6 Settembre 2018

Il Decreto Dignità: un gattopardo che si morde la coda

di Evangelista Basile

Il Decreto Dignità, D.L. 87/2018, è stato convertito con L. 96/2018. Le modifiche in sede di conversione, in verità, non hanno stravolto l’impianto del D.L., il quale – partito con lo scopo (o per meglio dire lo slogan) di abrogare il Jobs Act – in realtà, era poi venuto alla luce molto più timidamente. Nessun ritorno al vecchio articolo 18, nessuna rivoluzione copernicana, ma ancora la conferma di un sistema di tutele a netta prevalenza obbligatorie in luogo di quelle reali e di quel concetto di crescita delle stesse in funzione dell’anzianità di servizio che aveva caratterizzato la riforma renziana. Più che altro, ciò che sembra caratterizzare la nuova virata governativa è la velleità di ridurre il precariato a colpi di penna, togliendo e aggiungendo qua e là, per stringere le maglie della flessibilità.

Ma l’equazione meno flessibilità uguale meno precarietà, oltre a non trovare un riscontro diretto sul mercato del lavoro, rischia di mandare nella confusione più totale gli operatori economici: la precarietà del lavoro è infatti sempre più spesso accompagnata dalla precarietà delle leggi del lavoro che, in continua (de)evoluzione, rendono sempre più incerti imprese e lavoratori che, come è ovvio, hanno necessità di un equilibrio legislativo per programmare e stabilizzare i propri obiettivi e gli organici.

Insomma, cambiare tutto perché nulla cambi: questo probabilmente l’effetto sulla precarietà della nuova legge. Vengono così riconfermati i limiti di durata dei contratti a termine (24 mesi anziché 36) e l’acausalità degli stessi solo per i primi 12 mesi (oltre tale limite, così come per rinnovi, l’apposizione del termine dovrà essere giustificata da causali tipizzate per legge). Lungi dall’essere una riforma bolscevica, tale soluzione condurrà a un sicuro (ed empiricamente dimostrato) aumento del contenzioso, la cui alea – risiedendo tutta nell’istruttoria sulla sussistenza delle causali – di certo non porterà a nulla di stabile.

Di buono c’è che, in sede di conversione, sono stati presi piccoli accorgimenti sull’estensione della disciplina per i contratti a termine a quelli di somministrazione, chiarendo – come era ragionevole – che l’apposizione delle causali è da riferirsi all’utilizzatore e non all’agenzia per il lavoro. Niente panico almeno sul punto.

Infine, un ultimo ritocco è stato previsto con l’introduzione di un regime transitorio che prevede l’applicabilità della nuova disciplina ai contratti a termine stipulati a partire dalla data di entrata in vigore del decreto (14 luglio 2018) e un doppio binario per i rinnovi e le proroghe di quelli già in essere, a cui la disciplina troverà applicazione solo successivamente al 31 ottobre 2018. La transitorietà pone però ancora qualche dubbio: i rinnovi e le proroghe stipulate prima del 31 ottobre esulano anche dall’applicazione del termine di durata massima di 24 mesi e all’apposizione delle causali ove sforassero i 12 mesi complessivi? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

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