24 Luglio 2018

Il Decreto Dignità: metamorfosi ciclica di un concetto

di Evangelista Basile

Il Decreto Dignità (D.L. 12 luglio 2018, n.  87), si è posto l’obiettivo “straordinario ed urgente” di combattere il precariato. Partito con lo scopo di abrogare il Jobs Act, in realtà, è poi venuto alla luce molto più timidamente. Lo schema delle “tutele crescenti” – fulcro della riforma renziana – è rimasto infatti sostanzialmente intatto. Nessun ritorno al vecchio articolo 18, dunque, ma anzi, in perfetta continuità con quanto accaduto nel 2015, il sistema di tutele rimane non solo con una netta prevalenza delle tutele indennitarie in luogo di quelle reintegratorie, ma anche ancorata a quel concetto di crescita delle tutele in funzione dell’anzianità di servizio che aveva caratterizzato la precedente riforma. Quello che invece è stato ritoccato, all’articolo 3 del decreto, è il quantum delle indennità in caso di licenziamento illegittimo: l’indennità minima, infatti, è passata dalle 4 alle 6 mensilità, mentre quella massima dalle 24 alle 36. Visto che la norma continua ad applicarsi ai soli assunti dopo il 7 marzo 2015 (e che quindi hanno da poco superato la soglia dei 3 anni di anzianità), gli effetti della riforma sulle indennità massime si vedranno per lo più – e sempre che il decreto venga convertito in legge – fra un po’ di anni. Per ora una sola certezza: un indennizzo secco di 6 mensilità nei primi 3 anni di rapporto. La norma, fra l’altro, ben si allinea con quanto era previsto dal D.Lgs. 23/2015 in tema di offerta di conciliazione agevolata, in cui era fissata un’indennità massima di 18 mensilità, ovvero esattamente il 50% delle 36 mensilità massime di risarcimento.

Ma la scelta del Legislatore di attestarsi sulla scia delle tutele obbligatorie – seppur maggiorate – non è affatto un’idea nuova: già i Governi guidati da Berlusconi, nella metà degli anni ’90 prima e nei primi 2000 poi, avevano provato a scalfire l’allora marmoreo articolo 18, proponendo soglie di indennità addirittura più alte di quelle oggi ritenute “dignitose”. Il risultato? I sindacati urlarono allo scontro sociale, vi furono manifestazioni di piazza e l’allora Governo fu costretto a fare un passo indietro. All’epoca, i sindacati – che, ironia della sorte, si ritrovarono sul tema più compatti e forti che mai – definirono il fallimento della riforma di Berlusconi una vera vittoria per la “dignità” dei lavoratori che era stata, così, tutelata.

Ebbene, a distanza di circa 20 anni, quel tentativo fallito di riforma dell’articolo 18, che, a detta dei sindacati, aveva riconsegnato ai lavoratori italiani la loro dignità, viene di fatto oggi portato alla ribalta (e in termini peggiorativi) proprio con il nome di Decreto Dignità. Quando si dice che la lingua di un popolo è in continua evoluzione.

 

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