy, si potrebbe giustificare una conservazione decennale, sempre in virtù del termine di prescrizionale decennale dei contributi in presenza di una denuncia da parte del lavoratore interessato o di un suo erede.

La comunicazione obbligatoria, infatti, potrebbe servire per dimostrare la data di inizio del rapporto di lavoro e, quindi, dell’insorgenza dell’obbligo contributivo.

 

Documentazione relativa ad assenze a vario titolo

Sempre per la supposta necessità di dover dimostrare la correttezza dei versamenti contributivi, anche la conservazione della documentazione relativa ad assenze a vario titolo – come documentazione attestante assenze per malattia, permessi ex L. 104/1992, permessi per cura degli invalidi, etc.- potrebbe essere giustificata, per la privacy, fino a un massimo di 10 anni.

 

Adempimenti in materia previdenziale e assicurativa

Infine, sempre alla luce del principio di limitazione della conservazione di cui al Regolamento UE 2016/679 e del principio di accountability, il titolare del trattamento datore di lavoro potrebbe giustificare la conservazione della documentazione inerente agli adempimenti in materia previdenziale e assicurativa per massimo 10 anni e sempre in forza del termine prescrizionale decennale dei contributi in presenza di una denuncia da parte del lavoratore interessato o di un suo erede.

 

I contratti a termine

Discorso a parte merita la questione relativa alla documentazione relativa ai contratti a termine stipulati con i lavoratori, che rischia di creare non pochi problemi in ambito privacy.

Infatti, alla luce del D.Lgs. 81/2015, occorre tenere il conto di tutti i rapporti di lavoro intercorsi con i dipendenti, in quanto la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i 24 mesi nell’arco dell’intera vita lavorativa, pena la trasformazione dalla data del superamento.

Inoltre, poiché ai fini del computo dei 24 mesi si tiene, altresì, conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato, occorre tenere il conto anche di tutti periodi in cui i lavoratori sono stati inviati in missione presso l’azienda.

In tal caso, ci si chiede se tali giustificazioni siano sufficienti a permettere una conservazione molto lunga dei dati nel tempo – pur nel rispetto del principio di minimizzazione e fatta salva l’attuazione di misure tecniche e organizzative adeguate a tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato – che, in genere, è esclusa dalla normativa privacy.

A parere di chi scrive, nel caso di specie, l’identificazione degli interessati è necessaria almeno fino alla data della pensione del lavoratore e tale arco di tempo non è certamente superiore al conseguimento delle finalità per le quali i dati sono trattati.

Quindi tale lunga conservazione, entro e non oltre la data massima entro cui il lavoratore possa andare in pensione, è legittima, anche se forse sarebbe il caso che il Garante per la protezione dei dati personali si pronunciasse in merito.

 

Contribuzione figurativa ai fini pensionistici

Per quanto concerne, poi, la dichiarazione richiesta al datore di lavoro, in prossimità della pensione dei lavoratori, della contribuzione figurativa ai fini pensionistici per i periodi di assenza dal lavoro per gravidanza, puerperio e malattia del figlio, si segnala che, essendo i dati necessari per l’autodichiarazione datoriale già in possesso dell’Inps, non è possibile, ai sensi del GDPR, conservarli oltre i 10 anni, per il più volte citato termine prescrizionale decennale dei contributi in presenza di una denuncia da parte del lavoratore interessato o di un suo erede.

È pur vero che l’Istituto ha difficoltà a reperire tali dati, ma, di fatto, non sussiste una norma di legge che autorizza una conservazione dei dati oltre il citato termine, che, quindi, salvo un intervento auspicabile del Garante, che dovrebbe essere portato a conoscenza di tali difficoltà, non sarebbe legittima.

 

Malattia professionale

Particolarmente degna di nota è la questione relativa alla malattia professionale, in quanto, anche se la norma prevede un termine prescrizionale triennale dell’azione per conseguire la prestazione assicurativa, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 544/1990, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 112, comma 1, D.P.R. 1124/1965, nella parte in cui prevede che la prescrizione dell’azione giudiziaria decorra da un momento anteriore alla morte dell’assicurato, anche quando la malattia professionale non sia accertabile se non mediante, o previo, esame autoptico.

Conseguentemente, nel caso di specie i dati necessari per la denuncia dovrebbero essere conservati fino a 3 anni dopo la morte del lavoratore, informazione che, peraltro, non sempre è possibile che il datore di lavoro conosca, perché il rapporto potrebbe essersi interrotto anche molti anni prima del decesso.

In questo caso sarebbe, quindi, teoricamente legittima una lunga conservazione, anche se è sempre auspicabile un intervento del Garante in materia.

 

Conclusioni

In conclusione, si comprende come nell’ambito del rapporto di lavoro molto spesso diventi necessario conservare la documentazione relativa per tempi anche lunghissimi (vedi per esempio la malattia professionale), a volte anche e solo nell’interesse del lavoratore (vedi contribuzione figurativa ai fini pensionistici).

In questo ambito sarebbe, quindi, auspicabile una soluzione indicata dal Garante, che potrebbe essere l’autorizzazione a conservare tali dati per un lungo tempo o potrebbe anche essere il mascheramento dei dati dopo il perseguimento della finalità, con la possibilità di reidentificare l’interessato in caso di necessità, grazie alla comunicazione di una chiave di decriptazione dei dati che potrebbe essere trasmessa a un soggetto terzo, quale lo stesso Inps o Inail.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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